venerdì 29 marzo 2013

La buona novella

Dieci tracce per ripercorrere con gli occhi degli esclusi la vicenda del “più grande rivoluzionario di tutti i tempi”. Quegli occhi diventati una firma inconfondibile e gli occhi stessi di Fabrizio De André. Prospettiva sempre inedita rispetto al pensiero dominante, sguardo lieve e indulgente, mai severo perché soltanto chi fosse capace “di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio” (Khorakhané, 1996) potrebbe arrogarsi il diritto di giudicare uomini e avvenimenti.
La buona novella (1970) è un racconto in terza persona, che raccoglie le voci dell’io narrante e dei compagni di viaggio del figlio di Dio (dalla folla di Gerusalemme alle madri dei due ladroni Tito e Dimaco); non quella del protagonista principale. La realizzazione del concept album richiese un anno di studio dei Vangeli apocrifi, scritti tra il I e il IV secolo dopo Cristo da autori bizantini, armeni e greci. Apocrifo letteralmente significa “nascosto”, “segreto” perché di difficile comprensione, ma nel tempo è prevalsa l’accezione di “falso”, in contrapposizione alla versione “ufficiale” dei fatti tramandata dai quattro Vangeli canonici. La loro caratteristica principale è quella di colmare il vuoto storiografico di alcune vicende, dall’infanzia di Maria, a quella di Gesù, ad aspetti delle biografie di Giuseppe, Erode e Pilato. Soprattutto, essi ci consegnano personaggi più “umani”, esito cui non poteva certo rimanere indifferente De André, che infatti nella sua ultima tournée sottolineò: “probabilmente i personaggi del Vangelo perdono un poco di sacralizzazione, io credo – e spero – soprattutto a vantaggio di una loro maggiore umanizzazione”.
Il messaggio dell’opera, che si inserisce nel contesto storico della protesta sessantottina, non fu da tutti immediatamente compreso. Lo stesso cantautore genovese ammise:

Quando scrissi La buona novella era il 1969. Si era quindi in piena lotta studentesca e le persone meno attente – che poi sono sempre la maggioranza di noi – compagni, amici, coetanei considerarono quel disco come anacronistico. Mi dicevano: “come? Noi andiamo a lottare nelle Università e fuori dalle Università contro abusi e soprusi e tu invece ci vieni a raccontare la storia, che peraltro già conosciamo, della predicazione di Gesù Cristo?”. Non avevano capito che in effetti La buona novella voleva essere un’allegoria, era un’allegoria, che si precisava nel paragone fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del ’68 e istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate, ma da un punto di vista etico-sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universale: si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi.

L’album inizia con una supplica a Dio (Laudate dominum) e si conclude con l’invocazione all’uomo (Laudate hominem: “non devo pensarti figlio di Dio, ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”). Il volto di Gesù diventa il volto degli “ultimi” della terra, simbolo universale della storia dell’umanità che si ripete in ogni epoca e ad ogni latitudine e che si manifesta con l’arbitrio del Potere, sempre pronto ad uccidere in nome di un’entità superiore e assoluta: Dio, la Verità, la Legge.
Tra le due preghiere, il racconto di ciò che i Vangeli non hanno narrato. La vita di Maria prima che diventasse madre di Gesù (L’infanzia di Maria) è la vicenda di una bambina-schiava reclusa nel tempio del Signore a tre anni ed espulsa a dodici per non contaminare con il sangue delle proprie mestruazioni quel luogo sacro. La volontà dell’adolescente vale meno di zero. Secondo l’usanza del tempo, le bambine del tempio andavano messe in palio e destinate agli scapoli e ai vedovi del luogo: Maria (“del corpo di una vergine si fa lotteria”) viene assegnata a Giuseppe, un falegname già carico di anni e di figli, che subito dopo parte per la Giudea. Al ritorno (Il ritorno di Giuseppe), dopo quattro anni, l’amara sorpresa di una gravidanza che Maria tenta di spiegare con “i resti d’un sogno raccolto”, nel brano più suggestivo dell’album: Il sogno di Maria, racconto dell’Annunciazione che si conclude con la compassione di Giuseppe, racchiusa nel gesto di una tenera carezza alla fronte della giovane sposa. Dopo Ave Maria, omaggio a tutte le donne e inno al miracolo della maternità (“femmine un giorno e poi madri per sempre”), Maria nella bottega d’un falegname mette in scena il drammatico incontro tra Maria e il falegname alle prese con la costruzione delle tre croci: “due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare”, il passaggio che rivela la matrice antimilitarista di tutto il pensiero di De André. Via della Croce inizia con l’esplosione dell’ira del popolo (“poterti smembrare coi denti e le mani, sapere i tuoi occhi bevuti dai cani”) contro colui che aveva “provocato” la strage degli innocenti (“trent’anni hanno atteso, col fegato in mano, i rantoli di un ciarlatano”), ma la canzone è un affresco di presenze e umori: le donne che seguono la processione del condannato a morte; gli apostoli terrorizzati e muti; i seguaci nascosti e piangenti; infine Tito e Dimaco, “solo due ladri” pianti dalle rispettive madri e da nessun altro. In Tre madri il dolore di Maria diventa il pianto di tutte le madri del mondo, uguale sia che il figlio sia un ladro, sia che incarni il figlio di Dio. Anzi, la pena delle altri due madri sembra contenere un’angoscia maggiore perché Gesù, a differenza di Tito e Dimaco, è destinato a risorgere: “lascia a noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte”. Consolazione che però non può bastare al dolore di Maria e che sfocia quasi in bestemmia: “non fossi stato figlio di Dio, t’avrei ancora per figlio mio”. Quindi, la canzone più famosa dell’album, Il testamento di Tito, definita dal suo autore “una lettura provocatoria dei dieci comandamenti, che il ladrone smonta uno per uno smascherando l’ipocrita convenienza di chi li aveva dettati”. Un antidecalogo che svela l’insofferenza per il potere istituzionalizzato, sia esso politico o religioso, e che mette in risalto “la contraddizione che esiste tra chi le leggi le fa a sua immagine e somiglianza, a suo uso e consumo per potersi permettere anche il lusso di non rispettarle e chi è invece obbligato a rispettarle perché il potere non lo gestisce ma lo deve semplicemente subire” (De André nella sua ultima apparizione al teatro Brancaccio di Roma, 1998).
La strada per la salvezza è una sola e ad indicarla, poco prima di spirare, è proprio Tito: “nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”. Quella pietas – altro tratto caratteristico della produzione di De André – che non è pena per chi soffre, bensì “compassione” (cum: insieme; patior: soffro), cioè partecipazione alla sofferenza dell’altro.



mercoledì 27 marzo 2013

Il marchese del Grillo 2.0

Era scontato che la diretta streaming si sarebbe rivelata una trappola. Ma Bersani “doveva” caderci, per non subire l’accusa di non avere tentato tutte le strade. Ed è pure naturale che un movimento che si professa antisistema non abbia alcun interesse a fare da stampella a Bersani, Berlusconi o chiunque altri. Se poi i “vecchi” partiti vogliono fare un ulteriore regalo a Grillo, non hanno che una strada: coalizzarsi in un governo di “responsabilità” che si trasformerà in una formidabile carta tra le mani del M5S nella prossima campagna elettorale.
Ci sta pure che qualcuno si indigni e accusi i grillini di essere privi di senso di responsabilità (penso alla posizione di Fiorella Mannoia, per esempio), ma ciò – paradossalmente – potrebbe rivelarsi utile da un punto di vista di chiarificazione: ognuno ora sa cosa ha votato, cosa non ha votato o cosa ha prodotto la decisione di astenersi e si regolerà di conseguenza.
A questo punto tocca al Pd prendere l’iniziativa e chiedere di andare alle urne al più presto. Il M5S vuole il “tanto peggio, tanto meglio?”. E “tanto peggio, tanto meglio” sia. È tempo di sfidare l’avversario: tergiversare o sperare nella resipiscenza di Grillo è soltanto una perdita di tempo.
Solo gli illusi potevano credere che Grillo e Casaleggio potessero avere uno scatto di generosità o che il M5S avrebbe stabilito la propria linea nell’incontro con Bersani, la cui proposta probabilmente non è stata neanche ascoltata.
Le decisioni che contano il M5S le prende altrove e senza dibattito interno, visto che l’unica volta che Grillo e Casaleggio hanno allentato la catena (elezione del presidente del Senato) stava per scoppiare il finimondo.
Quella di oggi è stata soltanto una parata a favore di webcam, che gli adoranti grillini certamente apprezzeranno, ma che non cambia la sostanza di un movimento populista, saccente e antidemocratico.
“Le parti sociali siamo noi” ha dichiarato la portavoce alla Camera, Lombardi. A me ha ricordato Alberto Sordi ne Il marchese del Grillo: “Io so io e voi non siete un cazzo”.
Qua siamo al marchese del Grillo 2.0: “Le parti sociali siamo noi e voi non siete un cazzo”.
Nulla di nuovo sotto il sole.

lunedì 25 marzo 2013

Il cavallo di Chiuminatto

Finalmente siamo in stampa: in anteprima per gli amici del blog prima e quarta di copertina. Il cavallo di Chiuminatto (Nuove Edizioni Barbaro, pp. 192; con prefazione di Francesco Arillotta).
In libreria dopo Pasqua


 
 
 
 

giovedì 21 marzo 2013

Addio, campione

Ricordo il dito di Pietro Mennea puntato contro il cielo subito dopo avere tagliato il traguardo. L’osservavo ogni mattina, proprio di fronte al mio lettino.
Addio, campione





Pietro Mennea è una leggenda dell’atletica leggera italiana. Campione olimpico sui 200 a Mosca (1980), campione europeo sui 100 (Praga 1978) e sui 200 (Roma 1974 e Praga 1978), campione europeo indoor sui 400 (Milano 1978).
Ha partecipato a cinque Olimpiadi: 1972, 1976, 1980, 1984, 1988 (bronzo nel 1972 sui 200; bronzo nel 1980 nella staffetta 4x400).
Bronzo sui 200 e argento nella staffetta 4x100 ai mondiali di Helsinki del 1983. Argento nei 100 e nella staffetta 4x100 agli europei di Roma del 1974; bronzo nella staffetta 4x100 agli europei di Helsinki del 1971.
Cinque medaglie d’oro alle Universiadi, sette d’oro ai Giochi del Mediterraneo, 16 d’oro ai campionati italiani.
Il suo record mondiale sui 200 metri (19 secondi e 72 centesimi), stabilito a Città del Messico nel 1979, ha resistito fino al 1996 (battuto da Michael Johnson), risultando tra i più longevi della storia dell’atletica mondiale.

lunedì 18 marzo 2013

Il Papa dei poveri

A pochi giorni dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro, la sensazione è da tramonto di un’epoca. Ciò non implica un giudizio negativo sul pontificato di Benedetto XVI. Anzi. Quando i fatti sedimenteranno e consentiranno agli storici una valutazione obiettiva, la statura morale, intellettuale e “politica” di Joseph Ratzinger avrà un giusto riconoscimento.
Ho ripensato spesso, in queste ultime settimane, alle parole rivolte da un minaccioso Napoleone Bonaparte al cardinale Consalvi, segretario di Stato di Pio VII – “Io distruggerò la vostra Chiesa” – e alla risposta del plenipotenziario pontificio: “Maestà, sono venti secoli che noi stessi cerchiamo di farlo, ma non ci siamo mai riusciti”.
C’è dell’inspiegabile – per chi crede, riconducibile ai piani insondabili di Dio – nella capacità della Chiesa di toccare il fondo per poi rialzarsi.
Dopo gli scandali del recente passato e la rinuncia di Benedetto XVI, urgeva un cambio di marcia. Ancora è troppo presto per azzardare se il volo ci sarà, ma la rincorsa è già visibile.
I primi passi di Francesco appaiono confortanti per tutti quei fedeli che vivono con ansia e smarrimento l’attuale situazione. L’attesa era grande ed è stato sufficiente poco (o molto: dipende dai punti di vista) per fare scoccare la scintilla: la rinuncia al crocifisso d’oro e alla mozzetta rossa; la richiesta di saldare il conto alla reception della Casa del Clero; il viaggio sulla navetta vaticana – preferita alla Mercedes nera targata SCV1 – e la scoperta che da cardinale Bergoglio era solito spostarsi in metropolitana, in autobus o addirittura in bicicletta. Nei suoi gesti, sobrietà, umiltà e calore: quanto basta per suscitare un istintivo moto di simpatia, che i continui strappi al protocollo (già diventati un tratto distintivo del suo pontificato) favoriscono ulteriormente: la ricerca del contatto fisico con i fedeli, i discorsi a braccio, le battute ironiche e le confidenze personali, come la rivelazione dell’invito rivoltogli del cardinale brasiliano Claudio Hummes nel corso dello scrutinio (“non dimenticarti dei poveri”), che ha determinato la scelta del nome: “l’uomo della povertà (“come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”), l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato”; o il ricorso alle parole di un’anziana signora incontrata in Argentina per spiegare il vero significato della parola misericordia, tema centrale del suo primo Angelus. E poi quell’invocazione (“pregate per me”), ripetuta sin dal giorno dell’elezione, insieme alla raccomandazione di “parlarsi gli uni con gli altri”. Ascoltare e parlare. Una soluzione nuova e antica. Come la Chiesa che ha in mente Francesco.

giovedì 14 marzo 2013

Contrada Peras


A Domenico Cutrì, prolifico poeta eufemiese trapiantato ad Ala di Trento, l’amministrazione comunale guidata da Giovanni Fedele ha dedicato, circa dieci anni fa, la biblioteca comunale.
Tra i versi ispirati a Sant’Eufemia d’Aspromonte, la poesia Contrada Peras del mio paese natio a mio avviso è tra le più significative della sua produzione, non a caso contenuta anche nella “prima parte” (Poesie della memoria) della raccolta L’ultimo volo, pubblicata postuma a cura della figlia Franca, nel 1985:

In questa contrada
il gallo batteva le ore
ed i contadini del tempo
– zappa a spalla –
si recavano al lavoro.

La sera, seduti scalzi sull’acciottolato
davanti alla porta di casa,
farfugliavano nel vuoto,
aspettando pensierosi il domani,
per chi riusciva a vederlo.

La semplicità e la circolarità della quotidianità campestre, scandita dal canto del gallo; la “fatica” della vita, fatta di lavoro, lavoro e poi… ancora lavoro; la precarietà di esistenze condannate alla solitudine della sera, prive di sogni perché il sognare presuppone la capacità di guardare oltre il traguardo più immediato e urgente, alzarsi l’indomani per continuare a lasciare nei campi, giorno dopo giorno, vigore, gioventù, anima.

domenica 10 marzo 2013

Polito e il calo dei matrimoni

Ho letto la riflessione domenicale di Antonio Polito sulla prima pagina del Corriere della Sera: “Quelle leggi antimatrimonio”.
Una panoramica a trecentosessanta gradi sulle ragioni del calo inarrestabile dei matrimoni in Italia: quarantamila in meno negli ultimi tre anni. Uno pensa: la crisi economica. Macché. Quello è l’ultimo dei problemi per l’ex direttore de Il Riformista, che infatti neanche la inserisce tra le cause del declino dell’istituto matrimoniale.
Il motivo principale andrebbe invece ricercato nella selva legislativa della materia, “una pletora di leggi e regolamenti che in Italia disincentivano a sposarsi”. Un esempio? La recente circolare dell’Università di Genova che, estendendo le norme della legge Gelmini contro il nepotismo dei baroni, proibisce l’assunzione di docenti sposati con colleghi che già lavorano nell’ateneo della città della Lanterna. Tra le invettive scagliate contro la riforma Gelmini quella del giornalista campano, seppure “indiretta”, è la più singolare. Non ci aveva pensato proprio nessuno, bisogna ammetterlo.
Un caso di scuola, prosegue Polito, riguarda invece la regolamentazione delle assunzioni in Rai. Benedetto figliolo, è notorio che la Rai è ormai il bancomat di mogli, figlie, amanti di politici e vip di turno (collaborazioni, consulenze e chi più ne ha più ne metta). Per dire: per anni gli italiani hanno stipendiato il compagno di Antonella Clerici, un animatore di villaggi turistici diventato improvvisamente autore dei programmi della procace conduttrice televisiva, sparito l’indomani della fine della storia d’amore tra i due. E sarebbe sufficiente leggere le firme dei servizi dei telegiornali e dei membri delle redazioni giornalistiche (un velo pietoso sulla carta stampata), per farsi una semplicissima domanda (“sarà figlio/a di?”) e dedicare una sonora pernacchia a Polito.
Ma forse siamo noi accecati dalla furia anticasta e inebriati dal grillismo più sfrenato, mentre quello di Polito è un ragionamento ineccepibile, che scoperchia l’ingiustizia di norme discriminatorie e inaccettabili per qualsiasi paese civile. Se lo tolgano dunque dalla testa i 12 milioni di italiani conteggiati dall’editorialista del Corriere che vivono “al di fuori della famiglia tradizionale”: è vano sperare di regolarizzare la propria situazione sentimentale, pena la rinuncia alla cattedra universitaria o alla scrivania di un tg nazionale. Notoriamente, il sogno di tutti gli italiani.
Senza contare, incalza un incontenibile Polito, tutti quei furbastri ottuagenari che non si risposano per non perdere l’uso della casa o per non dovere rinunciare all’assegno di reversibilità della pensione del defunto coniuge. Anche se qua è più indulgente, concedendo e concludendo che l’istituto giuridico del matrimonio è diventato “troppo rigido per una società tanto flessibile”.
Sulla crisi economica, sulla precarizzazione del lavoro e sulla disoccupazione giovanile, sul disastro dell’edilizia sociale neanche un accenno. Coppie di giovani senza un lavoro dignitoso, senza un alloggio, senza la speranza di un futuro migliore e per Polito sembra che il problema sia la riforma Gelmini. Troppi salotti televisivi e poca strada. La sindrome dello scollamento dalla realtà evidentemente è una patologia che non colpisce soltanto i politici.

mercoledì 6 marzo 2013

E si torna sempre al "che fare"

A me sembra che il Pd si stia impantanando in un’eccessiva elaborazione del lutto. Non che non ci sia stata la sconfitta, o comunque una non vittoria: “siamo i primi, ma non abbiamo vinto”, l’analisi a caldo, onesta, del segretario Bersani. E però gli altri sono già in campagna elettorale, proiettati sul futuro: al risultato del 24 e 25 febbraio neanche ci pensano più. Berlusconi minaccia di chiamare a raccolta la piazza una volta al mese e da qui in avanti il motivo lo troverà sempre, visto che l’arma del legittimo impedimento è al momento parecchio spuntata e i suoi processi invece andranno avanti.
Grillo tifa spacciatamente per il “tanto peggio, tanto meglio” (cinico, ma ineccepibile dal suo punto di vista) per continuare a monetizzare lo scontento di larga parte dell’elettorato. Inutile attendersi che i richiami al senso di responsabilità producano effetti positivi, sponda M5S. Che fare (ah, vecchio Lenin), quindi? Fare i conti con la realtà sarebbe già un utile primo passo. E la realtà ci dice: a) che nessuno ha i numeri per fare un governo; b) che il centrosinistra, pur non avendo la maggioranza nel Paese, ha la maggioranza alla camera. L’iniziativa politica non può che spettare a Bersani.
E poi? E poi, come diceva un mio vecchio professore, “a mio modesto e subordinato parere” bisogna tirare fuori gli attributi.
Mi pare che Bersani sia su questa strada e me ne compiaccio, anche perché ultimamente l’ho parecchio criticato, tanto da avere disertato le urne nell’illusorio tentativo di lanciare il mio pezzettino di segnale di insofferenza nei confronti della gestione del partito in Calabria: commissariamento infinito, candidature calate dall’alto, solito sconcio di primarie dalla dubbia credibilità.
“Scurdammoce ’o passato”: è stato un errore non chiedere di andare al voto dopo la caduta di Berlusconi; è stato un altro errore farsi impiccare a quel “senso di responsabilità” dal quale il leader pidiellino, furbo e previgente, si è smarcato, tanto da far credere che il disastro sia stato provocato da altri e non da chi ha vinto le elezioni nel 2008, governato per tre anni e mezzo, sostenuto Monti per un altro anno; è stato un errore gustarsi dal divano la campagna elettorale degli altri, incapaci di prendere posizioni nette sia perché sicuri della vittoria, sia perché troppo attenti al mantenimento dell’equilibrio tra Monti (che invece ci è andato giù pesante) e Vendola.
Si guardi al futuro, senza cedimenti né paure. Occorre recuperare il feeling con la società, ma questo è un processo che richiederà tempo e una nuova classe politica. Per il Pd potrebbe essere positivo il dato di fatto che Grillo non rappresenta tutta la protesta: l’alto astensionismo, da questo punto di vista, è eloquente.
Il senso della proposta degli otto punti “irrinunciabili per qualsiasi governo” è condivisibile: presentarsi al Parlamento con un paio di cose da fare (e speriamo che sia finalmente la volta buona per la riforma elettorale) e su quelle chiedere la convergenza delle altre forze politiche. C’è poi la chiarezza del no ad un’alleanza Pd-Pdl che sarebbe un suicidio politico e il più grande favore a Grillo. In definitiva, un governo di minoranza o comunque qualcosa che gli somigli (l’ultima moda è il governo “di scopo”). A tempo: poi, di nuovo al voto. Se non dovessero esserci le condizioni per una soluzione del genere, però, meglio andare subito alle elezioni. Ma a quel punto il Pd dovrebbe avere la forza di cambiare tutto, a partire dalla premiership (non ero fan di Renzi, ma allo stato attuale non vedo altro all’orizzonte), per evitare di essere travolto dallo tsunami.