mercoledì 26 dicembre 2012

Blocco 52

Il cadavere di Utopia riposa dietro una lapide del “blocco 52” del cimitero di Catanzaro, sipario della vicenda umana e politica del comunista Luigi Silipo che Lou Palanca ha recuperato negli anfratti della storia, soffiando sulla polvere accumulatasi in quasi cinquant’anni di oblio. Lo pseudonimo dell’autore collettivo (ispirato a Massimo “O Rey” Palanca, idolo giallorosso specialista del gol su calcio d’angolo negli anni Settanta-Ottanta) si rifà all’esperienza avviata negli anni Novanta in Italia da Luther Blissett e proseguita da Wu Ming, culminata con l’esperienza del New Italian Epic, genere di romanzo che mescola realtà storica e finzione letteraria.
Blocco 52. Una storia scomparsa, una città perduta, edito da Rubbettino e scritto a dieci mani (Fabio Cuzzola, Valerio De Nardo, Nicola Fiorita, Maura Ranieri e Danilo Colabraro), si snoda su più piani e offre diverse chiavi di lettura. Personaggi reali, chiamati per nome e cognome, che incastrano le proprie esistenze con la trama del romanzo (“un delitto che dalla Calabria degli anni Sessanta arriva fino a Praga”), fotografie in bianco e nero di vicende da narrare perché, “se non c’è nessuno che fa memoria, è come se le storie non fossero mai esistite”.
L’assassinio dell’eretico Luigi Silipo (1 aprile 1965), dirigente di primo piano del partito comunista in Calabria che vede progressivamente incrinarsi le certezze granitiche sulla bontà del centralismo democratico e sulla prassi del comunismo internazionale, da “omicidio impunito, dimenticato o da dimenticare” assurge a metafora del bilancio amaro di una stagione politica e di una generazione costretta a tapparsi le orecchie per non sentire “il rumore che fanno i sogni che abortiscono”.
Il passato ha l’odore dell’aria ammorbata dal fumo delle sigarette nelle sezioni di partito e nelle sale cinematografiche, il colore delle palline usate come tappo per le bottigliette della gazzosa, le inquadrature della cinepresa di Pasolini in “Comizi d’amore”, la lezione sempre attuale di don Milani, le canzoni di una generazione che avrebbe voluto scalare il cielo e sognava di portare la fantasia al potere. Blocco 52 è la Catanzaro dei “bassi” invivibili e della speculazione edilizia, delle carte di Piazza Fontana incredibilmente sepolte in uno scantinato; è la Reggio degli anni Settanta, la controcultura e le bombe, l’intreccio inquietante di fascismo, ’ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Ma è anche la crisi materiale e morale della società attuale, sulla quale si posa lo sguardo ora amaro, ora ironico, di Vincenzo Dattilo, alter ego del “pendolare fisso” Fabio Cuzzola, dal quale prende in prestito anche il blog Terra è libertà.
Storia grande e piccole storie si intrecciano e si tengono assieme, seguendo il filo conduttore di un omicidio i cui possibili moventi (politico, passionale, affaristico-criminale) conducono a una lapide spoglia, abbandonata e dimenticata da tutti. Sullo sfondo, una serie di “vinti” (Nina, che mantiene i contatti con i futuri protagonisti della Primavera di Praga; Maria Grazia, che perde la verginità sotto lo sguardo corrucciato di Marx, Engels e Lenin; Caterina, vittima rassegnata di una società patriarcale) e il più “vinto” di tutti: Gavino Piras, funzionario del partito comunista mandato da Roma per gestire, all’indomani della morte del “Migliore”, lo scontro tra amendoliani e ingraiani e che sull’altare dell’ideale politico sacrifica amore e felicità personale.
La rivoluzione soffoca in tasca, come i pugni del celebre film di Marco Bellocchio, ed è amara consolazione rifugiarsi nell’illusione “che il cielo sia così vicino che lo puoi toccare con un dito”, parallelismo irriverente tra l’utopia comunista e l’esistenza della prostituta Assunta. Impegno politico e ricerca della verità si rivelano una battaglia persa, “ma le battaglie perse – ci ricorda Dattilo – sono le uniche che vanno combattute. O, perlomeno, le uniche che meritano il bacio sulle labbra che le trasforma in un libro”.

domenica 23 dicembre 2012

Un tuffo nel passato, uno sguardo sul futuro

Torno sempre con gioia al liceo scientifico “Enrico Fermi”, che a distanza di venti anni continuo a considerare un po’ casa mia. Un luogo dello spirito che racchiude ciò che ero e quel che sono diventato anche grazie ai cinque anni trascorsi tra quelle mura. E poco conta se, all’epoca, l’unico istituto superiore del nostro comune non fosse ospitato negli attuali locali. Non si è mai palpitato per un vestito. Per l’anima che vi sta dentro, sempre.
Non ho trovato i miei vecchi professori; “don” Rocco ci ha lasciati ormai da diversi anni, “don” Nino e la “signora” (mai conosciuto il suo vero nome) credo si siano pensionati. Eppure sento quell’aria e la riconosco. Odore di gioventù, di sogni e di speranze, di banchi incisi col coltellino, di scherzi terrificanti, di sicurezza ostentata per nascondere paure inconfessabili, di storie d’amore che sembravano eterne, di ansia per l’approssimarsi dell’interrogazione o del compito in classe, di entusiasmo e di noia, di frasi “storiche” riportate sul diario, di allegria per un niente e di pianti per lo stesso niente che agli occhi di un adolescente spesso diventa (ed è) tutto.
Inutile dire che ho apprezzato le parole usate nei miei confronti dal professore Pietro Violi e dalla professoressa Carmela Cutrì. E va da sé che mi ha fatto molto piacere parlare davanti a tanti giovani dei miei libri e di questo blog. Mi hanno emozionato gli interventi di Gresy e di Maria Grazia, la freschezza sui visi dei ragazzi e delle ragazze del mio paese. Sono i volti di chi ha il dovere di sognare e dare una nuova speranza ai sognatori che fummo, quand’era giusto sognare perché, come per il viaggio, non è tanto la meta ciò che realmente conta, ma il viaggio stesso, il tragitto che si compie per giungere (forse) a destinazione. La ricchezza dell’uomo è il suo eterno interrogare la realtà che lo circonda e se stesso, alla ricerca di qualcosa che talvolta non si riesce a definire e che invece, semplicemente, è vita.
Ho incontrato la Sant’Eufemia di domani e, per me, è stato il più bel regalo di Natale. Non tutto è nero, non tutto è perso.




giovedì 13 dicembre 2012

Titoli di coda

Se non è schizofrenia questa, non si capisce bene cosa mai possa essere. Un disperato tentativo di alzare la voce, ora che nessuno più l’ascolta (esclusi, ovviamente, amazzoni e beneficiati non privi del senso della riconoscenza)?
Eravamo da tempo abituati ai giornalisti che “travisano” il pensiero di Berlusconi: “ho detto esattamente il contrario”, difatti, il refrain più ripetuto dal leader pidiellino negli ultimi diciotto anni. Con conseguente profluvio di smentite, precisazioni, attacchi alla stampa infeudata al Cremlino. Ora però siamo al “fregolismo” spinto: la smentita pomeridiana di ciò che si era dichiarato la mattina, con la velocità dei cambi di costume del celebre trasformista romano. Solo nel teatro dell’assurdo accade che un leader di partito tolga la fiducia al governo, condannandone in toto l’operato, per poi offrire al capo di quello stesso governo la leadership del proprio schieramento politico.
Il pensiero corre, inevitabilmente, ai sostenitori dell’ex re Mida del centrodestra, costretti a rincorrere il capo e assecondarne l’umore ballerino. Ma anche alla frustrazione di “formattatori” e sostenitori delle primarie nel Pdl, passati dalle lusinghe all’irrilevanza. Se nessuna meraviglia può nascere dal riscontrare il rapidissimo allineamento dei cortigiani ai desiderata arcoriani, qualche perplessità sorge nel constatare la mancanza di spina dorsale in chi pure autonomia va cercando.
Forse che i tempi non siano già maturi per emanciparsi da un abbraccio che rischia di trascinare tutti a fondo? O è solo tatticismo, guadagnare tempo e “vedere le carte” di chi, al centro, ha ancora parecchi nodi da sciogliere? L’unico dato certo è che, ora come sempre a partire dal 1994, tutto ruota attorno a Berlusconi, che appunto per questo vorrebbe indire l’ennesimo referendum sulla propria persona. Perché, checché se ne dica, dalla sua discesa in campo non c’è stata consultazione elettorale che non sia stato un plebiscito pro o contro il cavaliere. È in questo avvitamento l’anomalia di un sistema politico incapace di fare dell’Italia un paese normale.
Berlusconi sa che se passa la mano è l’8 settembre. Un fuggi-fuggi generale che già s’intuisce dal fermento dei moderati “montiani” e degli ex aennini. D’altro canto, il cerchio attorno al bunker si stringe di giorno in giorno. La reazione europea di fronte alle ultime uscite è al limite dell’ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano, ma è anche il sipario che si chiude su di una vicenda politica ormai al tramonto.

giovedì 6 dicembre 2012

Sete di verità

C’è una bimba di neanche cinque anni che non rivedrà più la mamma. C’è un bimbo, nato appena due settimane fa, che quella mamma non la conoscerà mai. C’è un marito, ci sono genitori e ci sono fratelli accomunati da un unico, grande, inspiegabile dolore. C’è una comunità scossa, perché in un piccolo paese tutti conoscono tutti, direttamente o indirettamente.
C’era Patrizia Pillari, 29 anni soltanto e una vita davanti, due figli da accudire, un marito da amare. C’è invece una famiglia distrutta e le macerie di una felicità che purtroppo non è mai per sempre. E poi c’è la sensazione, terribile, che le cose non siano andate per il verso giusto e che la fatalità non sia argomento sufficiente a spiegare l’immane tragedia. Se così fosse, ci sarebbero responsabilità da accertare e sanzionare. Non perché sia possibile lenire un dolore talmente grande, ma perché non accada più che una ragazza, portata d’urgenza in ospedale dodici giorni dopo il parto, venga rispedita a casa nonostante i sintomi evidenti di problemi di circolazione, tra l’altro noti al personale medico che ne aveva seguito la gestazione.
La “Gazzetta del Sud” di oggi ha dato notizia della denuncia presentata ai carabinieri dal marito Vincenzo Oliveri e del trasporto della salma di Patrizia in ospedale, all’indomani del funerale, per lo svolgimento dell’esame autoptico. Mai come in questo caso occorre essere cauti e attendere che la giustizia faccia il suo corso, mettendo da parte l’emotività e i tanti cattivi retropensieri. Sull’errore umano e sull’angoscia che assale noi cittadini di serie B anche quando andiamo in ospedale per un banale controllo di routine.
Senza volere anticipare alcunché, né aggiungere niente a quanto è ampiamente riscontrabile sullo stato della sanità in Calabria e in provincia di Reggio, non si possono nascondere la rabbia e lo sconcerto per il dramma di un settore che assorbe la maggior parte delle risorse finanziarie regionali e presenta standard qualitativi da terzo mondo. Non ci fidiamo dei nostri medici, né delle nostre strutture sanitarie. E non parlatemi del dramma degli ospedali costretti a chiudere. Dispiace, ovviamente, per chi ci lavora e ha una famiglia da mandare avanti. Ma sinceramente chi, avendone la possibilità, in presenza di una patologia seria si è mai fatto ricoverare in uno dei tanti ospedali della Piana e non ha invece preso il primo aereo o treno per il Nord, protagonista dei tristemente noti “viaggi della speranza”?
Sono troppi i casi di malasanità denunciati e ancor di più sono quelli non segnalati. E invece va denunciato tutto, non soltanto a tragedia compiuta. Basta con il malinteso senso di rispetto che fa apparire favore l’esercizio di un sacrosanto diritto. Chi sbaglia deve pagare. Chi sbaglia, in ospedale non ci deve mai più mettere piede.

domenica 2 dicembre 2012

Sullo svincolo autostradale

 

Non trovo superfluo ribadire che nessun eufemiese preoccupato per le sorti del paese non può che sostenere una battaglia giusta, negli obiettivi e nei metodi, chiunque se ne faccia promotore. Questo è il punto di partenza attorno al quale deve muovere ogni altro genere di discussione. Tutti vogliamo (vorremmo) lo svincolo, su questo non si discute. Anche se la sensazione che abbia ragione Mimmo Rositano e che i giochi siano stati fatti da diverso tempo è in realtà molto forte. Bisogna comunque tentare, per non rassegnarsi a un futuro di isolamento. Non è detto che ci si riesca, ma ciò non costituisce un motivo valido per rinunciare a priori alla rivendicazione di un principio sacrosanto: lo sviluppo delle infrastrutture deve essere funzionale alla crescita di un territorio, non alla condanna a morte delle sue attività produttive e alla marginalità sociale della comunità locale.
Nelle ultime settimane, il Comitato per il mantenimento dello svincolo e le amministrazioni comunali coinvolte hanno messo in campo diverse iniziative, a volte in sinergia, altre andando in ordine sparso. Non trovo scandaloso questo approccio. E non perché io sia particolarmente persuaso della bontà della strategia del generale prussiano von Moltke (“marciare divisi e colpire uniti”), uno che comunque di battaglie se ne intendeva. Non lo trovo scandaloso perché a volte ci sono scogli caratteriali difficili da superare. L’importante è che ci sia unità di intenti, che l’obiettivo finale sia per tutti identico. Fino a prova contraria, è bene fidarsi delle persone, soprattutto di quelle che con generosità si stanno spendendo per la causa.
È questa esigenza di remare tutti nella stessa direzione che a volte non emerge con chiarezza, specialmente sulle pagine dei giornali, tra le righe di resoconti che sembrano contraddire e smentire altri articoli.
Dispettucci, normale dialettica politica, legittime ambizioni personali, medaglie da appuntarsi. Qualsiasi definizione può andare bene. E ci sta che sia così. Però c’è una bella differenza tra la “soluzione alternativa”, che non contempla (evidentemente) il mantenimento del vecchio svincolo e il “ripristino delle condizioni originarie”, con il conseguente abbattimento delle gallerie artificiali fatte costruire nel nuovo tracciato. Comunque sia, al netto di qualche colpo basso, la priorità attuale è arrivare ad una soluzione che riduca al minimo i disagi alle popolazioni locali, con il rifacimento del vecchio svincolo o con la “valida” alternativa promessa entro il 15 dicembre.
A margine, una mia personalissima osservazione. Non conosco il personaggio, né è mia intenzione difenderne l’operato. Però mi sembra che il presidente dell’Anas Pietro Ciucci sia diventato una sorta di parafulmine, il bersaglio contro il quale scagliare ogni sorta di anatema, anche al di là delle sue effettive responsabilità. Che sono quelle di un tecnico che risponde alla politica. Per dirla in maniera cruda, più che prendere decisioni, Ciucci è uno che esegue ordini.

lunedì 26 novembre 2012

I voti alle primarie

Premessa: non ho votato alle primarie. L’ho fatto in passato e l’esperienza non è stata esaltante. Ho avuto però un attimo di esitazione ieri mattina. Confesso che se fossi riuscito a trovare il seggio ci sarei andato. C’era anche l’indirizzo sul sito “primarie bene comune”, ma stranamente, sul posto, neanche un’indicazione, un manifesto, niente di niente. Però stamattina abbiamo saputo di 200 voti a Bruno Tabacci (su 202 votanti). Un exploit rilevante per il candidato di Agazio Loiero in Calabria, a pochissimi voti dal risultato di Reggio Calabria, prima tra le città della provincia (215 voti, ma su 2.688 votanti). E questo mi basta per pensare che ho fatto bene a risparmiare quei due euro. Nichi Vendola ha preso un voto in meno, io ho evitato di rodermi nuovamente il fegato.
In Calabria le primarie hanno una credibilità prossima allo zero. Truppe cammellate e signori delle tessere gestiscono tutto. Per questo, può verificarsi (si è già verificato) che in certi paesi i voti alle elezioni politiche siano inferiori di quelli raccolti dal partito (o dai partiti) alle primarie. Per la stessa ragione, un voto “carbonaro” come quello di Sant’Eufemia, nel quale non c’è stata mobilitazione da parte di alcuno, nel quale nessun partito svolge attività politica da tempo immemorabile, può dare un esito così sorprendente. Chi doveva fare bella figura con Loiero l’ha fatta e Loiero, anche grazie a questo genere di consenso, avrà argomenti da esporre al tavolo delle candidature, perché su un 6% scarso a livello di coalizione nessuno è disposto a sputarci sopra.
Tralasciamo quindi il contesto regionale e spostiamoci su quello nazionale, basandoci sui dati ufficiosi. Hanno votato circa 3 milioni e 100 mila cittadini. Non tantissimi, ma neanche pochi, in tempi di generale disaffezione per la politica:

Bersani 8 – Ha fatto bene il suo compitino, che era quello di serrare le fila e respingere l’assalto dei rottamatori. La nomenclatura del partito si è schierata compatta in suo sostegno. Bisognerà vedere cosa, se la spunterà al ballottaggio, ciò comporterà in termini di mortificazione della richiesta di novità che sale prepotentemente dalla base e dai movimenti (44,9% in Italia; 54% in Calabria; 51,78% in provincia di Reggio Calabria).

Renzi 9 – È il vincitore morale delle primarie, capace di una mobilitazione che sfrutta al meglio le opportunità fornite dai social network. Personalmente, non mi sta molto simpatico, tranne che per l’affermazione “con noi, l’alleanza con Casini non si fa”. Sfonda in settori della società difficilmente raggiungibili dal Pd: la sua forza, ma anche il suo limite. L’interrogativo è: “cosa faranno i suoi elettori in caso di vittoria di Bersani?” (35,5% in Italia; 22,7% in Calabria; 24,19% in provincia di Reggio Calabria).

Vendola 6,5 – Bene al Sud, per fare bingo avrebbe dovuto superare il 20% e magari (il suo sogno segreto) arrivare al ballottaggio. Probabilmente è stato punito dal format del confronto televisivo: i tempi contingentati (domanda e risposta quasi secca) mal si addicono al suo stile oratorio. Era il candidato più a sinistra, ora dovrà cercare di capitalizzare il suo peso per dare, in sede di stesura del programma elettorale, risposte di sinistra alla crisi economica (15,6% in Italia; 16,5% in Calabria; 19,65% in provincia di Reggio Calabria).

Puppato 5 – Praticamente, era la “quota rosa” di queste primarie. Partiva svantaggiatissima: lei stessa ha ammesso di avere fatto solo 20 giorni di campagna elettorale e di non essere riuscita a toccare 6 regioni. Una candidatura quasi di testimonianza, che ha avuto un riscontro tutto sommato non fallimentare, se si pensa che poteva contare esclusivamente sull’endorsement dell’artista Marco Paolini (2,6% in Italia; 0,7% in Calabria; 0,85% in provincia di Reggio Calabria).

Tabacci 4 – Il più “vecchio” tra i candidati, aspirava a raccogliere preferenze tra la galassia ex e post democristiana del partito democratico e dei movimenti che a quella tradizione fanno riferimento. In Calabria, “Autonomia e diritti” dell’ex governatore Agazio Loiero. È stato un flop, appena appena mitigato dal discreto risultato ottenuto tra la Sila e l’Aspromonte (1,4% in Italia; 5,4% in Calabria; 3,74% in provincia di Reggio Calabria).

venerdì 23 novembre 2012

Strade, storia e storie di Sant'Eufemia

 
Ora ne posso parlare. Dalla primavera scorsa la tentazione c’è stata più volte, ma mi ha sempre frenato il timore di sbilanciarmi troppo quando ancora, in effetti, non sapevo come sarebbe andata a finire. Il progetto aveva cominciato a frullarmi in testa dopo il convegno organizzato dal Terzo Millennio e dal liceo scientifico per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (marzo 2011). In quella circostanza, mi resi conto che, per la maggior parte degli eufemiesi, i protagonisti della storia locale non sono nient’altro che un nome stampato agli incroci delle strade. Pensai che sarebbe stato utile saperne di più.
Certo, perché un progetto diventi realtà, occorre una buona molla, che è arrivata un anno dopo. Fino ad ora avevo scritto libri per passione, per “dovere”, per lenire un dolore. Questo l’ho scritto per rabbia e perché lo scrivere, per me, ha sempre rappresentato una formidabile valvola di sfogo.
Mi sono divertito tantissimo. Dal 1861 ad oggi i nomi di alcune strade sono cambiati, nuove vie si sono aggiunte, di altre denominazioni addirittura non si ha più notizia. Scomparsi i nomi, cancellate – fisicamente – anche le vie. Allarga di qua, allarga di là, un corpo avanzato, una recinzione e addio strada.
In tutto, ho redatto 106 voci. Ovviamente, su personaggi come Dante o Cavour c’era poco da aggiungere a quanto già non sia noto. Un buon ripasso, comunque, dà sempre giovamento.
Recuperare le notizie riguardanti i personaggi eufemiesi è stata invece una caccia al tesoro, a volte spassosissima, altre irritante. Ho chiesto delle informazioni all’anagrafe di Genova e all’archivio storico della banca commerciale italiana e mi sono state fornite dopo ventiquattro ore. Mi sono rivolto allo stato civile del comune di Palmi e ho fatto prima a girarmi tutto il cimitero alla ricerca di una tomba (soprattutto, di una data che in nessun archivio avevo trovato) che sospettavo si trovasse là e che alla fine è saltata fuori: eureka!
A distanza di venti anni, mi sono cimentato nuovamente con il latino per decifrare un registro di battezzati del Settecento e ho esultato (in italiano) quando, finalmente, ho scovato l’informazione che cercavo da mesi. E poi le risate, che non ce l’ho fatta a non condividere con qualcuno, davanti alla scoperta degli strafalcioni che campeggiano in bella vista su alcune tabelle toponomastiche.
Strade, storie e storia di Sant’Eufemia, dato che il libro è anche il pretesto per scrivere di storia locale e per portare alla luce aneddoti legati ai personaggi o a alle strade che a quei personaggi sono dedicate.

* Per la pubblicazione se ne parlerà nel 2013. No, il titolo non lo rivelo neanche sotto tortura.

venerdì 16 novembre 2012

Ceu Galera

Ero amico di Vincenzo Pinneri (Ceu “Galera”), capo dell’omonima banda che tra il 1943 e il 1944 terrorizzò Sant’Eufemia e dintorni e si rese protagonista della faida con la banda Leonello di Sinopoli.
Il Pinneri uscito dal carcere alla fine degli anni Settanta non era il bandito, già fratricida, evaso dal carcere e latitante, che faceva il giro delle campagne per estorcere cibo, denaro e armi. Non era l’ergastolano condannato per una ventina di reati (un altro omicidio, diversi tentati omicidi, estorsioni, violenze), né il leader giovanissimo – ma lui ha sempre negato di essere stato capo di qualcuno: “erano gli altri che mi seguivano anche se non li volevo” – di una banda di sbandati, il cui arresto con tanto di passarella per le vie del paese, ammanettato alla sponda di un carro bestiame, da molti fu salutato come una liberazione.
Il Pinneri che ho conosciuto io era un affettuoso signore anziano che ha sempre vissuto da solo, adorava i bambini e ti metteva in imbarazzo se lo invitavi a pranzo, perché arrivava con due buste stracolme di salumi, formaggio, carne, frutta, biscotti.
Si commuoveva spesso: di fronte alla morte di un giovane; per quel ragazzo che non riusciva a trovare lavoro; per l’altro costretto ad emigrare, cui portava un pacco di roba da mangiare ogni volta che doveva ripartire.
Imbattibile al gioco della dama, si dilettava con le carte: poco a “scopa”, perché troppo forte e senza rivali: ricordava tutte le giocate e sapeva “contare il quarantotto”; di più a “scala quaranta”: ma non con tutti, solo con chi gli stava simpatico. Mai a soldi e sempre “a consumazione”: merendine, caramelle e bibite che puntualmente regalava a qualcuno. Prediligeva le boccette e, dalle bestemmie, anche chi si trovava nel parcheggio, fuori dalla sala biliardi, capiva se avesse vinto o perso.
Stravedeva per me e mi aveva eletto “biografo ufficiale” delle sue gesta. Probabilmente, un giorno lo diventerò, mettendo insieme la lunga e inedita intervista che abbiamo realizzato a più riprese, gli articoli che lo hanno riguardato e che mi ha affidato insieme alle pagine di un suo diario e ad altre autografe, scritte in diversi momenti (l’ultima, due mesi fa, dal letto dell’ospedale), le poche foto che lo ritraggono a Fossombrone, Saluzzo o Pianosa, le carte giudiziarie già fotocopiate e quelle che occorre recuperare.
Il Pinneri che ho conosciuto io era anche, però, l’uomo pronto a sparare e uccidere nuovamente, ai primi anni Ottanta, davanti al bar, se non ci fosse stato il tempestivo intervento di un avventore, che prima con coraggio gli bloccò la mano armata e poi riuscì a calmarlo e a farlo desistere dall’insano proposito. Era l’ultraottantenne vittima del furto della sua inseparabile “Ape 50”, il quale, costretto a presentare denuncia, all’esterrefatto maresciallo che gli chiedeva se nutrisse qualche sospetto rispose: “E secundu vui, se sapiva cu fu, veniva a caserma?”.
Qualche giorno fa mi è stato chiesto come mai non gli avessi ancora dedicato un articolo. Ecco, ho il sospetto che molti, soprattutto tra i giovani, siano affascinati dal Pinneri bandito e “giustiziere”, un po’ come avviene con quelle fiction televisive che trasformano in eroi certi personaggi negativi. Io ritengo che sia giusto ricordare con affetto il Pinneri che in tanti abbiamo conosciuto come persona a suo modo dolce, sensibile, premurosa e, se vogliamo, perseguitata da antichi fantasmi e da un “ruolo” sopravvissuto allo scorrere del tempo. Andrebbe invece consegnato alla dimensione storica e sociologica il mito del Pinneri impavido e violento, grilletto facile e bombe a mano sempre in tasca nel contesto sociale caotico del dopo 8 settembre, protagonista di un incredibile assalto alla caserma dei carabinieri e, nell’immaginario collettivo, ancora assiso dietro a un treppiedi all’ingresso del paese, pronto ad accogliere a sventagliate l’arrivo del questore di Reggio Calabria.

mercoledì 7 novembre 2012

L'ultima lezione



Ho sempre immaginato gli intellettuali come tanti Pollicino, le tasche piene di sassolini da seminare lungo il cammino, a beneficio di chi verrà dopo. Un’indicazione, un segnale che aiuti l’altro ad orientarsi o anche soltanto serva da conforto quando la solitudine del pensiero stringe il petto: “sì, sei sulla strada giusta”.
Il professore Rosario Monterosso è uno che di sassolini ne ha lasciati parecchi, ovunque e in ogni momento. Chi ha avuto il privilegio di essere suo alunno, suo amico, o entrambe le cose, ora non può che avvertire smarrimento. Ci ha lasciato in punta di piedi, con uno stile che abbiamo apprezzato anche quando ci è costata dolore la sua decisione di chiudere con il mondo, nel momento in cui tutto era diventato ineluttabile.
Sant’Eufemia era il suo secondo paese e il liceo scientifico “E. Fermi” la sua seconda casa. Stamattina, nella casella di posta elettronica, ho trovato una email: “Penso che il nostro liceo sia stato il luogo che lui ha maggiormente amato, insieme alla sua incredibile biblioteca e al suo orticello”. Dalla notizia della sua morte è un continuo telefonare, chiedere, esprimere tristezza tra noi ex alunni. Questa è la sua eredità: altri sassolini.
I ricordi si accavallano, come in un puzzle di sentimenti che vorrebbe tradurre lo stato d’animo in immagini e parole. Sono in difficoltà. Per me Rosario Monterosso è stato molto di più che il mio professore di storia e filosofia negli anni del liceo. La presentazione del mio libro su Sant’Eufemia mi diede l’occasione di riconoscere pubblicamente il debito che avevo (ed ho) nei suoi confronti. Per avermi fatto innamorare delle discipline storiche, per avere rappresentato, con il suo esempio di vita, di impegno civile e sociale un modello positivo. Anche in quella occasione fu generoso, con la sua presenza dietro al tavolo degli oratori e con le parole della sua relazione. Così com’è stato sempre presente, ogni volta che qualcuno a Sant’Eufemia ha organizzato un evento culturale e ha chiesto il suo autorevole contributo. Credo sia stato questo il tratto distintivo della sua personalità. Sul piano intellettuale, la brillantezza del pensiero, quel suo sapere tradurre la complessità del ragionamento in chiarezza espositiva. Dopo, tutto appariva più limpido, come se una luce avesse illuminato la stanza buia.
La sua biblioteca è stata la biblioteca dei suoi alunni. I primi prestiti, per me, furono “Dei doveri dell’Uomo” di Giuseppe Mazzini e “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci. E poi i dissidenti russi: Solgenitsin, Sacharov, Salamov. Devo a lui l’amore per Leonardo Sciascia e per Italo Calvino. Devo a lui suggerimenti preziosi e molti testi utilizzati nelle mie ricerche e pubblicazioni.
Devo a lui l’insegnamento che non bisogna mai fermarsi all’apparenza delle cose, ma scavare con certosina pazienza nella realtà che ci circonda, nell’oggetto del nostro studio, nella nostra anima e in quella degli altri.
Di sinistra, ma di una sinistra che non può albergare in nessun partito quando l’etica viene mortificata dalla prosaica gestione del potere. Una vicenda che partiva da lontano, dal lamento di Ignazio Silone, “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”.
Con il professore Monterosso spesso “scandagliavamo” l’attualità politica ed era per me consolante constatare che molte idee collimavano. “Il posto del partito socialista è a sinistra”, concordammo nel momento dell’ubriacatura forzista di tanti compagni, nonostante avessimo bene in mente che molti dei carnefici di quell’esperienza fossero a sinistra. In quella sinistra che era stata sconfitta dalla storia e che, appunto per questo, riconfermava la validità del concetto pertiniano di libertà e giustizia sociale: “libertà e giustizia sociale, che poi sono le mete del socialismo, costituiscono un binomio inscindibile: non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà”.
Ho ammirato la sua decisione di candidarsi a sindaco di Bagnara, nonostante egli per primo fosse consapevole di essere l’agnello sacrificale di una sinistra votata alla sconfitta. La vita è fatta anche di esempi da dare al prossimo: “ci sono quelli che prendono il 70% dei voti, ma ci siamo anche noi che non ci omologheremo mai a un sistema di potere che condanniamo. Abbiamo il dovere morale di testimoniare la possibilità di un altro destino”. Questo il senso della sua scelta. Ancora sassolini, ancora un’altra lezione. Da mandare a memoria come l’ultima, di questi mesi, in realtà il filo conduttore di tutta la sua esistenza. Una dichiarazione d’amore per moglie e figli, bellissima nella sua tragicità.
Da oggi, siamo tutti un po’ più soli.

lunedì 5 novembre 2012

Grillo e il Titanic Italia

Alla fine la riforma elettorale non si farà. Nella migliore delle ipotesi, la montagna partorirà il solito topolino. Le posizioni da conciliare sono sostanzialmente due. Quella di Berlusconi convertitosi al proporzionale puro, che prevede l’abolizione del premio di maggioranza del “Porcellum” e il mantenimento delle liste bloccate; quella di Bersani, che invece il premio di maggioranza vorrebbe salvarlo.
Storicamente, le mediazioni migliori (o peggiori, a seconda dei punti di vista) sono quelle democristiane. Un copyright eterno, tramandato dalla Dc a tutte le cellule di Balena bianca ancora presenti nel corpo della politica italiana. Pare che l’Udc stia per farsi avanti con l’uovo di Colombo, un premio di maggioranza da assegnare alla coalizione che superi il 40%. Un modo per perpetuare l’attuale situazione di sostanziale frammentazione, l’ideale per un Monti bis o chi per lui. In ogni caso, di preferenze non parla più nessuno.
Ciò significa anche che la proposta depositata in Parlamento dal Pd passa direttamente nel cassonetto della differenziata (carta): 70% dei seggi assegnati sulla base di collegi uninominali a doppio turno e 28% con metodo proporzionale su base regionale o pluriprovinciale, più un 2% (corrispondente a 12 seggi) riservato al cosiddetto “diritto di tribuna”. In quello dell’umido, le speranze di chi aveva creduto che i politici avrebbero finalmente avuto un sussulto di dignità e avrebbero restituito al popolo il diritto a scegliersi propri rappresentanti. Invece, non sono stati capaci di licenziare uno straccio di riforma elettorale, nonostante non si sia quasi parlato d’altro per l’intera legislatura.
La paura presa dopo le elezioni in Sicilia aumenterà l’istinto di autoconservazione di una classe politica inadeguata e inetta, che impegnerà le proprie energie per scovare l’espediente capace di sbarrare la strada a Beppe Grillo. Con percentuali di astensione record (Sicilia docet), il Movimento Cinque Stelle ha buone probabilità di fare saltare il banco.
Diffido dei populisti. Non voterei mai un politico che attraversa lo stretto di Messina a nuoto perché mi ricorda quello che lotta con le tigri o l’altro che traccia, alla guida del trattore, il solco che poi la spada dovrà difendere. Oltretutto, un comico a Palazzo Chigi l’abbiamo già avuto e, alla fine, raccontava sempre le stesse barzellette. Ma lor signori farebbero bene a porsi qualche domanda e a considerare che la demonizzazione rischia di essere il migliore alleato di Grillo. Perché chi demonizza non ha alcuna credibilità. Perché potrebbe sì trattarsi di un salto nel buio, ma in tanti pensano che la priorità sia saltare fuori dalla melma della Seconda Repubblica e poi quel che sarà, sarà. Il Titanic affonda, l’orchestra continua a suonare lo stesso spartito e sul ponte è il consueto spettacolo di ladri, privilegiati, nani e ballerine. Grillo ce lo meritiamo.

domenica 28 ottobre 2012

Il giornalismo copia-incolla

Sostengo da tempo che tutti i giornali locali dovrebbero fare uno sforzo economico per assumere in redazione un giornalista che si occupi esclusivamente della supervisione dei contributi di giornalisti e collaboratori vari. Figura professionale che tra l’altro esiste e la cui importanza nell’economia di un giornale non va assolutamente sminuita. Sono innumerevoli i casi di giornalisti famosi che hanno iniziato come correttori di bozze. Partendo dal gradino più basso, Eugenio Balzan arrivò addirittura alla direzione amministrativa e alla comproprietà del “Corriere della Sera”, negli anni in cui il giornale di via Solferino era diretto da Luigi Albertini.
Ciò eviterebbe lo spettacolo che si presenta agli occhi dei lettori con la pubblicazione di strafalcioni ortografici e sintattici raccapriccianti e, francamente, inammissibili. Se poi il correttore di bozze fosse anche un discreto lettore di libri (dotato di un minimo di cultura generale) e un fruitore attento alle dinamiche e alle modalità della comunicazione sul web, il giornale farebbe bingo.
Quanto meno non incapperebbe nella figuraccia occorsa a Calabria Ora. Il giornale diretto da Piero Sansonetti, nell’edizione di oggi, ha infatti dedicato uno speciale di tre pagine (I Quaderni di Calabria Ora) ai novant’anni della “marcia su Roma”. A pagina 14, Quel che resta a 90 anni da quella marcia, articolo di Giuseppe Cantarano. A pagina 15, due interviste: la prima, di Marco Cribari, al presidente de “La Destra” Francesco Storace (“Negarla? È antistorico”); la seconda, di Camillo Giuliani, allo storico Giovanni De Luna (Fu vera rivolta solo nel ’25). Il capolavoro (si fa per dire) è però a pagina 16, interamente riservata alla ricostruzione della “marcia” (La capitale sotto tiro). Insospettito dalla mancanza della firma dell’autore in calce all’articolo, ho voluto prendermi la briga di fare una veloce verifica. Come sospettavo, l’articolo è tagliato/ copiato/ incollato dalla voce “marcia su Roma” presente su Wikipedia, “l’enciclopedia libera e collaborativa”, redatta sostanzialmente dagli internauti e cliccatissima sul web. Pezzi interi sono copiati e incollati, altri modificati soltanto nel raccordo tra un taglio e l’altro (l’articolo online è infatti più lungo di quello del quotidiano calabrese).
La deontologia, in questi casi, prevede la citazione della fonte e il virgolettato, ma per ragioni facilmente intuibili non “fa figo” citare Wikipedia, molto utilizzata (ahinoi) dagli studenti per le loro ricerche, ma sulla cui autorevolezza è bene non mettere la mano sul fuoco.
Il giornalismo copia-incolla è la metafora di un’epoca che ha messo sull’altare l’approssimazione, la superficialità e la strafottenza. Tempi tristi.

martedì 23 ottobre 2012

Lettera a G.

Ti ho visto poco fa: eri su un manifesto, attaccato a un muro. Proprio ieri, a pranzo, si parlava di te, di quanto manca la tua allegria, quel modo unico di stare in compagnia, la conversazione “pirotecnica” (bravu pe’ ’na vita!), la gestualità che era essa stessa parola, il racconto di storie incredibili. O soltanto di una filastrocca in dialetto, una qualsiasi del tuo inesauribile e comicissimo repertorio. Ecco, se c’è una cosa che rimpiango, è di non averti mai detto di “passarmele”, di farmele scrivere e conservare.
Dicono che il modo migliore per ricordare chi non c’è più sia farlo con il sorriso sulle labbra. Magari quello che tu sempre riuscivi a strappare, a chiunque. Come quella volta che, chissà in quali pensieri assorto, dimenticai di servirti il cucchiaio accanto al bicchierino del caffè (ché nella tazza non ti piaceva). Aspettasti un po’, guardandomi in silenzio, dopo di che, senza scomporti minimamente, girasti il caffè con l’indice!
Il bar di mio padre è stato, per me, il dono irripetibile dell’affetto (da bambino) e dell’amicizia (da adulto) dei suoi amici. Privilegio tremendo, con il passare degli anni. Mimmareddu, ma anche Marieddu e Loigeddu: la conosco bene quella voce, per questo mi viene difficile sorridere, ora. Forse un anno è troppo poco. Forse davvero soltanto il tempo riuscirà a riempire un po’ di vuoto.
Potrei raccontare centinaia di aneddoti. Le storie sul periodo che trascorresti in Germania, da giovane emigrato: eins, zwei, drei, quando volevi insegnarmi i numeri in tedesco. L’episodio, inverosimile (ma con te era sempre difficile capire dove finisse il gioco e dove iniziasse la realtà), della foto della tua pancia esposta per due mesi in non so quale museo.
O di quando andavamo a caccia. In realtà, io ero un elemento scenografico, non avendo mai sparato un colpo di fucile né allora, né dopo. Però a dodici, tredici anni era una gara tra fratelli per stabilire a chi toccava alzarsi alle 4.00 l’indomani mattina. La lampadina accesa per fare capire che eravamo pronti, il caffè caldo e poi sulla macchina (la tua golf modello preistorico o la 127 di mio padre). Il freddo, l’attesa, il ritorno, le tipiche pose da cacciatore, il giro in paese per zittire tutti gli spraticuni che si spacciavano per cecchini infallibili.
Ricordi che si accavallano. Quella passata con l’organetto e la tua ospitalità. La sacralità della preparazione delle polpette e quel tuo tratto caratteristico di “imboccare” l’ospite, di dedicare a due come a trenta commensali un’attenzione particolare, una cura di parole e bocconi, il sollievo di ore e ore di spensieratezza. Perché il tempo, con te, di certo non era un’entità assoluta.
Il racconto sulla vita degli animali – “Piero Angela può venire a lezione da me” – e il religioso silenzio con cui seguivi i documentari alla televisione. La descrizione dell’accoppiamento delle api, racconto fantastico di una quarantina di minuti che ci fece ridere fino alle lacrime. L’adorno, che ti piaceva osservare con il cannocchiale “mentre teneva stretto nel becco un insetto”.
Mi è capitato di sognarti, ma mai il sogno o la fantasia possono avvicinarsi alla realtà di quella volta che mi portasti nel tuo orto per farmi raccogliere una busta di mandarini. “Li devi assaggiare”, mi avevi detto. Ci andammo subito dopo pranzo. Venne a recuperarmi mio padre a notte fonda, dopo non so quanti litri di vino, soppressate e formaggio consumati con il pan biscotto, io, tu e un amico passato per caso da lì e prontamente da te sequestrato. Che poi – si sa com’è quando si sta in compagnia – i mandarini non facemmo in tempo neanche a raccoglierli.

giovedì 18 ottobre 2012

Chi cerca, (non sempre) trova

Sono stato di recente alla biblioteca comunale di Polistena. Fornitissima, in possesso di volumi dei quali neanche la biblioteca nazionale di Firenze è dotata. Un’eccellenza? La classica mosca bianca nel panorama desolante dei servizi culturali offerti a queste latitudini? Avremmo voluto che fosse così. Le condizioni ci sarebbero. E però.
C’è sempre un però nelle vicende concernenti quel che di buono la nostra terra potrebbe offrire. Un “però” che ho scoperto un paio di settimane fa, al momento della richiesta per la consultazione di due testi che l’OPAC (On-line Public Access Catalogue) indica in possesso della sola biblioteca di Polistena.
L’impatto è surreale. Si entra nei locali della biblioteca e la prima sensazione è di smarrimento. “Staranno effettuando un trasloco”, la mia prima considerazione. Dappertutto, scatoloni pieni di libri e oggetti del museo civico di Polistena, provvisoriamente sistemato nelle stanze della biblioteca (statue, mobili, reperti vari). Sommersa, la postazione dell’impiegata comunale: gentilissima e garbata, visibilmente dispiaciuta per la condizione in cui si trova ad operare.
Abbiamo cercato, insieme, i libri. Invano. Come cercare un ago in un pagliaio. Scaffali sovraffollati, oltre ogni logica. Due, tre file di libri accatastati, dei quali diventa difficile leggere il titolo, se non dopo averli tirati tutti fuori dalla loro sede. Libri per terra, fuori e dentro scatoloni pieni zeppi, privi di un numero di inventario o di una qualsiasi collocazione. Ricerca vana, dunque. Non mi è rimasto altro da fare che lasciare il mio recapito telefonico, per cui sarò avvisato se e quando i due volumi saranno rintracciati.
Da quel che ho capito, biblioteca e museo civico dovrebbero essere trasferiti nel Palazzo Sigillò, appena (quando?) termineranno i lavori di restauro e la struttura diventerà il “Palazzo della Cultura” di Polistena. Fatto sta che, nell’attuale condizione, la biblioteca non ha alcuna utilità poiché un patrimonio librario (circa 60.000 volumi, con un’eccellente sezione “Calabria”) ed emerotecario equiparabile, per certi versi, a quello della biblioteca “Pietro De Nava” di Reggio o alla “Domenico Topa” di Palmi, nel “buco” in cui si trova non è di fatto fruibile. Un vero peccato.

mercoledì 10 ottobre 2012

L'alba di un nuovo giorno

“Vogliamo che Reggio Calabria possa trovare la serenità e possa riprendere il suo cammino. Saremo molto vicini alla città di Reggio Calabria: come governo abbiamo deciso di mettere a disposizione tutti gli strumenti necessari e possibili per fare risorgere questa città, per dare a questa città delle risorse importanti, compatibilmente con i mezzi che abbiamo a disposizione. Questo è un atto di rispetto per Reggio Calabria”.
[Anna Maria Cancellieri – ministro dell’Interno]


Non c’è da gioire.
Lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Reggio Calabria per “contiguità” con la ’ndrangheta è una ferita lacerante, che brucia nelle carni delle istituzioni e della società civile. Un primato non certo invidiabile (non era mai successo per un comune capoluogo di provincia), “addolcito” dalla presentazione come atto preventivo, non sanzionatorio, e dal riferimento alla brevissima esperienza di Arena, con esclusione dell’era Scopelliti. Dura da digerire, in ogni caso. Sul piano politico, appare arduo trovare punti di discontinuità in quel “modello Reggio” che ha scandito l’ultimo decennio a Palazzo San Giorgio.
Non c’è da disperarsi.
Il provvedimento governativo non è il frutto delle invenzioni giornalistiche dei “nemici di Reggio”. Il complotto non esiste. Esistono le 250 pagine di relazione della commissione d’accesso; esistono le 3.000 pagine di allegati. Lo scioglimento è stato deciso dopo una lettura attenta di questo corposo materiale, non sulla base di una presunta ostilità del governo centrale nei confronti di Reggio. Un marchio indelebile, quindi, ma anche l’opportunità, per tutti, di ripartire con umiltà, serietà, trasparenza.
Né gioia, né disperazione.
Ma l’alba di un nuovo giorno. E diciotto mesi per fare chiarezza e stabilire, una volta per tutte, chi possa realmente essere considerato “nemico” e chi “amico”. Nei fatti, non con gli slogan.

lunedì 8 ottobre 2012

Gianluca e Camilla

Come si fa a non perdonare uno che chiede scusa davanti a tutta Roma?
Già sono tempi abbastanza tristi, per tirare su il morale serve qualche bel lieto fine, un "e tutti vissero felici e contenti", come in quei film strappalacrime in cui tutto si risolve nell'ultima scena, con lui (o lei) che riappare quando ormai sono finiti anche i fazzolettini, la sala è tutto un singhiozzare e tutti pregano che non si riaccendano le luci per non fare vedere occhi arrossati oltre ogni umana possibilità.
Forza Gianluca.
Forza Camilla.


giovedì 4 ottobre 2012

Epic Fail

Nel linguaggio dei social network, con Epic Fail (fallimento epico) s’intende un enorme sbaglio (qualcosa di simile a una figuraccia), immortalato in un video o in una foto. Ad esempio, certe scritte sgrammaticate che si leggono sui muri delle città.














O immagini buffe, incredibili, che suscitano istintivamente una fragorosa risata.















Qualcosa di simile è capitato con il post che ho pubblicato stamattina per rispondere a un fantomatico Rocco Cutrì. “Fantomatico” non perché Rocco non esista, ma perché non è lui l’autore del commento all’articolo Strettamente personale che aveva provocato la mia reazione.
Negli ultimi tempi sul blog registro, con maggiore frequenza rispetto al passato, incursioni incresciose. Per questo sono stato costretto a inserire la funzione “moderazione” nei commenti, che non pubblico se contengono attacchi o offese anonime nei confronti di chicchessia. In questa circostanza, sono stato tratto in inganno dal fatto che l’intervento era sottoscritto con nome e cognome, anche se per tutta la giornata di ieri ho avuto il dubbio che si trattasse di un troll (chi, su internet, pubblica messaggi provocatori).
Conosco Rocco, al quale ho pure avuto modo di esprimere (qui) il mio apprezzamento, ai tempi della sua esperienza amministrativa, e proprio per questo ero rimasto sorpreso e amareggiato. Purtroppo, non sono però riuscito a rintracciarlo, prima di postare l’articolo, per accertare al cento per cento che quelle parole fossero davvero roba sua. Errore da matita blu: mea culpa.
Ne hanno fatto le spese, involontariamente, anche Nino Creazzo e Carmen, intervenuti in mia difesa con parole abbastanza pesanti. Mea culpa, anche nei loro confronti.
Ho eliminato dal blog il post che avevo scritto stamattina e i commenti che hanno suscitato questo vespaio, a partire, ovviamente, da quello inviato dal simpatico usurpatore.
Nella foto sotto, eccomi nel momento in cui scopro di essere stato “trollato”, un attimo prima di sbattere contro la verità (è quella cosa di ferro orizzontale).


giovedì 27 settembre 2012

Siamo tutti Sallusti, ma anche no

Sul caso Sallusti, il direttore del “Giornale” condannato a 14 mesi di reclusione per un articolo fatto pubblicare nel 2007, quando dirigeva “Libero”, è stato detto tutto. Nel considerare il carcere una pena eccessiva, arrivo quindi buon ultimo. Concordo anche – e questo, seriamente, mi preoccupa – con Vittorio Feltri, quando dice che il giudice non ha alcuna colpa, poiché si è limitato ad applicare la legge: “se tu – il succo del suo ragionamento – gli metti in mano armi che vanno dal temperino al mitra e quello usa il mitra, bisogna prendersela con il legislatore che gli ha messo il mitra in mano, non con il magistrato che l’ha usato”.
La legge in questione, retaggio del codice Rocco, è sopravvissuta alla caduta del fascismo (immagino) perché, in fondo, al potere fa comodo anche soltanto adombrare la possibilità che si possa finire in galera per ciò che si pensa. Per cui, bisognerebbe cambiare la legge e stabilire che i reati a mezzo stampa sono perseguibili solo per via civile. Su questo, siamo (o dovremmo essere) tutti d’accordo.
Detto questo, si impone qualche precisazione. La prima, e sostanziale: confondere fatti e opinioni o fare di Sallusti un eroe risponde alla solita, insopportabile, logica strumentale cui tutto, in Italia, si riduce. Una cagnara utile per nascondere ciò che Alessandro Robecchi ha definito “un giornalismo sciatto, fatto male, truffaldino, che dà notizie false per sostenere una sua tesi”. Sì, perché il reato d’opinione, nel caso di Sallusti, non c’entra per niente: c’entra invece, il fatto che è reato “scrivere e stampare notizie false”, cioè diffamare. C’entra anche, per esempio, il dettaglio che un direttore responsabile, lo dice la parola stessa, è “responsabile” di ciò che viene pubblicato sul giornale che dirige, altrimenti qualcuno mi spieghi quale sia la sua funzione. C’entra, inoltre, con un principio etico elementare: quello di proibire che sia data ospitalità e offerta una tribuna a un giornalista radiato dall’Ordine (Renato Farina, deputato Pdl, già agente “Betulla”). E poi fare anche finta di non conoscere l’identità dell’autore dell’articolo incriminato: diversamente si incappa, come è successo al direttore del “Giornale”, anche nel reato di “omessa denuncia”. Che con la libertà d’opinione, è evidente, non ha alcuna relazione.
Non apprezzo Sallusti (eufemismo). Trovo odioso il suo modo di fare giornalismo, ammesso che sia giornalismo la faziosità e la distorsione della verità per fare l’interesse politico del proprio editore. Ritengo però che una pesantissima multa (superiore ai 5.000 euro di multa del primo grado di giudizio) e la radiazione dalla professione, per i giornalisti che facciano strame della deontologia, possa essere una pena congrua. Una soluzione che, tra l’altro, ci risparmierebbe il rischio di ritrovarci con un improponibile martire della libertà di stampa. In definitiva, è la pena che è ingiusta, perché non c’è proporzione tra reato e condanna, non la condanna in sé.
No al carcere, dunque. Certo. Ma #siamotuttiSallusti (l’hashtag che sta girando su twitter), no. Anche impegnandomi, turandomi qualsiasi cosa, non ce la potrei mai fare.

venerdì 21 settembre 2012

Pensiero di notte

La vita non è una competizione in cui a volte si vince, altre si perde.
Non c’è l’inno nazionale, alla fine, e neanche la medaglia e il bouquet di fiori.
Non si va dietro la lavagna, né si indossa il cappello con le orecchie d’asino.
Però è dappertutto, anche in ciò che mortifichiamo con un banale “questa non è vita”. E invece no. Proprio quella, lo è.
Tutto è vita e tutto è un soffio. Quanto ci mette un soffio a svanire, a non lasciare niente di sé?
Soltanto utilizzando la lente della caducità, ogni cosa assume contorni reali ed essenziali. Non è rassegnazione, né passiva attesa del fluire naturale del tempo. È un cribro da agitare con saggezza, per setacciare ciò che davvero ha importanza e ciò che, invece, soltanto abbaglia, distrae, inganna.
Uomini e cose, fatti e pensieri.
Stare bene, con noi stessi e con gli altri, con quanti più “altri” sia possibile, visto che anche a Gesù – che era Gesù – uno su dodici fagliò. Ovunque: nell’abbraccio delle metropoli, confinati in qualche periferia del mondo, sonnecchianti nella noia di quattro case e un forno.
Non esiste altra ricetta per la felicità. Se si vuole, è l’uovo di Colombo. Spesso inseguiamo miraggi utili soltanto per pompare il nostro ego, che non riescono però a riscaldare. Neanche un po’.

sabato 15 settembre 2012

Le scarpette di gomma dura

– “No! Mannaja Ddena! Non ci voleva questa neve!” – Luigi, Pinuccio, Massimo e Domenic si guardarono, sconfortati. Da quasi un mese aspettavano la prima partita del campionato Esordienti e quel sabato il paese si era svegliato sotto una coltre bianca. Niente scuola, ovviamente, ché ne bastava ’na ddiccàta per scaraventare la cartella, lo zaino o la cinghia con due-tre libri sul divano, uscire fuori e dare inizio alla battaglia. Eppure, quel giorno non riuscivano ad essere allegri. Avrebbero preferito centomila volte entrare a scuola, perfino essere interrogati in latino: sì, alla scuola media il professore d’italiano aveva deciso di insegnare qualche rudimento di latino. “A chi deciderà di iscriversi al classico o allo scientifico, tornerà utile” – aveva osservato, per cercare di indorare la pillola.
Neve, neve e neve. Corsero al campo sportivo per un sopralluogo. Era come sospettavano. Una lunga e larga distesa bianca. Non che loro la temessero, né li impressionava il freddo. Il loro trainer godeva di una meritatissima fama di duro, conquistata grazie alle pesantissime sedute di allenamento che infliggeva ai ragazzi. Li faceva correre fino allo sfinimento e, non appena qualcuno sgarrava, veniva immediatamente spedito a casa. Qualche anno più tardi, quando esplose il fenomeno, i suoi stessi giocatori lo bollarono “Zeman”, il tecnico boemo del “Foggia dei miracoli”, una squadra di sconosciuti che riuscì a sorprendere l’Italia del calcio. Anche se il suo modello era Rinus Michels, l’inventore del calcio totale e profeta del modulo “a zona”, tutto pressing e fuorigioco a centrocampo. Luigi e Domenic, i meno dotati fisicamente, la voce del coach la sentivano anche di notte. Mentre agli altri, dopo un’ora abbondante di corsa, ripetute, scatti, progressioni ed esercizi, era finalmente consentito di toccare il pallone, per loro c’era un supplemento di giri di campo: “Dovete sopperire con la corsa”. Sopperire, un verbo che finirono per odiare, costretti a guardare gli altri divertirsi col pallone venti minuti prima di loro. Per anni si è raccontato di quella volta che si mise a grandinare ininterrottamente, mentre Esordienti e “prima squadra” si stavano allenando allo stesso orario, come capitava non di rado. I “grandi” si rifugiarono dentro gli spogliatoi: ogni tanto, qualche viso faceva capolino per osservare, stupito, tutti quei ragazzini sotto la bufera. “Non vi fermate, continuate a correre” – l’intimidazione del mister.
Figurarsi, quindi, se poteva spaventarli un po’ di neve.
Luigi era il mediano della squadra, il numero 4, quando ancora la numerazione della maglia aveva un senso. Un corpo esile che una folata di vento rischiava di far decollare, con due polmoni e una resistenza da fare invidia al migliore Furino. Anche se il suo soprannome era “Tardelli”. Dentro la divisa si perdeva. D’altronde, gli Esordienti utilizzavano quella della “prima squadra”. Maniche talmente lunghe da fare solamente intuire la presenza di braccia e mani al loro interno e pantaloncini che arrivavano fin sotto le ginocchia. Sul petto, la scritta dello sponsor, una stampa talmente rigida e pesante che finiva per ripiegarsi e appoggiarsi venti centimetri più in basso.
Pinuccio, lo stopper (numero 5): di quelli rudi, nel solco della tradizione italiana. Un morditore di caviglie implacabile, che all’avversario non dava respiro. Aveva adattato a borsone una piccola tracolla dell’Alitalia, rimediata da qualche parente venuto dall’Australia, e sosteneva una sua personalissima teoria sull’elasticità delle scarpe da gioco. Bastava calzarle dentro una bacinella di acqua bollente, per una mezzoretta, e quelle sarebbero scasciate. Leggenda metropolitana vuole che Pinuccio abbia utilizzato lo stesso paio di scarpe da calcio, dal 37 al 40 di piede.
Massimo, un’ala destra velocissima (numero 7). Poca tecnica, ma tantissimo fiato, ha realizzato i gol più “sporchi” della storia del calcio paesano: di ginocchio, di coscia, di stinco, con qualsiasi parte del corpo, che utilizzava come la pala di una ruspa, per spazzare tutto ciò che intralciava la sua corsa. A fine partita, era il più temuto dello spogliatoio. Mai serrare le palpebre, quando c’era lui nei pressi delle docce: il bruciore agli occhi, causato dal sapone, era di gran lunga preferibile ai suoi scherzi terrificanti.
Domenic era invece l’ala sinistra (numero 11, che ogni tanto diventava 10, quando veniva spostato nel ruolo di “regista”), tutto mancino – la scarpa destra praticamente nuova – e portava annodato al braccio sinistro, al posto della fascia di capitano, un vecchio calzettone strappato. Tanta corsa anche per lui, con ai piedi le “Kevin Keegan” regalategli da un suo zio emigrato in Francia, e un fisico che non voleva saperne di crescere, nonostante l’uovo sbattuto consumato ogni mattina a colazione.
Tutti e quattro avevano una passione smisurata per il calcio, che praticavano per strada, nelle piazze, in pineta. Finivano gli allenamenti e continuavano a giocare ovunque si imbattessero in altri ragazzini con un pallone sotto il braccio. Ogni giorno, interminabili partite, che d’estate iniziavano la mattina e proseguivano, dopo la pausa pranzo, fino al tramonto.
Fosse stato per loro, dubbi non ce n’erano. La partita andava disputata, neve o non neve. Ma toccava all’arbitro decidere, non ai ragazzi.
Un sole pallido alimentava un flebile ottimismo: sentivano che qualcosa poteva ancora accadere e che, forse, si poteva tentare di raddrizzare il corso di quella giornata. Luigi ebbe un’idea geniale, che sia stata sua o presa in prestito dopo averla ascoltata, chissà quando e dove, da qualcuno più esperto, non importa. Il sale squaglia la neve. “Ve l’assicuro, fidatevi” – con quello sguardo furbo che i suoi compagni conoscevano bene, soddisfatto per la trovata. Detto, fatto. Misero insieme i pochi spiccioli che si ritrovarono nelle tasche e li investirono in pacchi di sale grosso da un chilogrammo. La putijara neppure si chiese cosa mai avrebbero dovuto fare con tutto quel sale quei ragazzini, che fecero immediatamente ritorno al campo per cercare di spargerne su quanta più superficie possibile.
Il sale e il sole di marzo resero il terreno di gioco un’immensa pozzanghera. Eppure si giocò. Né l’arbitro, né gli avversari avevano intenzione di farsi di nuovo tutti quei chilometri, per disputare l’incontro un paio di settimane dopo. A fine partita, tanti piccoli pulcini inzuppati fin nelle mutande si tuffarono sotto le docce caldissime, contenti per avere giocato e, ancor di più, felici per il clacson di una vecchia Fiat 500 che una mamma scatenata faceva suonare all’impazzata ogni volta che la squadra segnava. Sei strombazzate soltanto in quel pomeriggio. E tante altre fino alla fine del campionato, concluso trionfalmente un paio di mesi più tardi.

lunedì 10 settembre 2012

Per qualche copia in più

Non mi piace il giornalismo urlato. Non mi piacciono i titoloni sparati in prima pagina per vendere qualche copia in più. Lo stile de “Il Giornale” o di “Libero”, tanto per fare due esempi (non) a caso. Da un po’ di tempo, “Calabria Ora” sembra avere sposato il belpietrismo. L’ultimo cavallo di battaglia di Sansonetti è la difesa del Sud dagli stereotipi nordisti che dipingono, da Napoli in giù, una terra irredimibile. Territori in mano alla criminalità organizzata, popolazioni che attendono a bocca aperta la mammella dello Stato, barbari che fanno dell’abusivismo edilizio la regola e della difesa delle bellezze naturali e paesaggistiche l’eccezione. Oddio, i reportage di ispirazione quasi lombrosiana sono intollerabili, ma non credo che certe repliche siano un bene per il Sud. Di sicuro, non lo sono per il giornalismo.
Prendiamo la lunga e bella intervista di Alessia Principe a Paolo Villaggio, in tournée con il suo spettacolo teatrale. Foto centrale dell’attore genovese e un’apertura che istintivamente suscita un moto d’antipatia: “Il Sud? Un posto tremendo”. Ed è quel “posto tremendo”, decontestualizzato dal resto del colloquio (morte, storia della cristianità, omosessualità, Fantozzi, Angelo Rizzoli, Fabrizio De Andrè e Silvio Berlusconi) che ispira anche il titolo delle due pagine centrali del giornale: “Fantozzi story. Il Sud? è una cagata pazzesca”. Adattamento in chiave meridionalista dell’urlo liberatorio di Fantozzi nel dibattito al cineforum sulla “Corazzata Potemkin”. Quel “posto tremendo” diventa anche il calamaio nel quale il direttore di “Calabria Ora” intinge il pennino per argomentare (“Scusa, caro maestro, il Sud è un’altra cosa”) che “il degrado” del Sud “è il risultato della sopraffazione” del Nord sul Meridione e concludere, amaro e beffardo: “vede Villaggio, detto con affetto, la sua idea del Sud è un po’ una cagata”. Opinione legittima, per carità. Se però si va a leggere il passaggio incriminato, i conti non tornano. O tornano di meno. Virgolettato dell’intervista: “Il Sud è terribile. Ed è spaventoso come la cultura del voto di scambio, alimentata in tutti questi anni, lo abbia rovinato in questo modo. Come avete fatto? – pausa. Ma non abbassa lo sguardo. Ha le mani raccolte. Me lo chiede davvero. Lo vuole sapere. – La corruzione è cresciuta indisturbata. Mi è bastato vedere, appena arrivato in Calabria, il vostro litorale rovinato da costruzioni abbandonate, decadenti, obbrobriose. Ma perché… Perché?”.
Niente di eclatante e neanche di originale, ad essere sinceri. Considerazioni arcinote, che si leggono quotidianamente sulla stampa locale. Dunque, siamo alle solite: soltanto i calabresi possono muovere critiche ai calabresi. Quelle di un “forestiero” sono pregiudizi intollerabili. Certo, l’attacco a una celebrità è sempre un ottimo strumento per guadagnare visibilità, un’occasione da prendere al volo, anche a costo di qualche forzatura interpretativa. Oltretutto, in questi giorni, Paolo Villaggio è finito nell’occhio del ciclone per una dichiarazione infelice sulle paralimpiadi: “sono tristi” e “non fanno ridere”. Come se lo scopo delle paralimpiadi sia fare ridere qualcuno. Ecco, la richiesta di una precisazione su queste ben più gravi frasi non sarebbe dispiaciuta. E forse avrebbe consentito a “Calabria Ora” di fare un titolo più bello.

venerdì 7 settembre 2012

I colori da dietro

Accettare il punto di vista dell’altro, o anche soltanto riuscire a prenderlo in considerazione come ipotesi alternativa alle proprie immodificabili idee, segna il confine tra l’arena e l’agorà.
Capita spesso di ascoltare, sconfortati, gente urlarsi addosso e capire, alla fine, che la rissa diventa essa stessa il tema centrale della discussione. Qualche artificio dialettico a protezione del dogma e il gioco è fatto: l’arroganza ingloba tutto, immiserisce il confronto e lo riduce a prosaica questione di decibel o di protervia.
Il nostro io reclama la scena (tutta la scena), il salotto diventa giungla, la legge del più forte (di ugola) facile scorciatoia. Una compulsiva furia onanistica, che rende centro dell’universo quel maledetto ombelico che ci deliziamo a contemplare, quasi estasiati.
Basterebbe cambiare prospettiva, spostarsi di sedia e occupare il posto dell’interlocutore di fronte a noi, indossare i suoi abiti, intuire le sue emozioni, le sue aspettative, le sue ansie. Basterebbe guardare il colore “da dietro”, come ci insegna Antonio Albanese (alias Epifanio Gilardi) in un monologo bellissimo e serissimo, farsi affascinare dalle sfumature e comprendere che le tinte più belle hanno gradazioni, contrasti e luminosità infiniti. Bianco e nero appartengono ai vecchi televisori e ad una visione manichea della vita, tipica delle guerre di religione. In un mondo che non potrà mai corrispondere a ogni individuale aspirazione, convivere con la ragione dell’altro diventa “la” necessità, non “una” possibilità.

 

Passaggi










Ho srotolato
il tempo,
come stoffa
sdrucita,
per incartare
il ricordo
di te.

giovedì 30 agosto 2012

Venditori di fumo

E siamo a tre. Terzo consigliere regionale arrestato in due anni. Prima, due politici del Pdl: Santi Zappalà (associazione mafiosa, corruzione elettorale, voto di scambio), insieme ad altri quattro candidati pro-Scopelliti, a dicembre 2010; Franco Morelli (concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreto d’ufficio e corruzione), a novembre 2011. Ora, Antonio Rappoccio, repubblicano eletto nella lista “Insieme per la Calabria”, accusato di associazione a delinquere, truffa, corruzione elettorale aggravata e peculato. I fatti sono ormai noti: 850 giovani truffati con la promessa di un posto di lavoro in cambio della preferenza. Un sistema oleato, utilizzato anche per supportare la candidatura di Elisa Campolo al consiglio comunale di Reggio Calabria. I disoccupati-elettori avevano anche dovuto pagare 15 euro per iscriversi a una cooperativa e 20 euro per partecipare a un concorso del quale, prima del voto, era stata svolta la prova scritta. Dell’esame orale, invece, non si ha nessuna notizia (chissà come mai).
Fin qua, verrebbe da dire, nulla di nuovo sotto il sole. Il tema non è questo, né il degrado morale di partiti che fanno credere di vivere sulla luna, quando tutti sanno che loro per primi vanno a bussare a certe poco raccomandabili porte, e vorrebbero nascondere dietro il paravento di inutili codici etici l’incapacità di selezionare un personale politico del quale non vergognarsi. Non è nemmeno la constatazione del marcio che ci circonda o della sonnolenza della società civile, che non reagisce e resta passiva, salvo indignarsi quando il magistrato di turno fa esplodere il bubbone. Aurelio Chizzoniti, presidente del consiglio comunale di Reggio ai tempi del “modello Reggio” di scopellitiana memoria e primo dei non eletti dietro Rappoccio, ha evidentemente un interesse personale nella vicenda. Ma le sue accuse risalgono a due anni fa e, in tutto questo tempo, la sua è stata una battaglia solitaria. Basti pensare che, tra i truffati, soltanto in dieci hanno presentato un esposto alla procura. Perché la promessa del posto di lavoro per molti non è un reato, bensì il giusto compenso in uno scambio considerato tutto sommato “naturale”. Se va male, si può sempre sperare che vada meglio la volta dopo, magari affidandosi a un politico “più serio” del chiacchierone la cui parola non vale niente. Facile intuire quanto sia libero il voto in un sistema così fragile e quanto dalla politica ci si attende, in una realtà dove tutto è politica, anche l’economia.
La questione, dicevamo, è però un’altra e riguarda il clima di veleni che ammorba l’aria nel palazzo di giustizia di Reggio. Chizzoniti non ha usato giri di parole: “Rappoccio ha fatto tutto questo perché gliel’hanno consentito”. Una pesantissima accusa di omessa contestazione dei reati, rivolta all’ex procuratore della Repubblica di Reggio, Giuseppe Pignatone, ma anche ai giudici Sferlazza e Musolino, che il politico reggino interpreta come conseguenza dello scontro con il giudice Alberto Cisterna per la scalata alla Procura di Roma. In questo contesto, anche l’utilizzo del pentito Nino Lo Giudice, che ha svelato i rapporti tra il fratello Luciano e l’ex numero due della Dna, rientrerebbe nella strategia “politica” di Pignatone, che avrebbe insabbiato la vicenda per un proprio tornaconto personale.
La denuncia di Chizzoniti non è compatibile con il profilo professionale di Pignatone. O l’una, o l’altro: tertium non datur. Ecco perché occorre fare chiarezza, al più presto, nell’interesse dei soggetti coinvolti e per la credibilità dello stesso sistema giudiziario italiano.

mercoledì 29 agosto 2012

Ragazze al bivio

Scampoli di estate, valigie quasi pronte e quella tristezza che assale chi deve andare. Certo, c’è anche chi non vede l’ora di lasciarsi alle spalle “quattro case e un forno” e i “quattro gatti” che ci abitano. Accompagnando magari la partenza con una buona dose di ingenerosità (chi sta fuori, spesso, lo fa sulle spalle di chi, a casa, compie enormi sacrifici): “ma che ci torno a fare qua?”.
Già, perché tornare? Ci sono infinite ragioni per mettere quanti più chilometri possibile tra sé e un piccolo paese che ha poco da offrire, soprattutto ai giovani. E ancora di meno a una ragazza. Pochissimo lavoro, spazi di socialità quasi inesistenti, molto tempo libero che diventa tempo sprecato, non avendo granché da fare. Parcheggiate in qualche Università, per una laurea che spesso è a pieni voti, ma desolatamente inutilizzabile. Il passaggio da ragazza a zitella è brevissimo, dalle nostre parti. Dura il tempo del corso accademico. Fino a quando si studia, si ha un alibi. Dopo, diventa tutto più difficile. Valla a trovare una giustificazione, se a venticinque-trenta anni non lavori, non sei sposata e nemmeno prossima al matrimonio.
Ho ricevuto una email che spiega questo duplice stato d’animo. Lo sradicamento che vive chi torna due-tre volte l’anno in paese, con quella “paura” di diventare un “estraneo” anche alle persone care, quando la frequentazione diventa saltuaria e il rapporto si allenta. E poi la difficoltà ad essere donna, qui. Anch’io penso che occorra “il triplo della fatica”, anche se fortunatamente non è sempre così. Sottopongo a voi l’email che ho ricevuto. Spero anche di riceverne altre, su qualsiasi tema. Il blog è a disposizione di chiunque abbia qualcosa da dire e intenda qui condividerla.

Vuoi sapere che cosa provo quando lascio la mia casa?
Lasciare la mia casa è sempre un po’ pesante, un po’ straziante.
Lasciare la mia casa è un po’ come entrare in coma e riuscire a svegliarsi solo alla fine del viaggio con gli occhi ancora un po’ pieni di lacrime e un nodo in gola che è meglio non vedere nessuno per qualche ora.
Lasciare la mia casa è un po’ come spogliarsi dell’abito più bello: sai che devi toglierlo ma vorresti tenerlo, ancora un po’.
Lasciare la mia casa è un po’ come rimanere orfani. E ti senti sperduto e spaesato e, pur non essendolo, ti senti solo, almeno per un po’.
Lasciare la mia casa è un po’ come perdere l’infanzia e il suo sapore, senza sapere come.
Lasciare la mia casa è un po’ come sparire e avere la paura nel cuore di diventare estraneo per quelle persone care, anche solo un po’.
Lasciare la mia casa è sempre un po’ un dovere da mantenere per credere di farcela, anche soltanto un po’.
Lasciare la mia casa è sempre una certezza e una speranza: so di ritornare, magari per un po’, spero di restare, molto più di un po’...
Se solo ci fosse anche solo una possibilità di restare a casa mia la sfrutterei senza pensarci perché amo la mia terra e vorrei fare qualcosa per cambiarla. Ma voglio anche riuscire a fare qualcosa della mia vita... Essere donna qui è pesante, ci vuole il triplo della fatica.

domenica 19 agosto 2012

Strettamente personale

Oggi mi è stato recapitato via web un invito particolare. Una minaccia, nemmeno tanta velata, a farmi “i fatti miei” e a non permettermi di criticare l’operato dell’onorevole Fedele. Ora, io non penso di avere mai offeso Luigi Fedele, che sul piano personale è persona squisita, educata e garbata, con cui ho sempre avuto un rapporto franco e leale. Rivendico però il diritto alla critica, che da parte mia non è mai diventata insulto.
Questo il testo (errori compresi) del commento all’articolo L’autostrada più bestemmiata del mondo:

Caro Domenico visto il tuo innamoramento costante ed incessante nel citare l'on FEDELE che, come ben sai nel tuo animo frustrato nelle vesti del più grande scrittore Corrado Alvaro, si sta battendo per il suo paese affinchè si abbia uno svincolo degno e meritevole di un paese come il nostro Sant'eufemia ma anche Sinopoli e la vostra tanta amata "Delianuova". Quindi se non vuoi essere "richiamato" per l'ennesima volta ti invito a non parlare più di Fedele, inoltre come tu ben sai nel Quotidiano della Calabria hai scritto un articolo un po di giorni orsono che il sig. nonchè illustre assessore Napoli ti ha consigliato dicendo che tutti si dimettono per far posto ad Arimare prendendo in giro gli elettori eufemiesi. Allora ti esorto nuovamente a farla finita perchè sai un commento non gradito o una parola detta male stavolta non farà di certo piacere. Non ti resta che pensare a ciò che scrivi ti ringrazio spero che tu legga il messaggio e poi dopo averlo letto lo puoi cestinare.

All’anonimo commentatore vorrei solo ricordare che sul web qualche impronta digitale resta, anche quando si commenta in forma anonima. Per cui, non solo non raccolgo l’invito a “cestinare” il commento, ma lo pubblico su un post a parte per dargli maggiore risalto. Intelligenti pauca.

Detto questo:
a) non mi sento un grande scrittore, ma soltanto uno che dice ciò che pensa, a volte indovinando, altre sbagliando;
b) “la vostra amata Delianuova” non è espressione che rispecchia i miei sentimenti di eufemiese innamorato del proprio paese;
c) rivendico il diritto al dissenso, che è l’espressione più alta della libertà di opinione;
d) rassicuro i miei lettori sul fatto che generalmente penso a ciò che scrivo;
e) non scrivo sul “Quotidiano della Calabria” dal 2004. Se qualche volta lo faccio, si tratta di interventi sulla pagina “Lettere al Quotidiano”, sempre firmati con nome e cognome, al contrario dell’anonimo estensore della minaccia di cui sopra. L’articolo in questione non è da me firmato, né potrebbe esserlo, non essendo più io corrispondente per il Quotidiano da otto anni (infatti, è firmato Francesco Iermito);
f) decido io di cosa parlare sul mio blog.

Titolo “strettamente personale” questo post per omaggiare uno dei più grandi giornalisti italiani del ventesimo secolo, Enzo Biagi, titolare di una rubrica così intitolata e autore di una straordinaria e sempre attuale lezione di giornalismo, dignità, indipendenza e libertà.

sabato 18 agosto 2012

Putin, pussy via

Forse sono state esagerate. Forse potevano evitare di violare la cattedrale di Cristo Salvatore, cuore pulsante della Chiesa ortodossa russa. Forse sono esibizioniste in cerca di visibilità. Concesso. Però la condanna a due anni di lavori forzati per un reato d’opinione (anche se la sentenza parla di “teppismo religioso”) è abnorme. E poi, tra il gruppo punk russo Pussy Riot e Vladimir Putin, il cui sport preferito è la sistematica violazione dei diritti umani e la disinvolta eliminazione, con le buone o con le cattive, degli avversari politici, non si pone neanche il problema di scegliere da che parte stare.
Dalla parte di Nadia Tolokonnikova, Yekaterina Samutsevich e Maria Alyokhina, le tre ragazze che il 21 febbraio scorso diedero vita a balletti (“danza satanica”, per i giudici) e canti di protesta in un luogo sacro per condannare l’appoggio dato dalla chiesa ortodossa a Putin, con il viso coperto da maschere colorate diventate ora il simbolo delle manifestazioni pro Pussy Riot.
Per Voltaire, il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. Aggiungo io, anche dall’esistenza o meno, sul suo territorio, di strutture di “correzione” attraverso il lavoro che rimandano alle tragiche esperienze dei gulag sovietici, dei laogai cinesi, dei campi di rieducazione cambogiani. D’altronde, “il lavoro rende liberi” era il beffardo biglietto da visita che sovrastava l’ingresso di Auschwitz.
Che le manifestazioni “situazioniste” siano spesso al confine della legge, è risaputo. Che possano costare due anni di lavori forzati è medioevo.


giovedì 16 agosto 2012

19 agosto 1970

Il campo sportivo è il "Claudio Morisi" nella versione precedente, con il rettangolo di gioco perpendicolare rispetto all'attuale.
La combriccola, invece, era composta da un gruppo di ragazzi oggi con i capelli grigi.
La partita, un incontro estivo tra giovani promesse e vecchie glorie, un'occasione per trascorrere in allegria un caldo pomeriggio d'agosto.

Dedico questo post alla memoria di Giuseppe Saccà ("U pileri"), un amico che ci ha lasciati troppo presto.


Sant'Eufemia d'Aspromonte, 19 agosto 1970
Eufemiese Vecchie Glorie - Eufemiese Juniores 2-3
Eufemiese Juniores:
In alto, da sinistra: Vincenzo Tripodi (allenatore), Enzo Galante, Pino Luppino, 'Ntoni Migliardi, Edy Petris, Pino Fedele, Mimmo Fedele (presidente), Pasquale Creazzo (segretario).
In basso, da sinistra: Pino Pangallo, Saverio Garzo, Luigi Nolgo, Peppe Saccà, Carmelo Delfino, Nino Lupoi.

Un grazie ad Elisa, che ha gentilmente messo a disposizione del blog la foto.

domenica 12 agosto 2012

Occhi













Grondano
fiele
i tuoi occhi,
una rabbia ancestrale
incastonata
in un sorriso
di sabbia.

martedì 7 agosto 2012

Huntsville

Ad Huntsville, in Texas, salvo un miracolo dell’ultima ora, oggi sarà giustiziato Marvin Wilson, un cinquantaquattrenne afroamericano condannato nel 1992 per l’omicidio di un informatore della polizia che lo aveva denunciato come spacciatore. Wilson si è sempre dichiarato innocente, ma il punto non è questo. E non lo è neanche il fatto che egli abbia un quoziente intellettivo pari a 61, nove punti in meno della soglia al di sotto della quale, per la sentenza “Atkins” (Corte suprema federale, 2002), non può essere comminata la pena capitale.
L’esecuzione sarà possibile perché la “sentenza Atkins” concede ai singoli Stati la facoltà di fare rispettare il divieto, sulla base di criteri discrezionali nella valutazione del ritardo mentale dell’imputato. Difatti, tutti i ricorsi presentati dagli avvocati di Wilson alle corti statali e federali sono stati puntualmente rigettati. Il punto, dicevo, non è la colpevolezza o l’innocenza di Wilson, né la sua presunta disabilità. Il punto è il valore della vita umana, di tutte le vite umane (anche quella del “colpevole” Wilson). Il punto è riconoscere o meno, a chicchessia, il diritto di decidere sulla vita altrui.
Continuo a considerare la condanna capitale una mostruosità giuridica e morale. È osceno agganciare la vita di un uomo al filo esile di un cavillo burocratico, alla magnanimità o alla pietà di un altro uomo (in questo caso, il governatore del Texas, l’unico che potrebbe, oggi, decidere di commutare la condanna a morte in ergastolo).
La vendetta ha poco a che fare con la giustizia e altro sangue non può mai lavare il sangue versato. Ecco perché la pena di morte è un crimine equivalente all’omicidio, ancor più grave in quanto commesso dallo Stato, entità superiore al singolo individuo (almeno, così ci hanno insegnato). Essere contro la pena di morte non significa essere contro la giustizia. Significa essere a favore della civiltà.

* Huntsville, contenuta nell’album Che cosa te ne fai di un titolo (2005), è una bellissima canzone dei “Mercanti di liquore”. Purtroppo, non sono riuscito a trovarla su youtube.