lunedì 23 novembre 2015

Il maggiore Luigi Cutrì

Il 30 novembre ricorre il centenario della morte del maggiore Luigi Cutrì, medaglia d’argento al valor militare nella Prima Guerra Mondiale, al quale Sant’Eufemia dedica una delle sue vie più importanti nel rione Pezzagrande, sorto ex-novo in seguito al terremoto del 1908. Per la sua ampiezza, via maggiore Cutrì è anche nota come “la quindici metri” e tutt’ora ospita le bancarelle del tradizionale mercato domenicale. 
Un’occasione per fare memoria riproponendo, con qualche modifica non sostanziale, la biografia di questo figlio della nostra terra che avevo già ricostruito nel libro Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (Nuove Edizioni Barbaro, 2013, pp. 48-50).
 
Luigi Cutrì, di Bruno e Maria Giuseppa Versace, nacque a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 9 agosto 1869. Ad appena 17 anni si arruolò volontario nell’esercito e da sottotenente, nel 1889, prese parte alla campagna di Etiopia, guadagnando una medaglia di bronzo e l’encomio solenne del capitano Umberto Ademollo:
Egli – ricordò Bruno Gioffrè nella commemorazione ufficiale – era già sottotenente, allor quando un funesto delirio di imperialismo trascinava le nostre schiere, i soldati della rivoluzione più civile e più santa, alla conquista dell’agguerrita Etiopia, alla sconfitta d’Adua. Ma non onta gli venne della sconfitta collettiva: egli, al seguito della brigata Da Bormida, che vi segnò col sangue pagine eroiche, in una memoranda carica di baionetta, che parve, per brev’ora, foriera di vittoria, egli emerse combattendo da leone, come di lui scrisse allora il capitano Ademollo, e una medaglia al valore, e la rapida promozione a tenente sancirono ed onorarono l’alta condotta del prode.

Nel 1911 partecipò con il grado di capitano alla guerra italo-turca (o di Libia) che consegnò all’Italia la “quarta sponda” e ne determinò l’ingresso vero e proprio tra le potenze coloniali del tempo. Tra novembre e dicembre, si distinse negli scontri che, a Derna, videro impegnati i soldati italiani agli ordini del generale Vittorio Trombi contro le truppe capeggiate da Enver Bey, che sarebbe stato tra i responsabili del genocidio armeno durante la prima guerra mondiale. L’impresa valse a Cutrì il conferimento della croce dell’Ordine militare dei Savoia:
E quando – prosegue Gioffrè – squillò di nuovo la diana di guerra, quando fra i minareti e fra le palme di Libia ruggì sui venti del deserto, come carne d’Omero, la rapsodia novissima dei garibaldini del mare, egli fu a Derna, modello e sprone a tutti, costruttore ingegnoso e paladino invincibile della gloriosa ridotta che fu, in suo onore, battezzata col nome di Calabria. Tutti leggemmo le difesa magnifica ch’egli fece, nell’aspra notte in cui l’orde fanatiche del più gran generale del nemico, Enver Bey, l’assalirono con forze enormi e accanimento feroce. Tutti apprendemmo che la compagnia del capitano Cutrì era la vera compagnia della morte: prima per ardimento, per disciplina, per fede. Egli tornò dall’Africa fiero e felice più del successo nazionale, che della croce dell’Ordine Militare di Savoia che gli fregiava il petto, segno supremo d’onore concesso a pochi sommi, e del quale ebbe a Genova, non è ancora un anno, la compiacenza e la ammirazione del Re. Di lui scriveva ne’ suoi rapporti ufficiali la radiosa figura del Generale Trombi, testé passata dal turbine di guerra agli ideali splendori della gloria: «mai medaglia al valore brillò più degnamente al petto di un soldato». E il capitano La Paglia, ufficiale al seguito dell’eminente Generale Lequio, ci diceva commosso: «il vostro concittadino, Capitano Cutrì, onora davvero l’esercito».

Nel testo del decreto reale che accompagnò la consegna della medaglia si legge:
Per l’ammirevole prova di coraggio ed ardimento, data nella notte dall’11 al 12 febbraio 1912, impartendo sotto il fuoco nemico eccellenti disposizioni, dirigendo ottimamente il fuoco ed incitando con l’eroico suo esempio i dipendenti alla resistenza, con la quale riuscì a respingere brillantemente un violento attacco nemico.

Allo scoppio della Grande Guerra, Cutrì partì volontario e fu destinato al fronte sul Carso. Ferito il 4 luglio nell’assalto portato dalle truppe italiane al monte Podgora (Piedimonte di Calvario, frazione di Gorizia), fu nominato maggiore del 12° reggimento fucilieri per merito di guerra e assunse il comando del battaglione. Morì il 30 novembre 1915, nel corso dell’ennesimo scontro sul monte Podgora, durante la Quarta battaglia dell’Isonzo. Il rapporto ufficiale, redatto l’11 dicembre successivo, metteva in evidenza l’eroismo del militare eufemiese:
Dacché assunse il Comando del Battaglione, s’impose subito ai dipendenti, ufficiali e truppa, per le sue eccellenti virtù militari e per le squisite qualità di cuore. Egli volle con diligenza coscienziosa ispezionare le posizioni, riconoscere tutto il settore d’operazione, rendersi conto di tutto prima d’impegnare le sue truppe. Amava percorrere di giorno e di notte le posizioni, sollecitando i lavori di rafforzamento e le opere di approccio alle trincee nemiche, dando suggerimenti, incoraggiando. Ed i soldati restavano incoraggiati per il solo fatto che lo vedevano e lo sentivano in mezzo a loro, come loro esposto a tutti i rischi, e più di chiunque impavido. Tutti ammiravano il suo coraggio, soprattutto perché il disprezzo del pericolo in lui derivava non da un senso di passiva rassegnazione alla fatalità, bensì da una fonte più pura e più degna: il sentimento del dovere.

E ancora al suo eroico senso del dovere l’arcidiacono Antonino Tripodi, che ne era stato compagno di scuola, improntò il suo “discorso in memoria”:
Luigi Cutrì ferito, dolorante all’ospedale non mostrava altro desiderio che di guarire presto per tornare al fronte coi suoi fratelli. E tornò, non completamente guarito, e combatté da valoroso e guidò le sue truppe più volte con slancio magnifico alla vittoria.

Decorato di medaglia d’argento al valor militare e definito dallo stesso Tripodi “un poeta della milizia”, a Luigi Cutrì i fascisti di Sant’Eufemia d’Aspromonte intitolarono il fascio di combattimento costituito nel 1922.

*Fonti:
- Ministero della Guerra, Militari caduti nella guerra nazionale 1915-1918. Albo d’oro, volume IV – Calabria, Provveditorato generale dello Stato – Libreria, Roma 1928, anno VI (ristampato da Iiriti editore, Reggio Calabria 2008), ad nomen.
- Bruno Gioffrè, Per un prode. In onore di Luigi Cutrì, maggiore del 12° reggimento fanteria, caduto sul campo il 30 novembre 1915, Ditta D’Amico, Messina 1916.
- Enzo Misefari – Antonio Marzotti, L’avvento del fascismo in Calabria, pellegrini editore, Cosenza 1980, p. 121.
- Antonino Tripodi, Discorso in memoria di Luigi Cutrì, in Calabria avanti (a cura di Pasquale Enzo Tripodi), Edizioni Dimensione 80, Roma 1981, pp. 93-105. Ivi, pp. 101-102.
- Francesco Marafioti, Il maggiore Luigi Cutrì, in “Incontri” – periodico edito dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, numero unico in attesa di registrazione, dicembre 1988, p. 4.
**La fotografia del maggiore Luigi Cutrì è tratta da: Caterina Iero, Sancta Euphemia. Cenni storici, vita civile e costumi a Sant’Eufemia d’Aspromonte, Laruffa Editore, Reggio Calabria 1997, p. 157.

martedì 17 novembre 2015

Parigi vista da Londra

Foto @MarioForgione
Gli attentati di Parigi sono stati definiti l’11 settembre europeo. Come allora, è stato ripetuto che niente sarà più come prima. I venti di guerra e la minaccia di ulteriori atti terroristici minano le nostre certezze di occidentali: saremo costretti a cambiare abitudini ed è probabile che sull’altare di una maggiore sicurezza dovremo sacrificare un po’ delle nostre libertà. Mio fratello Mario da quasi due decenni vive a Londra, che ha già subito attentati e che è nel mirino dell’Isis. Ha voluto affidare al mio blog una sua riflessione su ciò che significa vivere in una metropoli a rischio e ci ha confidato come pensa di “combattere” questa guerra: non cambiando niente delle sue abitudini, proprio perché lo scopo dei terroristi è sconvolgere la nostra quotidianità.

Lo ammetto. Negli anni ho fatto del distacco emotivo un’arte. Scopi conoscitivi a parte, raramente seguo o mi preoccupo di cose che non mi toccano personalmente o comunque da molto vicino. Per questo motivo, mi ha creato disagio leggere il fiume di parole e le opinioni riversate sui social media nelle ore successive all’attentato di Parigi.
Il tema del terrorismo mi sta a cuore: perché mi sento cittadino del mondo; perché faccio la spola tra Londra e l’America; perché quando a Londra il 7 luglio 2005 Al-Qaeda fece saltare uno dei treni in metropolitana, quello sul quale stavo leggendo distrattamente il giornale mentre mi recavo al lavoro era passato dal luogo dell’esplosione dieci minuti prima; perché soltanto negli ultimi sei mesi i servizi segreti inglesi hanno sventato sette attentati terroristici nella capitale londinese, la città in cui vivo da diciotto anni.
E’ una questione di tempo. Non “se” succederà, ma “quando”. Un giorno, un po’ come accade con il corpo umano, un’altra cellula impazzita riuscirà a bucare la rete protettiva e porterà altra distruzione, altro terrore, altro sangue. A Londra ho imparato a vivere con questa certezza che crea incertezza: «Forse oggi qualcuno seduto accanto a me nella metro o sul bus si farà saltare in aria, ed io con lui. Poi vallo a raccontare a mia madre!». Questo pensiero, disarmante nella sua fatale ed agghiacciante semplicità, attraversa spesso la mia mente, soprattutto da quando è diventato evidente che i proclami sono inutili e che l’ISIS è imprevedibile.
Che fare, allora? Ci ho pensato e ripensato, mesi di turbamento per arrivare al mio personale convincimento: NIENTE. Non farò niente. Non cambierò niente nella mia vita. E sono sereno, oggi più che mai. Nel mio piccolo combatto così, con l’indifferenza, la mia quotidiana e personale guerra contro l’estremismo.
Mi sveglio ogni mattino e decido di vivere un altro giorno come ho sempre fatto, perché il terrorista vorrebbe impedirmi proprio di fare questo: vorrebbe annichilirmi e destabilizzarmi. Allora, no. Davanti alle loro azioni io faccio spallucce: scelgo di vivere, non di sopravvivere.
Da quando ho sviluppato una mia coscienza individuale conduco la mia vita come se il momento attuale fosse l’ultimo. Non mi curo del passato o di un ipotetico futuro. Ciò che mi importa sta accadendo ora: il presente da assaporare e vivere mentre si svolge. Sono consapevole di quanto sia effimera la vita, di come tutto diventi niente nello spazio temporale di un attimo. Forse un giorno mi troverò al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma non sto qua a preoccuparmene, oggi.
Se malauguratamente dovesse accadere, preferirei però andarmene senza eccessivi clamori, senza proclami da eroe di cui non avrei bisogno, senza tributi su Facebook e senza quella platealità che oggi sembra regnare sovrana, platealità di cui si nutre qualsiasi cellula estremista.
Meglio il silenzio. E con il silenzio scelgo anche di non reagire, perché non vedo come si possa sconfiggere il terrore con l’orrore di una nuova guerra santa. Fare scoppiare una guerra sarebbe una loro vittoria, non la mia. Le azioni dei gruppi terroristici sono sempre mirate a provocare una reazione. Sono loro a volere la guerra, perché la guerra alimenta il radicalismo. Abbiamo potuto verificarlo dopo l’Iraq e dopo la Libia. Se solo guardassimo al passato non commetteremmo gli stessi errori con ciclica regolarità. Una storia nota, un succedersi di reazioni sbagliate ed eternamente uguali a se stesse. Non impareremo mai.
Mario Forgione

venerdì 13 novembre 2015

Padre e figlio

Sarebbe naturale dire che ho il più bel padre del mondo. Il migliore dei papà possibili. Il più forte, il più buono, il più simpatico. Sarebbe ovvio perché è sempre così per tutti i figli del pianeta, nella stragrande maggioranza dei casi. I figli so’ piezz’ ’e core, ma altrettanto lo sono i genitori. L’amore smussa gli angoli, rende comprensivi e facili al perdono, spinge alla giustificazione di difetti più o meno grandi. Le cose stanno così per lungo tempo. I fanciulli osservano la vita dal bosco incognito e popolato da esseri dai quali occorre essere protetti. Nella realtà quasi fiabesca dell’infanzia tocca ai papà sconfiggere gli orchi. Il loro abbraccio scaccia via la paura: “lo dico a mio papà”, la frase magica alla quale ricorrere per avere la certezza di nessun capello torto.
Non sono più un bambino, da troppi anni ormai. Guardo il mondo da un punto di vista che, pur poggiando su basi solide, muta giorno dopo giorno, spinto dall’interesse per il gioco delle prospettive e dalla deliberata volontà di scindere i sentimenti dai fatti e dalle persone. Uno sforzo di obiettività che richiede rigore, altrimenti non se ne esce. Altrimenti tutto diventa complicato e ogni azione, ogni considerazione rischiano di apparire poco credibili.
Mio padre, che oggi compie settant’anni, potrebbe pertanto anche non essere il migliore dei padri possibili. O meglio, potrebbe non esserlo più. Ora che io non sono più un ragazzino, intendo dire. Ora che la riflessione oggettiva può avere gioco sull’affetto filiale. Ora che questo signore dai capelli bianchi ha smarrito lungo il suo cammino di uomo le qualità riconosciute istintivamente da ogni bimbo al proprio genitore: l’infallibilità di un pontefice e l’invincibilità dei supereroi Marvel. Ora che le distanze si sono accorciate e il rapporto è tra due uomini che un tempo sono stati padre e figlio. Ora che con tenerezza scopro in lui le insorgenti fragilità procurate dall’inesorabile incedere degli anni. Ora che so che fuori dalle pareti tiepide del nido si vince e si perde, e non ci sono padri che tengano. Ora che scorgo incastrate tra le sue rughe vittorie e sconfitte.
Ma se anche non fosse il migliore dei padri possibili, ecco: non avrebbe importanza. Non ha più importanza. Importa che è mio padre, che è stato mio papà, che ha condotto la sua vita e quella della nostra famiglia fino a qua. Fino a me davanti a questo monitor e alle mie dita che picchiettano inquiete sulla tastiera.
Importano le sue parole, che raccolgo e che ogni tanto spargo sui racconti come semi sulla terra arata. Con un gesto ampio del braccio, plateale. Il racconto diventa strumento di resistenza alla morte, perché in ogni storia c’è il miracolo della vita, della fatica della vita. Cicatrici e circo. La vita vissuta in prima persona, quella sentita sulla propria pelle anche se era sorte altrui, quella inseguita, quella abbandonata e quella trovata da qualche parte. Lontano. Una storia che mi precede, ma che pulsa viva nelle mie vene, che porto stampata sulla carta d’identità, nome di terra sperduta per gente in cerca di una possibilità. Una storia che sa del freddo delle baracche, di fame e di orgoglio. Di coraggio. Di partenze e di ritorni.
Fotogrammi veloci sui quali sfilano il sorriso dei santi e lo sguardo dei banditi, a conficcare come spilli la carne viva. Ogni ricordo un affondo.

venerdì 6 novembre 2015

Sant'Eufemia d'Aspromonte e la Grande Guerra


Il tributo di sangue versato dal popolo eufemiese per la causa nazionale nella Prima guerra mondiale porta il nome di ottantotto giovani chiamati a combattere in terre lontane e sconosciute, accanto a soldati dei quali risultava complicato comprendere i discorsi, in un’epoca in cui ogni italiano parlava il dialetto della propria terra d’origine e, nella trincea, il calabrese riusciva a farsi capire dal veneto o dal sardo soltanto a gesti.
Degli ottantotto morti sul fronte o in qualche ospedale militare, quattro ebbero l’onore dell’intitolazione di una strada nel nuovissimo quartiere Pezzagrande, sorto negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, in conseguenza dell’edificazione post terremoto 1908.
La medaglia di bronzo al valor militare Salvatore Crea fu sergente presso il 161° reggimento fanteria “Ivrea”. Impegnato sull’altipiano di Asiago fino all’estate del 1916, da ottobre fu trasferito in Macedonia, dove trovò la morte a neanche 28 anni, il 12 aprile 1917, nel corso degli scontri per conquistare “quota 1.050” nel settore del Colle di Vrata-Meglenci.
Lo studente ventitreenne Antonino Rechichi prese parte alla Grande Guerra come sottotenente nel 227° reggimento fanteria “Rovigo” e morì sul Carso il 2 novembre 1916, durante la IX battaglia dell’Isonzo, in uno dei tanti assalti per la conquista di monte San Marco.
L’avvocato Emilio Tropeano, tenente nel III reggimento Genio, chiuse gli occhi in un lettino dell’ospedale militare di Messina l’11 ottobre 1917, all’età di ventinove anni.
Informazioni più dettagliate riguardano invece la biografia della medaglia d’argento al valor militare Luigi Cutrì, in virtù della pubblicazione del discorso commemorativo tenuto dal medico, poeta e scrittore Bruno Gioffré nella sala del consiglio comunale il 3 gennaio 1916 (Per un prode. In onore di Luigi Cutrì, maggiore del 12° reggimento fanteria, caduto sul campo il 30 novembre 1915) e a quella dell’orazione dell’arcidiacono Antonino Tripodi, il quale nel suo Discorso in memoria di Luigi Cutrì definì “poeta della milizia” il compagno di banco al quale i fascisti eufemiesi, nel 1922, dedicarono il fascio di combattimento appena costituito.
La carriera di Luigi Cutrì al servizio dell’esercito italiano era iniziata a diciassette anni, età in cui si arruolò volontario. A venti, nel 1889, partecipò da sottotenente alla guerra d’Eritrea e guadagnò una medaglia di bronzo, la promozione al grado di tenente e l’encomio solenne del capitano Umberto Ademollo. Nel 1911, con i gradi di capitano, fu tra i protagonisti della vittoria italiana nella guerra italo-turca (o di Libia), al termine della quale poté fregiarsi il petto della prestigiosa croce dell’Ordine militare dei Savoia. Allo scoppio della Grande Guerra, chiese di partire volontario. Ferito una prima volta il 4 luglio 1915 nell’assalto per la conquista del monte Podgora (Piedimonte del Calvario, frazione di Gorizia), fu nominato maggiore del XII reggimento fucilieri per merito di guerra e assunse il comando del battaglione. Proprio mentre attorno al monte Podgora infuriavano i combattimenti della IV battaglia dell’Isonzo, Luigi Cutrì moriva sul campo, il 30 novembre 1915.
Via maggiore Cutrì si trova nel cuore di Sant’Eufemia ed è la strada più ampia del centro urbano, una caratteristica evidenziata dall’espressione «’a quindici metri», che la definisce nel gergo popolare.

*La cartolina commemorativa dei caduti eufemiesi nella Grande Guerra è di Caterina Iero, che ringrazio per la gentile concessione.