lunedì 28 settembre 2015

REGGIO: l'Archivio di Stato ha presentato il libro “Minita” di Domenico Forgione



*Dal blog Disoblio Edizioni:

“Una costellazione di storie in cui si avverte la nostra identità calabrese”. È con queste parole di Mirella Marra che venerdì 25 settembre, presso l'Archivio di Stato di Reggio Calabria, si è aperta la presentazione del libro “Minita” di Domenico Forgione (Disoblio Edizioni). È un libro che trasuda il profumo di una ricchissima vita interiore – ha continuato la direttrice dell'Archivio di Stato – che sta qui ma che sta anche altrove, nella Calabria vera di oggi e in quella trasognata di domani. “Minita” desta curiosità fin dalle prime pagine. Il piacere di una lettura del genere sta nella bellezza narrativa e nel fascino dei bozzetti di vita quotidiana, che l'autore racconta in maniera versatile, senza dimenticare nulla: biografia, personaggi, storia e microstoria s'intersecano con la musica, il cinema, i libri e i tanti altri punti di riferimento di una generazione cresciuta prima della rivoluzione digitale segnata dall'avvento di nuove tecnologie, prima fra tutte internet. È un canovaccio per tante altre storie e tante altre creazioni artistiche. Penso al cinema o al teatro ai quali i racconti di “Minita” si prestano molto, dal momento che narrano le vicende nelle quali molti calabresi possono riconoscere se stessi, il proprio passato e i valori, imparati dai nostri antenati, che oggi spesso dimentichiamo. L'Archivio di Stato – ha concluso Mirella Marra – è felice di presentare questo libro perché rappresenta un ulteriore piccolo passo, un ulteriore contributo nel cammino della riscoperta della nostra identità.
Dedico questa presentazione – ha chiarito Domenico Forgione conversando con l'editore Salvatore Bellantone – all'amico Totò Ligato, che ci ha lasciato troppo presto e con il quale abbiamo condiviso diverse battaglie nel racconto e nella difesa della nostra terra. “Minita” nasce dalla blogosfera ma lo diventa veramente una volta diventato un libro. Qui troviamo un percorso di citazioni che ha il senso di proporre al lettore un sentiero per recuperare la propria identità. Tale ritrovamento non può non passare innanzitutto dalla memoria: i ricordi della giovinezza, i personaggi umili e semplici che abitano nei nostri paesini, le briciole di storia legate al nostro territorio sono il punto di partenza per riappropriarsi di quell'identità, di quei valori e di quelle consuetudini in cui riposa il nostro essere calabresi, contro quel volto anonimo che la società del benessere, dei consumi e della massificazione globale ci impone. Poi bisogna sempre tenere a mente la musica ascoltata, i film che abbiamo visto e i libri che abbiamo letto. Lì ci sono gli indicatori di quello che siamo, di quello che pensiamo e di quello per cui lottiamo quotidianamente, e servono nei momenti di maggiore spaesamento. In quello che altri hanno fatto, nelle melodie, nelle immagini e nelle parole degli altri troviamo anche le nostre e queste ultime ci servono per comprendere il nostro tempo. Ma questa comprensione passa per il dovere dell'informazione. Bisogna conoscere quello che accade vicino a noi e anche quello accade nel mondo. Questo ci dà la possibilità di trovare radicamento nel presente e di affrontarlo con le risorse del nostro passato. Infine – ha concluso l'autore di “Minita”, leggendo il racconto “La promessa” – bisogna darsi da fare, ognuno con quello che sa fare e come lo sa fare. Ci sono tanti problemi nella nostra terra ma se nessuno trova innanzitutto dentro di sé gli strumenti per affrontarli assieme agli altri, resteranno sempre insoluti.

 

sabato 26 settembre 2015

Ciao, Totò

Ci si affeziona ai quotidiani, compagni irrinunciabili delle giornate dei lettori attenti a ciò che accade nei microcosmi e nel mondo più grande. Soprattutto, ci si affeziona ai corrispondenti locali, la voce di posti sperduti dei quali spesso, se non ci fossero loro a scriverne, non si saprebbe niente. Le loro firme in calce agli articoli diventano familiari, tanto che si finisce per collegare un paese a un nome e cognome, o alle sue iniziali. Sinopoli, San Procopio, Seminara e Melicuccà sono stati per decenni Antonio Ligato (a.l.): Totòligato – tutto attaccato – per chi lo conosceva e gli voleva bene. Ho saputo che non è più mentre passeggiavo sul lungomare di Reggio Calabria baciato dal sole, quando a tutto si pensa tranne che alla morte.
Lo rivedo con il suo caratteristico cappello e le sue immancabili sigarette, riesco anche a sentirne la voce bassa ma limpida, la frase che pronunciava scendendo dalla sua “Punto”, mentre si avvicinava a me se mi vedeva davanti al bar di mio padre: “ti ho visto e mi sono fermato per fare una chiacchierata”.
Amava la conversazione e la cercava. Il discorso finiva spesso oltre lo Stretto, all’Università di Messina (dove, ai tempi mitici del preside Antonio Mazzarino, aveva collaborato con la facoltà di Magistero e, in anni più recenti, con quella di Scienze dell’Educazione), a dinamiche che entrambi conoscevamo, agli incredibili strafalcioni grammaticali di certi laureandi. Si parlava delle contraddizioni di questi nostri posti, di cultura e di giornalismo, di quanto la professione sia degradata, tanto da doversi ritrovare – alcune mattine – a leggere articoli scritti “con i piedi”.
L’avevo conosciuto 15 anni fa, lui corrispondente per la «Gazzetta del Sud», io per «Il Quotidiano della Calabria». Da allora non abbiamo mai smesso di “frequentarci”, di scandagliare quelle piccole storie che affascinavano entrambi, che io ho finito per raccontare sul blog e nei libri, lui sulle pagine della Gazzetta, in un esercizio appassionante di custodia della memoria dei nostri luoghi.
Aveva voluto recensire i due libri che ho scritto sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia e sulla sua toponomastica. Neanche due mesi fa ero rimasto piacevolmente sorpreso di leggere del mio Il cavallo di Chiuminatto in un suo pezzo sulla vicenda della demolizione del ponte della ferrovia di Sant’Eufemia.
Totò era un giornalista romantico, al quale la dimensione di corrispondente locale andava bene, nonostante avesse una solidità culturale e uno stile di scrittura da giornalista di razza. Mi mancheranno le sue osservazioni mai banali e la sua capacità di analisi, il suo amore per i nostri territori e per le storie delle umili genti, che soltanto nella penna di chi ha una sensibilità particolare trovano riscatto.

*Foto tratta dal profilo Facebok Antonio Ligato

giovedì 17 settembre 2015

Bondì, bondì, bondannu

 Tra i personaggi che emergono dalle pagine dell’ultimo lavoro di Vito Teti, Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale (Rubbettino, 2015), gli “strinari” e i mascherati rimandano a storie che, in forme più o meno analoghe, appartengono anche alla tradizione etnografica di Sant’Eufemia, a racconti ascoltati dalla viva voce dei nostri genitori e dei nostri nonni.
Gli “strinari” erano gruppi di quattro-cinque individui che percorrevano le strade dei paesi durante il periodo natalizio, qualcuno dei quali suonava l’organetto che accompagnava i canti augurali, contenenti la richiesta di cibo e bevande. “Il cibo rituale [osserva Teti] costituisce in molti paesi il veicolo dell’incontro reale e simbolico tra vivi e defunti”. I questuanti non sono altro che “vicari” dei defunti e il cibo loro offerto viene considerato un’offerta fatta ai defunti. Tale identificazione vale per gli “strinari”, ma vale anche per i protagonisti di quelli che Teti definisce “viaggi rituali e vicari dei morti”: ad esempio, i “mascherati” che escono dopo il tramonto durante il periodo di Carnevale.
Nelle zone delle Serre vibonesi la formula augurale, recitata dai bambini che bussavano alle porte delle case era: «Bonu Capudannu, facitimi la strina ca si no mi dannu». Il Vocabolario del dialetto calabrese compilato da Giovanni Battista Marzano (1928) alla voce “strina” conferma: “dono che i genitori sogliono fare ai figliuoli e i padroni ai domestici e dipendenti; mancia, strenna” e riporta alcuni versi dialettali: Curriti tutti, vi dugnu pe strina/ castagni, nuci, ficu, meli e pira (Lu gattu, di I. Donati). Ed erano proprio espressione della frugalità, se non della povertà dei tempi, i doni che i partecipanti consumavano o dividevano alla fine della questua. Il richiamo alla dannazione, nell’ipotesi improbabile di diniego dell’offerta, rivela appunto che questuanti e anime dei defunti, nella percezione popolare, coincidono.
Ma non ovunque era così. A Sant’Eufemia i bambini degli anni Cinquanta del secolo scorso recitavano una formula leggermente diversa, più giocosa e nella quale non vi era riferimento ai morti, anche se probabilmente da quella tradizione traeva origine: «Bondì, bondì, bondannu, boni festi i Capudannu/ se m’ati e se non m’ati, cent’anni mi campati/ ma se non m’ati nenti, mi vi cadinu moli e denti!». Subito dopo veniva fatta esplodere una mistura di zolfo e polvere pirica, nel tempo sostituita con le capocchie dei fiammiferi e, infine, con le munizioni (tubetti) delle pistole giocattolo inserite nell’asta delle grandi chiavi di qualche vecchia porta, alla cui bocca veniva legato un chiodo che fungeva da percussore e che veniva azionato facendo sbattere la chiave contro il muro. Gli inquilini si affacciavano quindi sull’uscio e offrivano il poco che avevano: noci, castagne, fichi secchi, pittapie, sussumelle, torrone.
Più o meno simile era l’esito delle questue effettuate durante le festività dei “morti” («m’i dati i morti?») o a Carnevale, quando i “mascherati” – che, a differenza di oggi, non indossavano ovviamente costumi costosi – si presentavano vestiti in maniera buffa: una giacca infilata al rovescio, una gobba finta realizzata con un cuscino e sistemata dietro le spalle, un cappello calato sul viso o un bastone a simulare un’accentuata zoppia. In questa occasione vi era l’esplicita richiesta di avere una polpetta, che in molti riuscivano ad assaggiare solo a Carnevale, della quale si mimava il gesto di preparazione facendo sfregare una mano sull’altra, senza proferire parola per non farsi “riconoscere”. Le polpette arrivavano infilate sulla forchetta, che a turno passava di bocca in bocca, in tempi non certo caratterizzati da eccessive fisime di natura igienica.

sabato 12 settembre 2015

La panchina

Quando non so che fare mi siedo su una panchina della piazza e osservo il bocciolo di rosa rossa che di solito infilo nell’asola della mia giacca decisamente fuori moda. Mi sta un po’ stretta, ma non fa niente.
Sono molte le cose che mi stanno strette. Questo paese. Strettissimo. E non soltanto perché tutti mi credono pazzo. Sono pazzo, ovvio. Lo sono quanto le persone normali che mi scrutano, si danno di gomito e sghignazzano mentre a falcate distese faccio avanti e indietro sul marciapiede imprecando contro i mali del mondo, fino a quando i troppi passi sconclusionati non bucano le suole delle scarpe. Mastro Nino ci mette poco a sostituirle, non è caro e, in fondo, mi vuole bene. Come tutti qui, nonostante gli sfottò.
Li capisco. Loro non vedono quello che vedo io, per questo ridono quando tento di salvarli. Per questo ripetono canzonando le mie parole: «Schiaccia la testa del serpente! Maledetto!». Un giorno o l’altro, nello sforzo di tendere le mani il più in avanti possibile, finirò per perdere l’equilibrio e mi ritroverò faccia a terra. Poi sì che avranno un buon motivo per sganasciarsi e non pensare alla loro follia.
Perché siamo tutti pazzi, è davvero da pazzi non crederlo. Per un’idea, un sentimento, qualcuno o qualcosa. Pazzi d’amore, d’odio, di solitudine, di angoscia, di morte. Basta che un pensiero s’incastoni nella nostra mente e non ne usciamo più. Per quello viviamo e per quello, spesso, moriamo. Non esiste alcuna differenza, credetemi, tra la mia vita e la normalità della vostra faticosa quotidianità. Ci rende comodo mettere di qua i matti e di là i sani. E fanculo a chi ognuno di noi davvero è, al fuoco che brucia sotto due occhi stanchi fissi nel vuoto.
Ci soffro in questo ambiente. Mi sento in gabbia, come nella clausura della mia adolescenza da aspirante prete nel seminario, unico momento d’aria la partita di calcio settimanale nel cortile disadorno. Senza neanche le porte, segnate a terra da due mattoni.
Riuscivo a trovare un po’ di serenità nella biblioteca, anche quando leggevo Ugo Foscolo, che odio. Aveva ragione Carlo, alla cui interrogazione sui Sepolcri la classe esplose, tra lo stupore sconfortato del professore immobile con le mani tra i radi capelli: «Dopo la morte, restano le ossa». Per qualche tempo. Dopo, nemmeno quelle. Altro che eternità e romanticherie varie.
Mi ci aveva spedito il parroco, più che altro per accorciare di un giro il turno che io e i miei fratelli ogni giorno rispettavamo per accaparrarci i pezzettini di crosta che si staccavano dal pane mentre nostra madre lo divideva in parti uguali.
Se proprio dovevo indossare una tunica, mi sarebbe piaciuto diventare vescovo. La gente mi avrebbe baciato l’anello, genuflettendosi davanti al figlio del pecoraro diventato Pastore. Scoprii però i metodi insoliti che venivano utilizzati per togliere il demonio dal corpo delle persone e, allora, cambiai idea. Approfittai del buio senza luna, saltai dalla finestra e tornai qui.
Ritrovai Melo con il suo trotterellare leggero, il pallone incollato al piede e i calzettoni abbassati come Omar Sivori. Gianni e i suoi pantaloni impregnati di piscio, la barba ispida e muta da vecchio Giobbe senza alcuna scommessa da vincere. Spalle a terra, in vestaglia e ciabatte a fissare stelle lontane, inseguite dalle boccate delle sue nazionali senza filtro. Una casa di pazzi, sentenziò la voce del popolo. Per la credenza scaraventata dal primo piano giù, in mezzo alla strada. Per la nostra vecchia madre fatta rotolare dalle scale, una notte che sarebbe stata la sua ultima.
Entro ed esco da strutture inutili, dove mi vengono somministrati farmaci inutili. So che tra qualche anno ci resterò per sempre. Troverò un divanetto sul quale accomodarmi con il mio fiore all’occhiello e la mia storia passata in fretta, defilata e confusa. Umana.
Sussurrerò come in preghiera versi di poesie e aspetterò. Sulla lapide non avrò foto. Qualcuno ricorderà le mie labbra protese nell’atto di inspirare la sigaretta, altri i fogli di bloc-notes fitti di riflessioni disseminati sui tavolini del bar, altri ancora lo scoppio improvviso e allegro della mia risata.
Solo noi sappiamo essere felici. Solo noi sappiamo attraversare il tempo, anonimi, senza crederci migliori di quello che siamo.

venerdì 4 settembre 2015

Aylan e noi

Mio nipote ha quasi tre anni. L’età di Aylan accarezzato dall’onda sulla battigia. La stessa t-shirt, gli stessi pantaloni “a pinocchietto”, le stesse scarpette da tennis. Spesso si addormenta sul divano a faccia in giù, proprio come Aylan nella fotografia che ha fatto il giro del mondo, con le braccia lungo i fianchi e i palmi delle mani rivolti verso l’alto.
A differenza di mio nipote e di tanti altri suoi coetanei, Aylan non sta però dormendo. Quanti ce ne sono come lui nel mondo? Bambini che dovrebbero avere l’età del gioco, non quella della fuga disperata dalla guerra. Di quanti Aylan non sappiamo niente, fino a quando il dolore non ci viene sbattuto in faccia, con una violenza che ci lascia senza fiato, sgomenti? Infine, era necessario diffondere quella immagine?
Giro attorno a questo interrogativo dal momento in cui la fotografia ha avuto diffusione nel web ed è finita sui giornali, nella versione più cruda o in quella pietosa che ritrae il corpo senza vita di Aylan in braccio a un poliziotto turco. Come in una moderna Deposizione, ha fatto notare Adriano Sofri.
Non ho la risposta. Ascolto. Leggo riflessioni legittime. Tutte: quelle a favore della pubblicazione della tragedia angosciante di un bimbo che affonda il viso nell’acqua, così come quelle contrarie. E non so cos’è giusto. Non so dove tracciare il confine tra diritto di cronaca e spettacolarizzazione del dolore.
È pur vero che oggi esiste soltanto ciò che si vede, per cui i fotogrammi della morte e dell’orrore possono rivelarsi utili per scuotere coscienze intorpidite, che non riescono a percepire la dimensione biblica del dramma delle guerre e dell’esodo di migliaia e migliaia di essere umani. Essere umani – purtroppo occorre sottolineare anche questo, in tempi di strumentale e becero razzismo – che in assenza di immagini vengono percepiti come i numeri di una fredda contabilità, non come fratelli disperati da soccorrere.
La famiglia di Aylan scappava da Kobane, città curdo-siriana simbolo della resistenza contro la violenza distruttrice delle milizie dell’Isis. Marito, moglie e due figli che speravano di raggiungere la Grecia e da lì prendere il volo per il Canada, dove la sorella parrucchiera del padre di Aylan era riuscita a farsi rilasciare i visti per i quattro congiunti. A Kobane, ha assicurato il padre di Aylan, saranno seppelliti la moglie Rehan e i due figli, Aylan e Galip, cinque anni, morti con altre otto persone in seguito al ribaltamento dell’imbarcazione che avrebbe dovuto trasportare i profughi dalla Turchia all’isola greca di Kos.
La fotoreporter Nilufer Demir ha rivelato al “Corriere della Sera” la ragione di quegli scatti: «Ho subito capito che era morto. Non c’era nient’altro da fare. Era l’unico modo per far sentire l’urlo di quel corpo». Aylan come Kim Phúc, la bimba che con la sua corsa verso il teleobiettivo, nuda e bruciata dal napalm, assurge a denuncia degli orrori della guerra del Vietnam. O come Tsvi Nussbaum, il bimbo polacco con berretto, cappotto e pantaloni corti, a braccia alzate durante il rastrellamento del ghetto di Varsavia, emblema della tragedia dell’Olocausto.
Non so schierarmi. Perché è vero che siamo talmente assuefatti che l’immagine rischia di essere fine a se stessa, di alimentare il circo mediatico del dolore e di calpestare dignità e pietà, deontologia e buon senso, nella squallida gara per la conquista di qualche “like” in più. Ma forse è anche vero che soltanto la visione dell’orrore riesce a destarci dal torpore e può fare comprendere alla comunità internazionale la gravità delle emergenze umanitarie di alcuni Paesi flagellati da guerre e fame, convincere Stati nazionali e sovranazionali della necessità di un cambio di registro in tema di politiche di accoglienza e gestione di flussi migratori divenuti ormai inarrestabili.