martedì 31 luglio 2012

Un autunno caldo

Altro che “autunno caldo”, si prospetta un autunno da bollino nero. Gli indizi sembrano convergere tutti in quella direzione. E non ci sarà neanche bisogno di qualche afoso anticiclone nordafricano per fare salire la temperatura e rendere il clima bollente.
Le prima avvisaglie le vediamo da tempo, preoccupati, arrabbiati e allo stesso tempo sfiduciati. Nonostante i sacrifici imposti dalla cura da cavallo somministrataci dal governo Monti, fatichiamo. L’asticella della ripresa viene spostata sempre più in avanti. Al momento, ci siamo già bruciati il 2013. Un po’ come per la fine dei lavori della Salerno-Reggio Calabria, che ogni anno viene allungata di due. Anche se ora, pare, dovrebbe mancare davvero poco.
Ma torniamo alle calde giornate che ci attendono al ritorno dalle ferie, per chi le farà. I dati di Federalberghi, per dire, non sono affatto incoraggianti. Rispetto a giugno 2011, –8,2% di clientela straniera e –7,1% di turisti italiani. Settembre sarà il mese del salasso della seconda rata Imu: secondo Confedilizia, rincari fino all’80% per chi affitta. Conseguenza prevedibile della decisione adottata da molti sindaci: aliquote al minimo per la prima casa (giustissimo), obtorto collo al massimo per la seconda. Con una pressione fiscale reale record (55%), dato spaventoso che va ad aggiungersi a quello sul maggiore aumento di tasse tra i Paesi dell’Unione europea negli ultimi dodici anni (+3,4%), Confcommercio avverte che c’è poco da stare allegri. Il mercato del lavoro è al collasso, con più di trenta aziende al giorno costrette a chiudere, lo scorso anno. A giugno, l’Istat ha segnalato il 10,8% di disoccupati (+0,3% rispetto a maggio, +2,7% su base annua), con una percentuale giovanile da incubo (34,3%). Se non si lavora, non si consuma. Hai voglia a esporre i cartelli dei saldi. Infatti, sono quasi passati inosservati, se il Codacons ha lanciato l’allarme di un calo del 20% (30% al Sud) nelle prime due settimane di sconti. D’altronde, i soldi se ne vanno in bollette per la luce e per il gas. Ogni paio di mesi, arriva la stangata, quantificata dalla Cgia di Mestre in un aumento complessivo del 48,3% negli ultimi dieci anni.
Il timore è che i sacrifici ai quali gli italiani sono quotidianamente chiamati, possano alla fine rivelarsi insufficienti. Ma c’è di più. C’è la sensazione che i sacrifici non siano proporzionati, che il grosso stia ricadendo sulle spalle della gente comune e che, alla “casta”, il governo abbia soltanto fatto il solletico. A ciò va aggiunto che, nel pieno di una crisi drammatica: a) da tre mesi la politica non riesce ad accordarsi su una legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliersi i propri rappresentanti; b) lo scarto tra rappresentanti e rappresentati è ormai al massimo storico; c) i partiti perdono ogni giorno consenso e credibilità; d) il nepotismo impera e la meritocrazia latita. Non serve una Cassandra per capire che, da qui a un paio di mesi, l’Italia si dividerà tra incendiari e pompieri.

mercoledì 25 luglio 2012

Millenovecentotrentaseivirgolaottanta

Ora sappiamo quanto vale la vita di un precario. Neanche duemila euro. Per la precisione, 1936,80. È il risarcimento assegnato dall’Inail alla madre di Matteo Armellini, l’operaio trentunenne morto a Reggio Calabria, lo scorso 5 marzo, schiacciato dal palco in allestimento per il concerto di Laura Pausini.
A determinare l’ammontare della vergognosa cifra, la bassa retribuzione di Matteo, lavoratore privo di alcuna tutela (men che meno della copertura assicurativa), senza precisi orari di lavoro (a volte, turni di sedici ore) e senza uno stipendio regolare. Destino comune a tanti giovani, laureati (in storia, Matteo) e non, costretti ad accettare condizioni da schiavi pur di sbarcare il lunario. O ti mangi questa minestra…
Sarebbe da sporchi comunisti pretendere che vite del genere valgano quanto quella di alti dirigenti e politici, che percepiscono stipendi di centinaia di migliaia di euro e per i quali (o almeno per i loro familiari) anche la morte diventa un affare, ma qua siamo di fronte all’insulto, all’inaccettabile offesa della dignità umana. Dignità che si stupra anche definendo l’obolo elargito “risarcimento per infortunio e malattia professionale”, mentre – sostiene la madre, che ha sporto denuncia e pretende giustizia – “Matteo non aveva ancora cominciato a lavorare”.
Mi rifiuto, mi rifiuterò sempre di accettare che il valore delle persone lo stabiliscano il mercato e gli stipendi loro assegnati o che esistano persone più uguali di altre: l’esiguità della somma liquidata dipende, infatti, anche dalla circostanza che Matteo non aveva moglie, né figli.
Piero Sansonetti, dalle colonne di “Calabria Ora”, ha lanciato una proposta, chiedendo a Laura Pausini, attualmente impegnata nella preparazione di un concerto con Pino Daniele, di sospendere tutto “finché l’Inail non chiederà scusa e non moltiplicherà per mille il risarcimento a Matteo”.
Io credo che la cantante romagnola possa fare di più e più in fretta. Conosciamo i tempi biblici della giustizia italiana e conosciamo anche le doti umane di un’artista spesso promotrice di importanti iniziative di solidarietà. Sarebbe bello se, autonomamente, Laura Pausini decidesse di tenere un concerto in memoria di Matteo per devolvere alla madre l’incasso dello spettacolo.

sabato 21 luglio 2012

Quantomar per l'Argentina

Pare sia stato lui a pronunciare il celebre “permettete” o, secondo un’altra versione, “permettete che vado”, con il quale, una sera, si congedò in piazza dal consueto gruppo di amici. Niente lasciava presagire che quella sarebbe stata la sua ultima notte in paese, prima della partenza per l’Argentina.
Come una fuga. “Dietro ogni soldato c’è una donna”. Forse, anche dietro qualche emigrante. Non che Ciccio non avesse, di suo, validi motivi per andare via. Ma chissà, il rifiuto di Peppina potrebbe averlo convinto a legare stretti i suoi ventisette anni dentro la valigia di cartone, per rinascere undicimila chilometri a sud, un mese più tardi.
Unico maschio, dopo tre bimbe, Ciccio era carbonaio, come Carmine, suo padre, e come Mico, suo cognato. Insieme a loro, alla fine della seconda guerra mondiale, si era trasferito a Morlupo, a spaccarsi la schiena nei lavori di bonifica dell’Agro romano. Ma per partorire, la moglie di Mico decise che ci voleva la “mammina” del paese, chiudendo così, d’imperio, la parentesi romana. Ciccio tornò alla carica con Peppina, che lo respinse nuovamente. Un altro buon motivo per mettere l’Oceano tra sé e la propria terra. Partì insieme al padre, con l’idea di fare qualche soldo e poi chiamare il resto della famiglia. Non fu però dello stesso avviso la commissione che doveva valutare lo stato di salute degli emigranti e che decretò l’inabilità di Rosa, sua mamma, ormai quasi cieca per il tracoma.
Tempo e distanza possono essere alleati o nemici, fortificano o cancellano i sentimenti. In Argentina, padre e figlio iniziarono una nuova vita. Altrimenti non si spiega come neanche Carmine abbia sentito il bisogno di tornare a casa. E sì che, al tempo, aveva dovuto lottare come un leone per avere Rosa. A ripensarci, ancora sentiva il dolore alla testa e la puzza di piscio dovuti alla mira da cecchino della futura suocera, una sera che aveva insistito troppo con la serenata sotto la finestra e si era visto arrivare addosso un vaso da notte di ferro, ricolmo.
Quando ormai Ciccio si era dimenticato di Peppina, arrivò la repentina zampata del destino, che fece incontrare la ragazza con Rosa nel forno dove le famiglie, mensilmente, portavano il grano per fare il pane. Rosa aveva ancora in tasca una lettera e una foto del figlio, ormai un uomo di trent’anni. “È proprio bello. Si è sposato? Ora me lo prenderei”, le parole di Peppina, riportate da un’amica in confidenza con penna e calamaio sul foglio di quaderno che di lì a poco avrebbe solcato le onde del mare. Ciccio sembrava non aspettasse altro. Nel giro di un paio di mesi fu celebrato il matrimonio per procura, quindi Peppina si imbarcò sulla nave che l’avrebbe portata dal marito.
Una storia a lieto fine, senza lieto fine e con due finali discordanti. Il primo: arrivata in Argentina, Peppina sorprese il marito con una donna, per cui rifece immediatamente un altro mese di viaggio, percorso inverso. Il secondo: Ciccio viveva in una stamberga, una situazione di degrado non accettata da Peppina, che mostrò immediatamente segni di squilibrio, si rifiutò di consumare il matrimonio e fu rispedita dalla madre.
Pazzia o vergogna, una volta rientrata in paese Peppina non uscì di casa per il resto dei suoi giorni, limitandosi a fare capolino da dietro una finestra, pronta a ritrarsi non appena incrociava lo sguardo di qualcuno. Ciccio seppellì il padre in Argentina e continuò a dare sporadiche notizie fino a quando sua madre fu in vita. Dopo, di lui, non si seppe più nulla.



venerdì 13 luglio 2012

A volte ritornano

Pare che non si sia trattato di un colpo di sole, Berlusconi ha davvero intenzione di ricandidarsi. Tutto il mondo imprenditoriale – a suo dire – ne chiede a gran voce il ritorno. La classica situazione che richiede un “sacrificio” al quale non può sottrarsi chi ha a cuore le sorti del Paese. E pazienza se quel manettaro di Di Pietro, al solito, la butta in caciara: “si è messo a fare politica per motivi giudiziari” e continua perché, evidentemente, “deve ancora sistemare qualche processo”.
Non la prenderanno bene i riformatori pidiellini che, negli ultimi tempi, avevano guadagnato visibilità e iniziativa, sconfinando nella blasfemia (per il partito più “personale” del panorama politico nazionale) della proposta di primarie per la scelta del candidato a premier. Ovvio che, con Berlusconi, le primarie diventano un orpello inutile. Ma lo scalpitante fronte formattatore se ne farà una ragione. Come Angelino Alfano, il segretario di partito meno influente della storia politica italiana, costretto a correre immediatamente ai ripari per risintonizzarsi sulla nuova lunghezza d’onda: “tanti chiedono al presidente Berlusconi di ricandidarsi. Io sono in testa a questi. Se deciderà di farlo, sarò e saremo al suo fianco”. Parole non si sa quanto sincere. A naso, non tanto. L’investitura sovrana che l’ha collocato al vertice del partito non consentiva margini di manovra, ma la svolta, per come è avvenuta, rappresenta una evidente deminutio capitis. Il messaggio è chiaro: le carte le distribuisce l’uomo di Arcore, che “è” il partito. Gli altri sono semplici comparse, utilizzate dal consumato regista ora per questa scena, ora per quella. Rinviata sine die, pertanto, l’ipotesi di ritagliare per Berlusconi il ruolo di “padre nobile” del partito che sarà, una sorta di allenatore e dispensatore di consigli per le nuove leve politiche.
Determinanti alcuni sondaggi (Euromedia Research) che danno il Pdl moribondo “con Alfano leader e Berlusconi fuori dalla politica” (8-12%); quasi in coma “con Alfano candidato premier e Berlusconi padre nobile e presidente del partito” (17-21%); pimpante in caso di “ticket Berlusconi-Alfano, in campo con un progetto che richiami le origini di Forza Italia e una squadra di giovani dirigenti, in un partito completamente rinnovato nelle persone” (intorno al 30%). È noto che i “suoi” sondaggi sono bussola e vangelo, anche quando non convincono i metodi di rilevamento. D’altronde, quello del “ritorno alle origini” è un fiume carsico che periodicamente riaffiora, sponsorizzato dall’ala forzista e guardato con diffidenza dagli ex aennini. Per gli avversari del Cavaliere, invece, l’annuncio è manna caduta dal cielo. “Prego che non cambi idea”, si lascia sfuggire Beppe Fioroni, presagendo una facile vittoria nella prossima primavera. Un regalo che spinge Casini nelle braccia di Bersani e che provoca anche l’irrigidimento del Carroccio (Maroni: “scende in campo? E dove? A San Siro?”).
Non è complicato comprendere le ragioni del cambio di strategia. Senza il suo vero e unico leader, il Pdl è a rischio estinzione, dilaniato dalle correnti che si sono scatenate non appena l’ex premier ha fatto un passo indietro. Certo, dopo quasi venti anni di assidua frequentazione delle stanze del potere, Berlusconi non può più proporsi come l’imprenditore che promette di replicare al governo del Paese i successi ottenuti da privato cittadino, sbaragliando una volta per tutte politici di professione e teatrino della politica. Ma in questa fase prevalgono le ragioni del “primum vivere”. Anche perché il futuro è ancora emergenza economica da affrontare con l’attuale formula di governo grancoalizionista, Monti o non Monti. Per giocare ancora un ruolo, Berlusconi ha bisogno di tenere salde le redini del partito e sperare in un buon risultato elettorale, per poi sedersi al tavolo delle trattative (giustizia, Quirinale) da una posizione di forza.

domenica 8 luglio 2012

Mangiafuoco

E due. Dopo Giovanni Fedele, candidato a sindaco per la lista Colomba, si è dimesso anche Salvatore Coletta, primo dei non eletti, che era subentrato qualche settimana fa. Un consiglio comunale a testa e poi basta. Esperienza finita. In barba alla volontà e alla fiducia degli elettori che certo non avevano vincolato il voto al successo della lista. Verrebbe da dire “troppo comodo” fare il consigliere di maggioranza e abbandonare la nave quando si perdono le elezioni. Ma così va il mondo. Male. Non ci sorprende. Semmai, conferma riflessioni già espresse sulla marginalità della “politica” in alcune candidature.
Per questo, non ci persuade la giustificazione ufficiale fornita da Fedele: “mi dimetto per rispetto degli elettori che non mi hanno votato”. Saranno dello stesso avviso i 1.156 elettori che certamente avevano votato l’uomo e il politico, prima che la carica? Ora che la scure governativa ha ridotto al minimo la rappresentanza politica degli enti locali, sarebbe utile e auspicabile la presenza di personalità competenti in seno al consiglio comunale. Fedele, già sindaco per un quinquennio e ora dirigente alla Regione Calabria, sarebbe stato una garanzia per tutti e avrebbe saputo svolgere al meglio la delicata funzione di controllo dell’attività di governo dell’attuale maggioranza. Probabilmente, questa considerazione non è stata fatta o non ha avuto alcun peso. Peccato.
Coletta non ha invece avuto niente da dire, almeno pubblicamente. Ma i 167 eufemiesi che avevano scritto, fiduciosi, il suo nome sulla scheda avrebbero diritto a qualche spiegazione. Altrimenti, davvero va a finire che è tutta colpa di Mangiafuoco, quello che muove i fili e decide per tutti.


venerdì 6 luglio 2012

Pensieri in libertà sotto il solleone


Dal mio poco privilegiato osservatorio, l’estate 2012 stenta parecchio. E chissà se mai decollerà. Però è stato catturato il bosone di Higgs, la “particella di Dio”, una scoperta che ha fatto perdere a Stephen Hawking (non a Pinco Pallino) una scommessa da 100 dollari e che ci ha fatto sognare per due-tre minuti, il tempo necessario prima che la vita dei comuni mortali riprendesse il sopravvento per sentenziare che, di fronte alle molteplici complicazioni quotidiane, non c’è bosone che tenga.
Il sentimento prevalente è la rassegnazione. Rassegnati al governo Monti. Certo, otto mesi fa è stata un’esultanza collettiva, come se l’Italia fosse finalmente riuscita a liberarsi del tappo (senza ironia) che ne impediva il rilancio. Non se ne poteva più di barzellette, escort, regali a “loro” insaputa, ville di qua e lingotti di là. Al momento, non ci sono alternative alla bicicletta. Pedalare, almeno fino al 2013.
Altro sentimento a buon mercato è la sfiducia. Comprensibile. Con ammiragli incapaci di accorgersi del rischio-collisione (e, dopo, hai voglia a gridare “salga a bordo, cazzo!”), non è affatto sorprendente che un comico (aridaje) rischi davvero di fare saltare il banco. Insomma, o Monti e i suoi sodali o il caos. I “poteri forti” non hanno avuto dubbi nella scelta, mentre al popolo – come sempre – non resta che grattarsi. Pazienza se hanno fatto il deserto, edulcorando l’operazione con la trendissima spending review. La fregatura c’è, tanto da suggerire di mettere mano alla fondina ogni volta che viene utilizzato un termine inglese per indicare un provvedimento governativo. La locuzione “u cani muzzica ’nto sciancatu” non è tipicamente oxfordiana, ma rende l’idea. Vedere cosa capiterà all’istruzione per credere: colpi di machete contro università e scuola, a beneficio (casualità) degli istituti privati, nel solco già tracciato quando ancora il governo dei banchieri e dei professori di università private era di là da venire. La disoccupazione record, l’assalto ai diritti dei lavoratori e l’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro, le pensioni che non ci saranno (alla faccia dei diritti acquisiti, validi soltanto per la casta), la razionalizzazione-soppressione di ospedali e tribunali. Anche qui, spending review. Non resta che consolarsi con la telenovela Rai. Da anni si auspica l’estromissione della politica dagli uffici di viale Mazzini, salvo poi dovere puntualmente constatare come neanche una pianta possa essere trasferita di stanza, senza il preventivo ricorso a incistate logiche spartitorie.
Sul fronte delle riforme, si naviga a vista. Nonostante sia tutto un “il Paese ne ha urgente bisogno” e – in caso di fallimento – “i cittadini non capirebbero”. Rimborsi elettorali, assemblea costituente, restyling dell’architettura istituzionale dello Stato. Un chiacchiericcio inconcludente, che raggiunge l’apice con il dibattito sulla legge elettorale, invocata a ogni piè sospinto e bloccata, più che dai veti incrociati, dal sostanziale favore delle forze politiche per l’attuale sistema. Tanto da fare venire il dubbio che, alla fine, la montagna partorirà il solito topolino. O un “porcellinum”.