lunedì 31 luglio 2017

La colonia dell'Agape 2017


L’immagine della colonia dell’Agape 2017 è del primo giorno di mare. Facciamo il consueto giro per riempire il pulmino e arrivati a casa di M. la troviamo già in strada: appena ci vede arrivare comincia a venirci incontro correndo ebbra di gioia, con il suo sorriso sdentato e bellissimo. In quel sorriso c’è l’attesa di un anno. La sua felicità si scioglie nell’abbraccio alla nostra presidente, che viene quasi stritolata e sollevata letteralmente da terra.
La colonia dell’Agape è un concentrato di immagini, di parole, di emozioni. Le canzoni urlate nella mezzoretta che ci separa dalla spiaggia, quando anche il pulmino sembra fare la hola al ritmo dei tormentoni dell’estate. I balli improvvisati sotto la capanna dell’Agess di Bagnara, che con molta generosità e spirito di collaborazione ci consente di utilizzare le attrezzature del proprio campo estivo. I giochi inventati sul momento e suggeriti proprio dai nostri ragazzi, con un “regolamento” che può subire variazioni in corso d’opera! La “lettera” d’amore per un volontario scritta con caratteri che solo l’amore riesce a decifrare.
E se un giorno piove, pazienza. Si trova sempre il modo per stare insieme, che è – ce l’hanno insegnato proprio loro – la cosa più importante. Anche al chiuso di una casa si può cantare “siamo i patuffi”, mentre G. con la playstation corre e segna come tutti gli altri bambini, si lancia in tackle oppure si tuffa per parare il rigore di un incredulo Higuain, che si mette le mani tra i capelli.
La colonia è la ragazza che ogni estate torna in paese e parte delle sue vacanze le vive da volontaria, proprio come faceva quand’era una studentessa liceale. Un modo per continuare a sentirsi parte di una comunità, certo, che però non si può spiegare senza considerare quanto ha dovuto incidere l’esperienza vissuta in quegli anni. Ma è anche il volontario che mette sempre a disposizione la sua macchina per fronteggiare eventuali imprevisti e al quale, ogni tanto, capita di dover fare più volte avanti e indietro dal paese.
Qual è il senso di queste righe, di questa sorta di resoconto annuale? Il volontariato vive spesso nell’anonimato, lontano dai riflettori. Fare molto e parlare poco è un principio valido, che conferisce maggiore dignità all’operato di chi si impegna in favore degli altri senza aspettarsi niente in cambio.
Oltretutto si sa che su questi temi è facile trovare applausi, likes e ogni altro tipo di complimenti: quindi non è questo il punto, non è questa la ragione della “pubblicità” per la colonia. Il motivo è ben più profondo e nasce dalla considerazione che non bisogna mai dare niente per scontato. Le cose non durano per sempre, se purtroppo – per motivi ahinoi plausibili – sono sempre di meno coloro che si impegnano per farle durare. Questo per dire – banalmente – che le associazioni di volontariato, per svolgere le proprie attività, hanno bisogno di volontari, di gente disposta a rinunciare a qualcosa di sé per dedicare agli altri un’ora, un giorno o una settimana del proprio tempo.
Il tempo dedicato al prossimo non è mai tempo sprecato.

martedì 25 luglio 2017

La chioccia dell’abate Conia



Chi non ha mai utilizzato, né ha sentito pronunciare l’espressione “n’atru ndaviva u stessu, e u mpittau a hhiocca”? Un modo di dire canzonatorio utilizzato per farsi beffe di colui che, fino al singolare incidente procurato da una gallina, condivideva soltanto con un altro esemplare del genere umano il possesso di virtù evidentemente eccelse.
È molto complicato riuscire ad attribuire una paternità certa a motti scherzosi che hanno origine nella tradizione orale e popolare. Questa locuzione molto diffusa nel reggino non sfugge alla regola.
Di recente mi sono imbattuto nella lettura della raccolta delle poesie dell’abate Giovanni Conia (Galatro, 1752 – Oppido Mamertina, 1839), stampata nel 1834 a Napoli “presso Faustino e fratelli De Bonis Tipografi Arcivescovili” e dedicata “a sua Eccellenza il Signor D. Nicola Santangelo, Segretario di Stato e Ministro degli Affari Interni nel Regno delle Due Sicilie”: Saggio dell’energia, semplicità ed espressione della lingua calabra nelle poesie di Giovanni Conia, canonico protonotario della Cattedrale di Oppido, con l’aggiunta di alcune poesie italiane dello stesso.
Non ho le competenze necessarie per esprimere un giudizio critico su un’opera che nel tempo ha ricevuto pareri autorevoli ma a volte discordanti, per i quali rimando al documentato volume di Raffaele Sergio, autore anche del busto in bronzo dedicato all’illustre concittadino dall’amministrazione comunale di Galatro nel 1974: L’Abate Giovanni Conia. Poeta dialettale calabrese. Testimonianze e poesie (Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria 1980).
Tuttavia, è certo che l’abate Conia fu personalità eminente e poliedrica. Rettore e professore di teologia dommatica del Seminario vescovile di Oppido Mamertina, godeva di fama di grande teologo, oratore e umanista (fece anche parte dell’Accademia Florimontana di Monteleone, ramo calabrese dell’Arcadia Romana): ascoltare un suo panegirico o una sua predica diventava un’esperienza indimenticabile per le emozioni che la sua parola riusciva a suscitare tra il pubblico.
La maggior parte delle sue poesie è di carattere religioso o encomiastico, ma a queste vanno aggiunti i componimenti di argomento più leggero, nei quali la vena satirica dell’autore trova piena esaltazione. Ad ogni modo, l’intera raccolta marca un punto importante nella storia della letteratura calabrese, perché il dialetto – più naturale, più semplice e più espressivo – assurge finalmente al rango di lingua letteraria e come tale viene infatti difesa dall’autore in una celebre “tenzone” con l’idioma italiano.
Il sonetto che contiene la nota locuzione dialettale è “Facezia ad un amico alquanto mordace nelle burle, di bassa statura”:

Fora chiacchieri mo: tardu mparai 
D. Ciccantoni cu è: vogghiu laudari 
li schiribizzi soi: quantu lu mari 
su li soi laudi: no li arrivi mai. 
Picciulu vasu, ma nc’è pipi assai. 
È curciu, ma lu diantani passari 
pe malizia lu poti: pe sprovari 
cu avi pacenzia Ddeu mandau ssu guai, 
D. Ciccantoni sì la cruci mia; 
non muti mai; sì duru comu rocca: 
bonu ca non si tratt’a guapparia. 
L’autri vertù li teni a grappu, e schiocca. 
Ti vasta ca omu grandi comu tia 
n’autru nci nd’era, e lu mpittau na hhiocca. 

Non è possibile stabilire se il verso conclusivo fosse già diffuso nella tradizione orale e sia stato quindi sostanzialmente ripreso, non concepito, dal religioso di Galatro. Si può però affermare con certezza che all’abate Conia va riconosciuto il merito di avere dato dignità letteraria ad una locuzione dialettale che tutt’oggi vive nella cultura e nel costume popolare. Anche per questo la bilancia sembra pendere più dal lato dei difensori della grandezza di Conia, la cui autorevolezza ha altri significativi riflessi nella società. Tra i giocatori di “scopa”, ad esempio, è molto diffusa l’espressione “u dissi puru l’abati Conia/ ca cu sett’oru non si cugghiunija”, che sottolinea certo l’importanza del settebello nel gioco delle carte ma, più in generale, consiglia a tutti noi di non scherzare con le cose serie della vita.

*GLOSSARIO ESSENZIALE
Curcio: nano, di piccola statura
Diantani: diavolo
Schiocca: ciocca
Vasta: basta
Mpittau: schiacciò
Hhiocca: chioccia

sabato 15 luglio 2017

Stelle



Il cielo nero era un incanto. Non il nero sbiadito dal bagliore freddo della luce dei lampioni. No. Il buio era buio vero. Come la notte, appunto. Davanti a uno spettacolo del genere ci sentivamo tutti poeti, anche se leggere era un faticoso incespicare sulle sillabe e non sapevamo ancora che siamo tutti nel fango/ ma alcuni di noi guardano alle stelle.
Pazienza, poi, se la poesia andava a farsi benedire, con quel gioco infantile di contare le stelle per farsi venire i porri. Una sfida che non vincemmo mai. Troppi puntini da inseguire con lo sguardo: si finiva sempre per fare confusione, contare più volte o nessuna. L’antica profezia non aveva speranza di realizzarsi, né pertanto potemmo verificare le virtù taumaturgiche del filo di giunco: sarebbe bastato fare tanti nodi quanti erano i porri e, dopo averlo annodato, farlo lasciare in un posto dal quale non saremmo mai passati. Oppure legare il filo alla base del porro, che con un po’ di pazienza sarebbe prima o poi caduto. Un rimedio considerato dai nostri nonni infallibile, potenza del giunco!
Fu in una di quelle notti silenziose e scure che pensai: «da grande farò l’astronomo». Sarei riuscito a rispondere alle domande complicate che il mistero della scenografia notturna suggeriva. Ma poi le cose andarono diversamente e le risposte non sarebbero mai arrivate.
Anche per questo non conosco il mio destino. Mi faccio delle domande, come chiunque. Anzi, è quel chiarore sterminato a farle le domande, a chiedermi che farò della mia vita. Quale sarà il punto d’arrivo di questa corsa affannata, che scioglie la paura della morte nella visione di una meta?
Quando mi sento particolarmente ispirato invento con i puntini i disegni che voglio, unendoli con l’indice sopra la mia testa. Puoi disegnarci quello che vuoi con quei chicchi luccicanti, anche un destino a portata d’umore. Oppure traiettorie indecifrabili. Come tutti noi, del resto: un giorno santi, il giorno dopo assassini.
Sulla lavagna nera scorrono i volti perduti nel tempo. Se si tende l’orecchio, si percepisce persino il brusio di voci lontane. La notte è di chi non c’è e anche noi che la contempliamo sdraiati sul prato – le carezze dell’erba sulla schiena – viaggiamo altrove, in groppa ai traccianti di fuoco che la feriscono e trovano infine la pace nella tasca dell’orizzonte: siamo e non siamo.

lunedì 3 luglio 2017

L’eccidio di Fantina

Un episodio poco noto del Risorgimento italiano riguarda la tragica sorte toccata ai sette garibaldini giustiziati dall’esercito italiano il 4 settembre 1862 a Fantina, piccolo centro del messinese all’epoca frazione del comune di Novara di Sicilia e oggi comune autonomo di Fondachelli Fantina.
Una pagina dolorosa, a lungo tenuta nascosta perché imbarazzante per i cantori della vulgata edulcorata e romantica delle vicende che portarono all’unificazione. D’altronde, l’inchiesta avviata dal governo sotto la spinta delle proteste dei giornali repubblicani e garibaldini si era presto conclusa con un nulla di fatto: era stato sufficiente mettere il bavaglio alla stampa e sostituire il magistrato di Messina, deciso a vederci chiaro, con un collega più sensibile alla logica della ragion di stato. Agli inizi del Novecento il sempre combattivo Napoleone Colajanni aveva nuovamente sollevato la questione del crimine commesso da militari “regolari” nei confronti di propri connazionali. Ma Colajanni era una voce nel deserto: i fatti di Fantina andavano cancellati dalla memoria storica nazionale.
A squarciare il velo dell’oblio, centoventi anni dopo, ha provveduto Antonio Ghirelli con L’eccidio di Fantina (Sellerio, 1986), un prezioso volumetto che ha ristabilito la verità storica e restituito la dignità alle vittime in camicia rossa.
Il contesto in cui matura il misfatto è quello della seconda sfortunata spedizione garibaldina, che al grido di «O Roma, o morte!» si prefiggeva di consegnare all’Italia la sua capitale naturale, liberandola dal giogo papale. Non tutti i volontari erano riusciti a raggiungere la Calabria: tra questi vi erano i volontari della “colonna Trasselli”, circa 800-900 uomini che, dopo il ferimento di Garibaldi in Aspromonte (29 agosto 1862), cominciarono a vagare nelle campagne tra Catania e Messina, quindi cercarono di raggiungere Novara di Sicilia per consegnare le armi al sindaco ed evitare così l’umiliazione di una resa alle truppe sabaude. Circa cinquantina volontari persero contatto dal resto del gruppo e, distrutti dalla fatica, cercarono un posto dove trascorrere la notte. Alcuni si addormentarono sui letti asciugati dei torrenti, altri furono ospitati in qualche casa di contadini, altri ancora si rifugiarono nella chiesetta di Fantina. Qui furono sorpresi nel sonno dai soldati del 47° battaglione di fanteria dell’esercito, guidato dal maggiore De Villata e composto in prevalenza da soldati che erano già stati in forza nell’esercito borbonico, prima di venire inquadrati in quello sabaudo. Una sorta di rivincita, quindi, compendiata dalla frase rivolta ai volontari: «Al Sessanta tu ed al Sessantadue noi!».
Subito dopo, un ufficiale comunicò l’ordine giunto dal comando: «Se in mezzo a voi si celano dei disertori, si facciano innanzi. Il Re li perdona e li lascerà immediatamente raggiungere i loro corpi». Ma si trattava di un inganno. I sette che si dichiararono disertori furono portati nel quartier generale al cospetto del maggiore De Villata, il quale li gelò: «Voi siete spergiuri verso la patria ed il Re. In nome della legge militare vigente, voi siete condannati alla pena di morte da eseguirsi all’istante». Per arrestare l’avanzata di Garibaldi, in Sicilia era stato infatti proclamato lo stato d’assedio e, agli occhi del governo, tra briganti e disertori non c’era alcuna differenza.
La pietà dei contadini di Fantina permise di dare degna sepoltura ai fucilati, i cui corpi erano stati abbandonati sulla fiumara. All’alba del 5 settembre furono infatti trasportati in una vicina chiesetta e inumati sotto il pavimento.
Di “martiri dimenticati” parlò l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi nel discorso tenuto il 24 novembre 1984 proprio sotto la lapide murata all’esterno della chiesa, che riporta le parole dettate nel 1890 dal patriota Raffaele Villari: «In quest’albo di marmo/ stanno incisi i nomi/ di eroi trucidati/ sulla contesa marcia di Roma/nel settembre 1862/ ma dalla istoriata pietra/ un torrente di luce si sprigiona/ che ricorda i morti/ che mantengono viva/ e sempiterna l’Italia».
Un’iscrizione in realtà ben diversa dalla formulazione iniziale: «Su quest’albo di marmo/ stanno incisi i nomi/ dei sette eroi assassinati vilmente/ sulla contesa marcia su Roma/ ma dalla istoriata pietra/ si sprigiona/ un grido di vendetta/ all’Italia e a Dio/ contro il carnefice impunito».
Il vile assassinio e il grido di vendetta contro il carnefice impunito non potevano mai essere accettati da un establishment impegnato a cancellare le pagine più buie e controverse della storia nazionale.