lunedì 31 dicembre 2018

Il Natale di solidarietà dell'Agape 2018



Il Natale di solidarietà dell’Agape ormai da anni impegna i volontari in tre iniziative molto sentite, rivolte ai soggetti più deboli e svantaggiati della comunità eufemiese. La prima ha avuto luogo il 22 dicembre presso la Residenza Sanitaria Assistenziale “Mons. Prof. Antonino Messina”, con la quale sin dalla fondazione si è instaurato un rapporto molto stretto, fatto di visite durante l’anno e di appuntamenti fissi quali la Via Crucis nel periodo pasquale, la Giornata del Malato e, appunto, il pranzo di Natale. Calda e affettuosa come sempre l’accoglienza del personale della struttura, che ha allestito la sala e preparato il pranzo, poi servito agli anziani anche dai volontari dell’Agape. Graditissima la presenza del parroco don Marco Larosa e quella dei bambini delle seconde classi della scuola elementare “Don Bosco”, accompagnati dall’insegnante Rina Bagnato, che hanno reso magico il pomeriggio con le canzoni e le poesie dedicate al Natale. È stato emozionante vedere la stessa allegria sui volti di bambini ed anziani, immaginare lo scorrere del tempo e il filo rosso che lega passato e futuro.
 
Giorno 24 è stata invece la volta delle visite domiciliari agli anziani e agli ammalati del paese, con la consegna di un ricordino natalizio. L’occasione per stare un po’ insieme, scambiare qualche parola, fare compagnia. Ed è sempre emozionante sentire ogni anno una frase (“vi stavo aspettando”), che infonde calore e gratifica più di ogni altra cosa.
 
Infine, il 29, l’appuntamento importantissimo della “Tombolata di solidarietà”, al quale la comunità eufemiese ha risposto con la consueta e generosa partecipazione. I proventi della serata consentono infatti all’associazione di “vivere” e di realizzare durante l’anno significative azioni di solidarietà: dalla consegna di buoni alimentari a nuclei familiari in condizione di disagio economico al sostegno delle spese di qualche visita specialistica di soggetti con disabilità, all’organizzazione della colonia estiva per i disabili. Sant’Eufemia è una comunità molto sensibile e solidale. La grande partecipazione che la tombolata registra ogni anno costituisce per l’Agape e per il suo presidente Iolanda Luppino un incoraggiamento per continuare ad operare nel campo della solidarietà, per riuscire a regalare un sorriso o dare un minimo di sollievo a chi vive in condizioni di difficoltà materiale e morale.
 

venerdì 21 dicembre 2018

Schegge di 2018

Non è un bilancio. Mette tristezza fare bilanci. Sanno di conclusione, di definitivo, di irreversibile. Mentre la vita è un continuo divenire e ogni esperienza si incastra nel già vissuto: obiettivi da raggiungere, incontri, situazioni che confermano o modificano l’approccio con il mondo che ci circonda proiettandoci nel futuro che auspichiamo, temiamo, inseguiamo. La vita è un affascinante percorso a tappe. Ogni tappa rivela fatica, gioia, dolore. È tutta vita, da ascoltare anche quando la subiamo.
Cosa resterà, dunque, di questo 2018? Cosa mi resterà?
Il libro, certo. Il poeta e scrittore cubano José Marti sosteneva che “ci sono tre cose che ogni persona dovrebbe fare nella propria vita: piantare un albero, avere un figlio e scrivere un libro”. Sono tre azioni che profumano di domani, di un tempo che non vivremo e che non sapremo, ma nel quale forse ci saremo ugualmente.
La ricompensa per gli anni dedicati alla ricerca è una sensazione molto soggettiva, di “utilità” per una comunità che non può essere tale senza una memoria storica da condividere e da tramandare. Si tratti del libro sui soldati eufemiesi nella Grande guerra o degli articoli per il blog su Tito Fedele, Francesco Marafioti, Francesco Antonio Colella, Nino Fedele, Mimì Occhilaudi, Vincenzo Pietropaolo, i Wood o “il custode di vite”.
La ricompensa è negli incontri e nelle parole scambiate grazie a questa attività con persone che non conoscevo, con gli amici di sempre, con i ragazzi del liceo “Fermi”.
Bisogna avere cura della memoria. Una donna straordinaria come Liliana Segre ce lo ricorda con parole che tutti dovremmo ripeterci come un mantra, per non darla vinta – nel suo caso, ma il discorso ha un carattere più generale – ai criminali che hanno staccato dal selciato di una via della capitale le pietre d’inciampo con i nomi degli ebrei deportati e gasati nei campi di sterminio nazisti. Per questo non è stata per niente una buona notizia constatare che nella Giornata dei Musei della Calabria, alla quale aveva aderito anche il Piccolo Museo della Civiltà Contadina di Sant’Eufemia, le visite si sono contate sul palmo di una mano.
Occorrerebbe essere più presenti, partecipare al di fuori dello specchio deformante di social che frequentiamo con assiduità. Siamo sempre pronti ad esprimere la nostra opinione su tutto, in un mondo che sembra racchiuso nei trenta centimetri che vanno dai nostri occhi al display di un computer o di un telefonino. Pretendiamo di possedere la verità sulla tragedia del piccolo Alfie, sul dramma di Nadia Toffa, sulle infinite occasioni di “dibattito”: politica, medicina, economia. Utilizzando spesso toni aggressivi, vergognosi, imbarazzanti, che denotano un clima di preoccupante imbarbarimento. Non c’è materia sulla quale non sentiamo di potere (e dovere, in un certo senso) esprimere la nostra opinione.
Sappiamo tutto. Sappiamo tutto e invece non sappiamo niente. Siamo persino entrati nella testa di Pietro Tripodi, qualcuno ha addirittura sentenziato che potesse essere pericoloso. Senza immaginare che nella borsa che portava sempre con sé c’era la sua felicità. Ciò che a molti è potuto sembrare incomprensibile, era la sua vita. C’è poco da capire e meno da spiegare: massimo rispetto per un uomo che è passato accanto a noi senza disturbare e che senza disturbare è andato via.
Intanto si emigra come non accadeva da tempo. Un’emorragia di forze sane, preparate, con le carte in regola per affermarsi e per fare la differenza in tutti i campi. «Ce ne andiamo – scriveva Franco Costabile nel 1964 – senza sentire più/ il nome Calabria/ il nome disperazione». Ora come allora incapaci di reagire al dramma sociale di una terra che non riesce a dare una possibilità ai propri giovani e, in definitiva, a se stessa.

venerdì 14 dicembre 2018

Quelli che sono da “stendy novescion”


Diversi anni fa avevo dedicato agli strafalcioni grammaticali e sintattici più diffusi l’articolo “L’italiano, questo sconosciuto”. Da allora la situazione è peggiorata e, ahinoi, l’ulteriore sviluppo delle piattaforme social, ogni giorno, impietosamente ce lo ricorda. Nonostante, ad esempio, la scaltrezza di qualche originale giustificazione al consueto uso del condizionale al posto del congiuntivo: «Ho sbagliato a cliccare i tasti». Chapeau per la prontezza di riflessi!
D’altronde – ci informa Lercio – anche l’Accademia della Crusca, avvilita, ha alzato bandiera bianca di fronte ad uno degli errori più diffusi: «Scrivete qual è con l’apostrofo e andatevene affanculo».
Non tornerò pertanto su quanto già scritto. Chiedo però l’aiuto del genio eterno di Enzo Jannacci per mettere in fila, sulle note della celebre “Quelli che”, una selezione delle perle pescate qua e là nel 2018.
Sì, questo è un post da cantare, oh yes!

Quelli che hanno il vizio del gioco e si sono ridotti “all’astrico”
Quelli che hanno paura del “terramoto”
Quelli che “pultroppo” si muore
Quelli che muoiono nel “Niugersi”
Quelli che fanno le “condoglianse”
Quelli che “si dispenza” dalle visite
Quelli che vorrebbero vivere alle “Awai”
Quelli che tifano per una “scuatra” di calcio
Quelli che vanno in palestra e pubblicano la foto con la didascalia “wuork in progress”
Quelli che pregano Sant’Eufemia “Vergine e Madre”
Quelli che “avvolte” non trovano una spiegazione
Quelli che invece capiscono che “il senzo cera”
Quelli che “l’oro” lo sanno come va il mondo
Quelli che vanno “a daggio”
Quelli che sono da “stendy novescion”
Quelli che questa canzone potrebbe continuare “al infinito”… oh yes!

sabato 8 dicembre 2018

I leghisti calabresi e il carro dei vincitori



Non mi sorprendono i sei bus che partiranno dalla Calabria per partecipare, sabato 8, alla manifestazione in sostegno della Lega di Matteo Salvini. Così come non mi ha sorpreso il pienone registrato qualche giorno fa, alla manifestazione leghista di Roccella Ionica su “Giovani e politica”.
Nel Sud e in Calabria è sempre stato così, sin dai tempi dell’ascarismo giolittiano. In un bel racconto (“Masse e potere”, in: “Il popolo delle cantine e altri racconti della Caulonia di un tempo”), Ilario Ammendolia narra la storia di Ciccillo, nato ai primi del Novecento. Il nostro protagonista era appena un ragazzo quando nella cittadina si sparse la voce che dalla stazione ferroviaria (da raggiungere a piedi alla marina) sarebbe passato il principe ereditario, il futuro Umberto II. Vestito a festa dalla madre, anche lui assistette con altre centinaia di persone al passaggio del figlio di Vittorio Emanuele III: sindaco con tanto di fascia tricolore e cilindro sulla testa, carabinieri in alta uniforme, magistrati, gnuri e gente comune. Un’attesa frustrata dal ritardo del treno, che quando arriva rallenta appena ma non si ferma, per la delusione del sindaco, che aveva preparato due pagine di discorso, della banda musicale e dei cittadini accorsi: solo un veloce saluto con la mano portata alla visiera. Anni dopo sarebbe stata la volta del Duce. Anche in quella circostanza tutto il paese viene mobilitato: tutti vestiti in camicia nera o nelle divise delle organizzazioni fasciste ad accogliere l’Uomo della Provvidenza. E anche quella volta un passaggio rapido: il treno rallenta e subito riparte. Finita la guerra è la volta dei pullman per la DC di De Gasperi, per il PCI di Togliatti, per i monarchici di Lauro.
«Ogni volta – considera Ammendolia – la gente partiva a salutare il “Salvatore” di turno. Poi tutto tornava come prima». Ormai vecchio e stanco Ciccillo, che in gioventù aveva partecipato a tutte le manifestazioni, va anche a vedere Fanfani, all’epoca presidente del consiglio dei ministri, in visita al centro storico. Tuttavia, “un tarlo gli rodeva il cervello”: la constatazione di una “sostanziale continuità” tra vecchie e nuove generazioni, entrambe – ogni volta – esaltate e organizzate per acclamare il politico di turno “eccezionale”, colui che avrebbe risolto ogni problema. Ma che puntualmente non risolveva un bel niente, lasciando tutti con l’amaro in bocca.
Un Ciccillo vissuto negli ultimi 25 anni avrebbe probabilmente acclamato il Berlusconi “unto del Signore”, come molti in Calabria hanno fatto finché Sua Emittenza è stato l’elemento centrale della politica nazionale. Successivamente sarebbe impazzito per Renzi. Ho bene impresse nella memoria, per averle vissute da (allora) segretario del Pd di Sant’Eufemia d’Aspromonte, le primarie che incoronarono l’uomo di Rignano segretario nazionale e le successive regionali, che contrapposero Mario Oliverio e Gianluca Callipo nella candidatura a governatore. In entrambi i casi ci fu la straordinaria mobilitazione di un elettorato tradizionalmente e platealmente di destra a supporto di Renzi e di Callipo. Nel primo caso, perché l’exploit renziano era nell’aria e il berlusconismo allo sbando: insomma, personaggi in cerca d’autore se ne videro parecchi. Nel secondo caso, perché il Pd nazionale fece di tutto per stoppare una candidatura che godeva di ampi consensi, ma che risultava indigesta al giglio magico: ricordiamo tutti le pressioni per non fare svolgere le primarie e decidere il candidato a Roma.
Oggi Ciccillo è leghista, non ci sono dubbi: è stato al convegno di Roccella e sabato sarà a Roma. Niente di nuovo sotto il sole. Questo è il momento di Salvini: quelli più in buona fede si affidano al nuovo “salvatore”, quelli più furbi prosaicamente si schierano con il vincente di turno. Questi ultimi, in genere, sono quelli che decidono le elezioni: alcuni cambi di casacca e distinguo dell’ultimo periodo, dalla Sila all’Aspromonte, non fanno altro che confermare la tendenza atavica degli ascari nostrani ad accodarsi al potente del momento, in cambio della propria sopravvivenza e di qualche briciola. Il popolo, come Ciccillo, va avanti e indietro dalla stazione, con in mano il fazzolettino da sventolare.

*Il Quotidiano del Sud, 8 dicembre 2018 (“Lettere e interventi”).

mercoledì 5 dicembre 2018

Essere volontario


«Il volontariato costruisce comunità resilienti» è il tema scelto dall’Onu per celebrare la 33ª Giornata internazionale del volontariato, che in Italia ha avuto oggi il suo evento principale a Roma, con l’incontro organizzato dal Forum Nazionale del Terzo settore, da Csvnet e dalla Caritas Italiana: «Quando le persone fanno la differenza. Il volontariato che tiene unite le comunità».
Resilienza, ovvero la capacità di reagire di fronte ai traumi, di resistere agli urti della vita e di riprendere il cammino. In Italia sono oltre 5 milioni i volontari, impegnati in 340.000 tra organizzazioni, enti, associazioni: si occupano di assistenza agli anziani, ai disabili, ai soggetti che vivono in condizione di disagio sociale ed economico; promuovono i beni culturali e la tutela dell’ambiente. Si sporcano le mani e sono presenti dove spesso lo Stato non riesce ad arrivare, perché è distratto o perché non può contare su risorse adeguate.
A volte mi chiedo cosa significhi per me essere un volontario. Le domande alle quali è più difficile rispondere sono quelle che ci riguardano personalmente. Forse perché essere volontario è un sentimento e i sentimenti dipendono molto da circostanze che non sempre è facile preventivare né controllare, che cambiano e ci cambiano come è successo a me grazie a questa esperienza che dura da vent’anni. Sono stato in posti in cui mai pensavo che sarei stato in vita mia (Lourdes), semplicemente perché in quel momento servivo là. Credo che ci sia una buona dose di “utilità” nelle cose fatte da un volontario, che va ben oltre la retorica del “lasciare il mondo un po’ migliore”, della ricerca della felicità, del “si riceve più di quanto si dà”. Almeno, per me è così e ogni occasione è un’emozione diversa, per quanto forte.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha oggi ricordato che “il volontariato è un antidoto alle chiusure e agli egoismi che possono generarsi di fronte a momenti di difficoltà personale o collettivi”. Nell’essere volontario c’è, di fondo, un approccio alla vita fondato sulla consapevolezza di avere dei doveri nei confronti della propria comunità, che si traduce in senso di responsabilità. Il volontario non è un buono, nel senso che non è un santo: ha pregi e difetti esattamente come coloro che non fanno volontariato. Ecco perché, in teoria, tutti possono fare volontariato. Si sforza però di osservare la vita con occhi attenti o, meglio, di guardare “le” vite che molti fingono di non vedere.
Non so se questa sensibilità può condurre alla salvezza personale e, sinceramente, non credo neanche sia questo il punto. L’aspetto importante è la disponibilità del volontario a dedicarsi all’altro, in quello che Mattarella ha definito “uno spazio importante del protagonismo civico, prezioso alleato nella ricostruzione del desiderio di impegno politico e civile”.

martedì 4 dicembre 2018

Le rughe del sorriso


Carmine Abate ha impiegato tre anni per scrivere “Le rughe del sorriso”. Ed è sorprendente constatare come il suo ultimo romanzo irrompa con forza nel dibattito attuale attorno al tema dei migranti e dell’accoglienza. I grandi scrittori hanno la capacità di leggere in anticipo la direzione che prende il mondo: lo fanno per noi senza ideologismi, con la potenza evocativa del loro racconto. Capire che i numeri sono persone, questo è lo sforzo di umanità che occorrerebbe fare, a maggior ragione davanti ad una problematica così complessa: «Le storie necessarie – considera l’autore – ti vengono a trovare quando sono mature come un frutto, reclamano che tu le assapori, anche se sono amare, s’intrufolano dentro di te per coinvolgerti e aspettano la tua versione dei fatti, sapendo che ogni storia cambia a seconda di chi la racconta e di chi l’ascolta».
Un romanzo provvidenziale, che giunge in un passaggio storico delicato: non solo Riace e Mimmo Lucano, non solo i progetti di accoglienza, finiti sotto l’attacco di chi alimenta la paura sociale per tornaconto politico. L’odissea di Sahra, Faaduma e Maryan ha valore paradigmatico, è la condizione disumana, brutale, di tutti i migranti che sbarcano sulle nostre coste e dei tanti che muoiono durante il viaggio, nel deserto o in mare.
Non siamo più di fronte ad una situazione eccezionale, l’esodo biblico al quale stiamo assistendo è un fenomeno epocale ma ordinario, inarrestabile, e la società contemporanea è chiamata a farci i conti, comunque la si pensi. Non è sufficiente girarsi dall’altro lato, né pensare di fermare un’onda alzandoci contro un muro, perché l'onda quel muro lo abbatterà. Nei ringraziamenti finali l’autore cita una frase dello scrittore Alessandro Leogrande, scomparso l’anno scorso: «Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi».

sabato 1 dicembre 2018

L'erezione del mignolo


- Oggi ho un mal di testa incredibile. La testa mi sta scoppiando. Cosa puoi darmi?
Bel problema, soprattutto se tu non sei né un medico, né un farmacista: purtroppo, sei soltanto un barista. Per mal di gola e chiusura delle vie respiratorie però sei preparato.
- Prendi queste caramelle alla menta. Già quelle nella confezione blu vanno bene, quelle nella confezione nera sono più forti, “liberano” che è una meraviglia.
- Bruciano molto?
- Ah, guarda: uno sturalavandini.
Vai a capire, poi, perché l’effetto balsamico dovrebbe “bruciare”. Misteri da bar, osservatorio privilegiato per lo studio della sorprendente varietà della natura umana. Che può manifestarsi in diversi modi: con i discorsi ripetuti all’infinito e le stesse cose ripetute ogni giorno, tutti i giorni. Con i problemi gravi e seri che possono sembrare sciocchezze; mentre problemi lievi, insignificanti, possono diventare ragioni di vita. Un mondo capovolto, fatto di gesti e rituali incomprensibili, curiosi, spesso originali nella loro irrazionalità.
Il mignolo teso in alto come una lancia da giostra, mentre pollice e indice portano alla bocca la tazzina del caffè, fa ormai parte della letteratura baristica internazionale. «Via er mignolo!»: raccomandava Nando Moriconi. Non molto ascoltato per la verità, ma con le dita è sempre complicato trovare un compromesso. Lo sapeva bene il conte Mascetti: «Lo vedi il dito? Lo vedi che stuzzica?».
Il mignolino in erezione, quindi: ma non solo. C’è chi accompagna ogni sorso con un “ah” di benessere, ad esempio. Un leggero sbuffo. Tre, quattro, cinque “ah”: e sono soddisfazioni per il barista. C’è invece chi bagna il bordo della tazzina con un po’ di caffè, per disinfettarlo. La prudenza in questi casi non è mai troppa. Chi invece non si fida delle proprietà disinfettanti del caffè e quindi si aggroviglia in gesti acrobatici, per poggiare le labbra sulla parte della tazzina meno toccata – si presume – dagli altri consumatori: proprio sopra il manico, più raramente nel tratto opposto. Chi invece no, nella tazza no: «Il caffè nel bicchierino di vetro ha un altro sapore». Chi l’acqua prima, per sciacquare; chi l’acqua dopo, per lavare. E poi i migliori: quelli del caffè lungo, “perché è più lento e fa meno male”; o del caffè macchiato, “che lo stempera” e, neanche a dirlo, “fa meno male”. Ma la dose di caffeina assunta dipende esclusivamente dalla quantità di caffè contenuta nella tazzina: più caffè uguale più caffeina. Elementare, Watson!
Non solo caffè, comunque. Interessante il metodo di “sgasare” le bibite aggiungendo e girando nel bicchiere una punta di zucchero: la glicemia sentitamente ringrazia. Così come andrebbero studiate anche le diverse tecniche di tenere la bottiglia della birra: piantata in cima alla pancia, e la potenza scenica del risultato dipende dalla circonferenza della pancia; oppure sotto un’ascella, mentre le braccia sono conserte sulla pancia di cui sopra. Senza dimenticare il tocco di classe dello schiocco della bottiglia con il pollice.
Ad ogni modo, il farmaco per sconfiggere il mal di testa al bar esiste: poche gocce di limone nel caffè non zuccherato. Un rimedio naturale infallibile. Se non ci credete, provate a chiedere al vostro medico curante.

lunedì 19 novembre 2018

Nino Fedele, l’eufemiese di casa al Metropolitan di New York


Fedele Antonino, figlio di Francescantonio e Rosa Gentiluomo, nasce a Sant’Eufemia d’Aspromonte l’11 novembre 1916. Dopo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, vissuti tra gli orti di “Campanella”, “Crasta” e “Candelisi”, si iscrive all’Università e si laurea in Giurisprudenza e Scienze Politiche. Partecipa alla seconda guerra mondiale come tenente pilota dell’Aeronautica militare e, nel dopoguerra, vince un concorso per ispettore delle Poste e Telecomunicazioni che ne determina il trasferimento a Roma, nel 1948. Nella capitale può coltivare i suoi interessi per la letteratura e soprattutto per la musica, un retaggio di famiglia trasmesso a Nino ed ai suoi fratelli dal padre, suonatore di violino in chiesa e appassionato cultore di musica classica e lirica. Frequenta il “Teatro dell’Opera” e incomincia a scrivere i primi articoli di critica musicale. Il 31 luglio 1950 sposa Angelina Luppino, ma già l’anno successivo solca l’Oceano Atlantico. Poliglotta (conosce l’inglese, il tedesco e lo spagnolo), ben presto diventa critico musicale per il più diffuso e influente giornale statunitense in lingua italiana: “Il Progresso Italo-Americano”, fondato da Carlo Barsotti nel 1880 e pubblicato in edizione quotidiana, che conobbe il suo periodo d’oro tra le due guerre mondiali, sotto la guida di Generoso Pope. In pochi anni Nino Fedele diventa un autorevole giornalista e il 26 maggio 1959 viene naturalizzato cittadino statunitense.
Per lunghi decenni recensisce le performance degli artisti che si esibiscono a Broadway, nel celebre “Metropolitan Opera House”, anche quando il quotidiano cesserà le pubblicazioni (1988) e la sua eredità verrà raccolta da “America Oggi”, che ancora oggi viene stampato: “per trent’anni – scrive Carmelita Tripodi – è stato un osservatore preciso, quasi pignolo, del cosmo musicale americano ed internazionale, del quale ha scritto con passione innumerevoli piccole pagine di storia” (“Incontri”, gennaio-marzo 1992).
I suoi articoli “ritraggono” i più grandi artisti: la bellissima Anna Moffo, Anselmo Colzani, Luciano Pavarotti, Renata Tebaldi, Renata Scotto, Mario Del Monaco e la “divina” Maria Callas. Con alcuni di loro Fedele intrattiene anche significativi scambi epistolari. In una lettera, Renata Tebaldi (già affermatissima “voce d’angelo”, secondo la celebre definizione del direttore d’orchestra Arturo Toscanini) gli rivolge infatti parole di sincero ringraziamento, che Isabella Loschiavo riporta in un articolo per “Incontri” (aprile-giugno 1997): «Lei sa cogliere tutte le sfumature, conosce perfettamente ogni opera e sa bene quello che dice».
Moltissimi gli scritti di Fedele dedicati alle opere di Puccini. In particolare, apprezza la “Bohème” che, il 14 aprile 1975, segna l’esordio al Metropolitan di Katia Ricciarelli accanto a José Carreras. La sua acuta penna passa al vaglio la messa in scena delle opere di Gaetano Donizetti, Giuseppe Verdi, Pietro Mascagni, Francesco Cilea, che conobbe personalmente nell’abitazione romana dell’amico d’infanzia Nino Zucco, altro illustre eufemiese, in grande intimità con l’autore di Adriana Lecouvreur; ma si occupa anche di compositori non italiani: Richard Wagner, Jules Massenet, Benjamin Britten. In occasione del decimo anniversario della morte di Toscanini, celebra a tutta pagina il Maestro “simbolo imperituro del genio italiano”.
Nel 1982 gli viene assegnato il premio “Calabria d’Oro”: «Per aver portato oltre confine la sua passione di calabrese, per aver sostenuto con coraggio la voce più alta della nostra arte, per aver testimoniato l’apporto italiano al progresso americano».
Nel 1984 il presidente Sandro Pertini lo insignisce dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana.
Muore a Brooklyn il 5 gennaio 1992.

*Fonti:
- Ufficio Anagrafe e Stato civile del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, “Registro delle nascite” (anno 1916);
- Isabella Loschiavo, Scrittori, poeti e giornalisti di Sant’Eufemia d’Aspromonte (terza parte), rivista “Incontri”, aprile-giugno 1997;
- Carmelita Tripodi, Deceduto in Usa il dottor Antonino Fedele, rivista “Incontri”, gennaio-marzo 1992;
- Nino Zucco, Incontri, Edizioni E.P.A.R., Roma 1978, pp.66-68.

**La foto è tratta dalla rivista “Incontri”, gennaio-marzo 1992.

sabato 17 novembre 2018

Lettera dal Quirinale



Una ventina di giorni fa avevo inviato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella una copia del libro “Sant'Eufemia d'Aspromonte e la Grande Guerra”. Lo ritenevo un gesto doveroso nei confronti di colui che “rappresenta idealmente la storia della nostra patria”, come scrissi nella lettera di accompagnamento.
Ieri ho ricevuto la risposta dell’Ufficio di Segreteria del Presidente della Repubblica. C’è un passaggio che mi emoziona e che voglio condividere perché in poche parole racchiude il senso di tutti i miei scritti sulla storia di Sant’Eufemia: “testimonianza dell'impegno civico con cui segue la storia del Suo territorio”.
Questa è per me la più grande gratificazione. Ed è anche un riconoscimento di quanto siano preziose le piccole case editrici come “Il Rifugio” di Reggio Calabria che permettono di tirare fuori dall’oblio vicende minime, di dare a personaggi sconosciuti dignità pari a quella dei più celebrati protagonisti della Storia grande.

lunedì 12 novembre 2018

Biblioteca comunale: un’occasione mancata



Secondo i dati divulgati dalla Fondazione Openopolis e riportati sul giornale online “Il Corriere della Calabria”, nell’ultimo anno due bambini/adolescenti su tre di Calabria, Sicilia e Campania non hanno letto nemmeno un libro. Un dato preoccupante, che dovrebbe fare riflettere anche sull’importanza di una presenza virtuosa e dinamica delle biblioteche nei territori.
Spiace constatarlo, ma la biblioteca del nostro comune presenta standard qualitativi molto bassi. Eppure gli strumenti per tentare di migliorare la situazione ci sarebbero, se solo si fosse più attenti. Il 23 maggio scorso la Regione Calabria aveva ad esempio emanato un avviso pubblico “per la selezione e il finanziamento di interventi finalizzati a sostenere il funzionamento delle biblioteche e degli archivi storici calabresi” (decreto dirigenziale n. 5052). L’azione 1 mirava a “sostenere il funzionamento delle biblioteche calabresi degli Enti locali, dei Sistemi Bibliotecari, delle Biblioteche scolastiche e delle biblioteche riconosciute di interesse locale con DPGR”. L’azione 2, invece, era riservata agli archivi storici. Per l’azione 2, in ogni caso, non ci sarebbe stato niente da fare, non avendo Sant’Eufemia un archivio storico comunale. Ma questo è un altro discorso, che tra l’altro ripeto inutilmente da più di dieci anni.
Veniamo all’azione 1. Pochi giorni fa la Regione Calabria ha approvato la “graduatoria provvisoria del finanziamento degli interventi finalizzati a sostenere il funzionamento delle biblioteche e degli archivi storici calabresi – annualità 2018” (decreto dirigenziale n. 12542 del 5 novembre 2018). In particolare, per l’azione 1 (quella destinata alle biblioteche) sono stati ammessi al contributo regionale 80 progetti; 15 proposte non sono state ammesse per il mancato raggiungimento del punteggio minimo; 19 sono state escluse dalla valutazione per la mancanza di requisiti o per errori formali.
Ho cercato inutilmente tra gli allegati il comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Non è presente in nessuno dei tre elenchi pubblicati: né tra le proposte finanziate, né tra quelle escluse. Ciò significa che l’amministrazione comunale non ha nemmeno presentato la domanda per accedere al finanziamento.
Sinceramente, tutto questo suscita amarezza. Insomma, la biblioteca comunale è là, a languire. Da poco sono stati almeno sistemati negli scaffali i volumi che per quasi due anni hanno fatto bella mostra sparsi disordinatamente un po’ ovunque, rendendo di fatto non fruibile la biblioteca stessa. Continuo a credere nella funzione culturale delle biblioteche in una comunità: luoghi che però hanno bisogno di essere animati con atti e fatti, altrimenti si riducono a cimiteri di libri.
Sappiamo bene che i fondi destinati alla cultura sono sempre striminziti. Proprio per questo è auspicabile una maggiore attenzione da parte di chi ha responsabilità amministrative per tentare di intercettare quelle poche opportunità che ogni tanto si presentano.

venerdì 9 novembre 2018

Mimì Occhilaudi


L’unico ritratto esistente, sguardo intenso e capelli indomabili, ci consegna l’immagine di un uomo tormentato da demoni silenziosi, come il ragazzo spartano richiamato da Edgar Lee Masters nei versi dedicati a “Dorcas Gustine” (Antologia di Spoon River), che “nascose il lupo sotto il mantello/ e si lasciò divorare, senza un lamento”. Domenico Giovanni Occhiuto elesse la solitudine a compagna di vita e musa ispiratrice. Figlio di Fortunato e Carmela Laudi, nacque il 24 giugno 1894 a Sant’Eufemia d’Aspromonte e, secondo quanto ricordato da Giuseppe Pentimalli sulla rivista “Incontri” (“Mimì Occhiuto, poeta dimenticato”, dicembre 1988), visse per lunghi anni in uno stato di grave indigenza: «Viveva di elemosine, nel senso che di tanto in tanto le persone più abbienti del paese lo invitavano a pranzo, vuoi per pietà vuoi per la curiosità di conoscere meglio questo tipo estroso». Un minimo di aiuto lo riceveva anche dal Comune, per il quale svolse compiti di archivista e copista degli atti amministrativi finché non fu assunto come impiegato, nel 1940.
Solitario e taciturno, Occhiuto fu autodidatta e scrisse essenzialmente per se stesso: della sua produzione è giunta ai nostri giorni la selezione di liriche “Polvere senza pace. Il rogo, la cenere, il vento”, pubblicata nel 1968. Un anno dopo, moriva a Reggio Calabria (2 novembre 1969).
Tutte le altre sue poesie sono andate perdute, a parte il carme “Ave, Saturnia Tellus”, stampato dalla Tipografia “C. Zappone” di Palmi nel 1933 con due titoli (il secondo: “Saluto alla terra rifiorente”), che in piena epoca fascista saldava il tema poetico della rinascita della natura con quello politico della rinascita della nazione. D’altronde, anche in un coevo manoscritto inedito e pervenuto a me in fotocopia, Occhiuto esalta il mito del primato italiano, che trova occasione di grande propaganda nell’impresa transoceanica di Italo Balbo (“Per la crociera atlantica del Decennale. Ai trasvolatori degli oceani”). Un altro inedito richiama invece la tradizione della satira di costume (“Galleria degli uomini illustri del mio paese. Primo profilo della serie”) e doveva essere parte di un progetto incompiuto, o comunque andato disperso, con il quale “u poeta” si proponeva di mettere alla berlina i personaggi più in vista della comunità eufemiese. Forse una vendetta contro coloro che a volte lo schernivano (un altro suo soprannome meno nobile era “secara”: bieta); o forse il tentativo di lenire i tormenti dell’anima dedicandosi ad argomenti più leggeri e divertenti. Mimì Occhilaudi, come amava firmarsi, esplicitando nella fusione dei cognomi dei genitori il forte legame con la madre, sapeva infatti essere pure simpatico. Accadeva ad esempio con i rari compagni di passeggiata, ai quali, dopo avere declamato alcuni suoi versi, scherzosamente chiedeva: «Non ti sembra che siano superiori a questi [e li recitava, n.d.a.] scritti da Dante?».
La cifra autentica della poesia di Occhilaudi è tuttavia dolore cupo e lancinante, strappato dalle viscere con un atto liberatorio che diventa sfiatatoio e terapia. “Polvere senza pace” raccoglie 44 componimenti, più due parti del poema “Per un granello di sabbia”, rimasto incompiuto. In particolare “Episodio della morte di Cristo” (l’altra è “Episodio della eruzione del Vesuvio e della distruzione di Ercolano e Pompei”) assurge a paradigma dell’umana sofferenza: “…e ciascuno risale un suo calvario/ per esser solo sul più alto vertice/ a illuminarsi col proprio dolore/ e riscattarsi solo con la morte,/ sì che ciascuno in lui si riconosca”.
Ma è in liriche come “Attesa”, “La serie dei tramonti” e “L’ospite” che la poetica dell’autore si manifesta compiutamente come capacità di tradurre in versi solitudine e silenzi.

ATTESA
Lume di luna penetra
tra le socchiuse imposte
e si diffonde per la muta stanza
soave, malinconica chiaria.
Sparse nell’alta quiete,
le cose s’affratellano nel sonno,
mentr’io supino, sul mio duro letto,
veglio bruciato da fuoco d’amore.
Triste, crudele, interminabil notte!
Abbandonata alla deriva l’anima,
invano invoco il balsamo del sonno
turba di larve m’affolla il pensiero
nel brulichio ondoso di penombre
sulle pupille spalancate, inerti…
E tu non vieni…
Viene solinga alla finestra l’alba.

LA SERIE DEI TRAMONTI
Murati mi sembrano gli occhi,
li sigillò la pena
che non trovò più lacrime da piangere…
Ora è deserto intorno,
arido vento mi fa cencio l’anima
e con sperduti occhi
guardo ogni sera declinare il giorno.

L’OSPITE
Nessuno m’attende la sera
– tra luce e penombra – vegliando
le care cose sparse per la stanza.
Quand’io rincaso deluso,
triste che quasi m’avvinghio alla morte,
nessuno m’accoglie.
Sopra la soglia, nella fredda notte
viva, nel fitto buio
di un infinito brulichio di stelle
e del cantare di lontane acque,
mi si richiude alle incurvate spalle
con secco schianto
la porta
coperchio di bara.


 

Cent'anni dopo


«Mi affascina il mistero delle vite/ che si dipanano lungo la scacchiera…»: è l’inizio di una bellissima canzone di Francesco Guccini (“Vite”), cantautore che amo e che spesso ha ispirato le cose che scrivo. Quando iniziai la ricerca sui soldati di Sant’Eufemia che presero parte alla prima guerra mondiale, mi affascinava l’idea di soddisfare la mia curiosità; e ancor più mi affascinava la speranza di riuscire ad andare oltre le statistiche, che pure mancavano.
Volevo trovare i numeri, ma a quei numeri volevo dare un nome, un cognome e un’età. Disegnarli sul foglio: altezza, colore dei capelli e degli occhi, colorito del viso, segni particolari. Conoscere la vita che avevano in paese. E poi fare uno sforzo in più: affiancarli mentre partivano per il fronte e stare con loro sul Carso o sull’altopiano di Asiago, sul fronte francese o su quello balcanico. Nel freddo delle trincee, affamato come loro quando non arrivavano i rifornimenti. Tra gli stenti dei campi di prigionia. Vivere anch’io il dramma e gli orrori di quella immane carneficina. I boati delle cannonate, la pioggia degli shrapnel, i gas asfissianti. La follia degli attacchi “in salita” per conquistare una cima, mentre dall’alto le mitragliatrici del nemico si esercitavano in un facilissimo tiro al bersaglio. Respirare il tanfo dei cadaveri in putrefazione, nei campi di battaglia ridotti a paesaggio lunare. Sentire con le mie orecchie i lamenti dei feriti e le urla disumane degli amputati (“sembrava che scannassero maiali”); poggiare la mia mano sulla fronte degli ammalati, nei lettini degli ospedali da campo. Trascorrere i miei anni migliori con la morte accanto, come loro. Questo volevo.
Ricordare è un atto di giustizia, fare opera di memoria significa riconoscere pari dignità alle piccole/grandi pagine di storia scritte dai nostri avi. Staccare dalle ragnatele del tempo le loro vite, tirare fuori dall’ombra dell’oblio quei 580 giovani di Sant’Eufemia spediti in posti a loro sconosciuti: contadini, pastori, calzolai, falegnami, mulattieri. Erano i nostri nonni, furono fanti mandati al macello. Si beccarono polmoniti, malaria, infezioni intestinali. Patirono il congelamento dei piedi. Furono fatti prigionieri (72) e furono feriti (130). Morirono in 88 (più un soldato fucilato per diserzione): 39 sul campo di battaglia (11 dei quali dispersi), 15 in seguito alle ferite riportate in combattimento, 5 per gli effetti dei gas asfissianti, 6 nei campi di prigionia, 21 per malattia, 2 per infortunio.
Li ricordiamo oggi, cent’anni dopo, come un dovere.

 

domenica 28 ottobre 2018

Bannato da Facebook


È capitato anche a me: prima o poi doveva succedere. «Questo post non rispetta i nostri standard della community, pertanto nessun altro può vederlo». Il blog è stato bannato da Facebook, per cui – al momento – non è possibile condividerne i contenuti. Me ne farò una ragione. Ora non so cosa posso fare, mettersi in contatto con Facebook è impossibile, se non rispondendo alle Faq. E tutta questa voglia onestamente non ce l’ho.
In tutti questi anni ho utilizzato quel social soprattutto per dare più visibilità ai contenuti del blog, che sinceramente non mi sembra siano così terrificanti!! In otto anni ho scritto quasi 600 articoli, che hanno avuto quasi 400.000 visualizzazioni: la maggior parte racconta la storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte (il mio paese), i suoi personaggi più o meno famosi e quello che ho ritenuto bello raccontare per rafforzare l’identità collettiva della comunità eufemiese.
Non sono un genio, non mi sento migliore di altri (forse dei coglioni che hanno fatto bloccare le condivisioni un po’ sì). Sono uno che cerca di mettere a disposizione degli altri quel poco che ricerca, per saperne di più, e che ha piacere a condividere i risultati della sua curiosità con gli altri. Insomma, non proprio un terrorista.
“Messaggi nella bottiglia” non ha inserzioni commerciali: questo per dire (ma chi mi conosce lo sa bene) che dell’aspetto dei possibili ricavi che può dare la gestione di un blog non mi è mai fregato niente. Altrimenti avrei fatto altro. Che a qualcuno questa mia attività possa avere creato disturbo mi fa provare pena: viviamo un momento davvero brutto, dove le piccinerie dei nani danno la misura del livello delle persone e della società che ci circonda. Ma forse è vero che la cultura è un’arma pericolosa. Siamo governati dagli algoritmi e le competenze, soprattutto nel campo della comunicazione, valgono sempre di meno. Così può accadere che una segnalazione, fatta da qualcuno al quale evidentemente stai sulle palle, possa limitare la tua libertà di pensiero. Un mondo superficiale governato con superficialità. Il post segnalato, per dire, raccontava le mie vicissitudini, causate da una diagnosi fortunatamente sbagliata e conclusasi con un bel lieto fine. Chissà che non sia stato proprio il lieto fine ad avere “disturbato” chi ha segnalato il blog!
Ridiamoci sopra: si continua ad andare avanti. “Messaggi nella bottiglia” è uno strumento utile principalmente a me stesso. Il fatto che io ci scriva non dipende insomma dal numero dei lettori, anche se indubbiamente fa piacere sapere di avere un seguito, composto da gente che mi stima o che è semplicemente curiosa di sapere ciò che scrivo. Una vita senza curiosità è una vita a metà.
Forse la sto facendo lunga, ma il senso di queste parole è che continuerò come sempre a scrivere sul blog, nonostante un po’ di comprensibile amarezza per il mondo incattivito nel quale viviamo. In qualche modo, cercherò lo stesso di comunicarlo a chi, tra i miei contatti Facebook, nutre interesse per quello che scrivo.

venerdì 12 ottobre 2018

Il mio secondo padre


Molti pensano che Nino Altavilla sia mio zio, insomma che lui o sua moglie Eufemia siano fratello o sorella di uno dei miei genitori. Non è così e la storia che lega le nostre due famiglie è la testimonianza di come a volte i rapporti di amicizia siano più forti, più profondi di quelli di sangue.
Vorrei scrivere qualcosa di bello, oggi che Nino compie settant’anni, anche se so di correre il rischio di apparire agiografico o retorico. Due aggettivi che non si conciliano con la sua personalità riservata. Non apprezzerebbe. Probabilmente un po’ di fastidio lo proverà anche se verrà a conoscenza di queste mie parole: i festeggiamenti “in suo onore” non li ha mai graditi. Comunque capirà e mi perdonerà.
Come faccio a mettere da parte sentimenti che riempiono la mia vita dal 1977, da quando con i miei genitori e fratelli tornammo dall’Australia? Ce ne innamorammo allora, con Luigi e Mario. Abbiamo giocato sulle sue ginocchia, goduto della sua simpatia e del suo affetto smisurato, della sua naturale capacità di farsi amare dai bambini: nei miei nipoti oggi rivedo noi piccoli, che stravedevamo per lui.
Nella casa dei suoi genitori, nel cortile dove anch’io sono cresciuto, ho ascoltato le storie della dura alba del Novecento. Ancora, i racconti della sua infanzia, ricordi di bambini sgualciti del secondo dopoguerra che avevano sempre mondi nuovi da scoprire e avventure da vivere in spazi sconfinati. Spericolati o forse soltanto più liberi e geniali con i loro giochi di strada, la caccia ai nidi e alle lucertole, gli orti razziati, i bagni nelle fiumare. I mille mestieri dai “mastri” più disparati. Le avventure ardimentose con mio padre (la foto sotto li ritrae in piazza municipio) e con i giovani della sua generazione, quasi tutti poi emigrati. Come Nino, che all’inizio degli anni Settanta va a finire a Cuba: e mi sembra un eroe della Frontiera in sella al suo cavallo, allacciati agli stivali gli speroni in seguito regalati a mio fratello Luigi.
Ma non voglio raccontare Nino, né la forza di questi suoi settant’anni. Mi ha insegnato l’amicizia vera, quella che non si lascia sfiorare dal dubbio se sia il caso di lanciarsi contro il fuoco; quella fatta di parole di verità e di giustizia, sempre. Non si diventa casualmente punto di riferimento per fratelli, sorelle, nipoti, amici: occorrono saggezza, generosità, rispetto dell’opinione altrui, lealtà.
Un uomo “preciso” che pretende serietà e che in ogni circostanza sa pesare le parole, trovare i modi giusti, dare i consigli più opportuni: questo è Nino, il mio secondo padre.


venerdì 5 ottobre 2018

Un Paese senza memoria


Dopo avere tagliato le ore di storia nei nuovi istituti professionali, al Miur hanno anche provveduto ad eliminare la traccia storica dalla prova scritta di italiano negli esami di maturità. La ragione pare risieda nella constatazione che la traccia di argomento storico è la meno preferita dagli studenti: solo il 3% dei maturandi dal 2008 al 2017 (fonte: Skuola.net). C’è da considerare che in questi anni la traccia storica ha in genere affrontato argomenti della seconda metà del Novecento e che in molte scuole con il programma non sempre “si arriva” agli anni del secondo dopoguerra. Evidentemente i tecnici del ministero hanno pensato di risolvere il problema alla radice: una soluzione più comoda di un’eventuale riorganizzazione dell’insegnamento della disciplina.
Personalmente mi rifiuto di accettare la logica, mutuata dalla società dei consumi, per cui il prodotto che non si vende va ritirato dal mercato. Altrimenti, di questo passo, si potrebbe immaginare nel futuro l’introduzione di una prova di “chat”, con ortografia, grammatica e sintassi tipiche della messaggeria istantanea, con tanto di utilizzo di faccine appropriate.
Due grandi intellettuali del Novecento, agli antipodi per formazione culturale e politica, hanno sottolineato l’idiosincrasia della società italiana nei confronti della storia. Pier Paolo Pasolini con rabbia, anche con rassegnazione: «Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale».
Caustico e ironico, invece, Indro Montanelli: «Questo è un Paese senza memoria, dove l’unica cosa da fare è cercare di non morire perché chi muore (fatte salve la solita mezza dozzina di sacre mummie: Dante Petrarca, eccetera, che nessuno legge) è morto per sempre. È un Paese senza passato, il nostro, che non accumula né ricorda nulla. Ogni generazione non solo seppellisce quella precedente, ma la cancella».

giovedì 4 ottobre 2018

Il segnalibro


Mi prendo la libertà di darti del tu, anche se mi viene da sorridere: è proprio vero che la rete ci rende tutti più disinibiti, sfacciati se si vuole. Il prossimo sei novembre saranno sei anni senza di te. Sei lunghissimi anni, sei brevissimi anni.
Mi piace questa fotografia che ci ritrae nell’estate del 2009, alla presentazione del mio libro sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Era la “tua” Sant’Eufemia, io uno dei tuoi tanti ragazzi. Uomini e donne ormai, che ti fanno vivere nei ricordi scambiati ogni volta che il discorso cade su di te, il professore Rosario Monterosso. Un miracolo che ci fa sentire tutti compagni di banco, in barba alle rispettive appartenenze generazionali. Vento in faccia che non sferza, profumo di prati e di speranza: i nostri vent’anni. Ma forse sto divagando.
Mi piace questa immagine scolpita nel tempo, per sempre: tu guardi qualcosa, cerco di arrivarci pure io. Come nell’aula, incantato dalle tue spiegazioni. Tutt’orecchi. Rivedo il ragazzo che è cresciuto inseguendo il tuo sguardo, per capire dove si sarebbe posato, per cercare di vedere con i tuoi occhi.
La dea della memoria è figlia del cielo e della terra. Le vette del pensiero e la materialità dei bisogni degli uomini nei due luoghi che hai frequentato per tutta la vita, dove ci hai accompagnato tenendoci per mano. Divago ancora.
Ora è diverso. Cerco i sassolini che hai fatto cadere dalle tue tasche per trovare la strada, come nella fiaba. Tento di saltare dentro le tue grandi orme, un passo dietro l’altro, provo a seguirle nel bosco per riuscire ad uscirne. Chissà.
Ti vedo sui tuoi libri, che oggi continuano a vivere nella mia libreria e che spero un giorno possano continuare a respirare altrove, ancora. Sei nel tuo studio, dietro c’è il tuo amato orto. L’orto del professore contadino: il pomodoro da legare, le erbacce da pulire. Nella curva che ancora oggi mi fa rallentare per vedere se sei là, come un tempo.
Tra le parole lette e meditate nel tuo paradiso borgesiano c’è la tua firma: un’annotazione a margine, una sottolineatura, un segnalibro. Come la striscetta di cartone trovata nei racconti di Mario Rigoni Stern (Tra due guerre e altre storie), che conforta una mia antica consuetudine e che là resterà, dove l’hai messa tu:

Ora siamo sazi, abbiamo le nostre case, anche le nostre ferie, eppure mi pare manchi qualcosa. Così in questi giorni sono andato al cimitero. È un posto davvero tranquillo e sereno; senza chiasso. Si sentono il canto degli uccelli e il ronzio delle api. È lì che ritrovo la mia Antologia di Spoon River, dove «tutti, tutti dormono, dormono; dormono sulla collina». È lì che ritrovo parenti stretti, prossimi e lontani, gli amici, le amiche, le storie di tanta gente che ho conosciuto, storie buone e non buone. Non è che pianga o sospiri; a volte mi viene anche da ridere. Rivedo in quei nomi, in quelle date tanto della mia vita, della vita del paese, la storia grande e quella piccola. Avevano ragione i greci quando dicevano che le muse sono le figlie della Memoria.

mercoledì 26 settembre 2018

Nadia, il cancro, la sentenza del web


Io non lo so qual è il modo migliore per affrontare la malattia, la propria malattia. Credo che dipenda dal carattere di ciascuno di noi. E credo anche che non esista un modo più giusto di un altro. Ho visto gente disperarsi e ho ancora stampati nella mente gli occhi di un amico di famiglia, bagnati di lacrime quando passò dal bar per salutarci, prima del suo ultimo viaggio della speranza. Non lo rividi più. Una mamma, che ha lasciato due figli piccoli, faceva invece battute autoironiche mentre il fuoco dentro la stava divorando, a pochi giorni dalla morte.
Contro la “Iena” Nadia Toffa, contro le sue “presunte” parole (“il cancro è un dono”) si sono scatenate le tricoteuses del web, armate di tastierina e Verità. Il noto personaggio televisivo si è così dovuto difendere, precisando che il dono al quale si riferiva non è la malattia in sé (quale cretino potrebbe pensarlo?), ma la possibilità che la malattia dà di guardare il mondo e la propria vita da un’altra angolazione, l’opportunità di pensare cosa realmente conti nella propria esistenza e quanto vi sia in essa, invece, di futile e di illusorio.
Quando Nadia Toffa dichiarò di essere ammalata di cancro, accolsi quell’outing con fastidio. Penso che non tutto della propria vita debba andare sotto i riflettori, essere dato in pasto alla curiosità morbosa degli internauti, che bisognerebbe tutelare l’intimità di una malattia. Qualcuno ha anche ipotizzato che potesse trattarsi di pubblicità, macabro esempio di quanto cinica sia diventata la società di oggi.
Nadia appartiene a una generazione abituata a vivere “pubblicamente” ogni aspetto della propria vita, a maggior ragione se già si è un personaggio pubblico: questo aspetto ha avuto probabilmente un peso nella sua decisione.
Chi ha avuto un tumore o ha vissuto esperienze familiari con il cancro non può che essere turbato dalla sintesi semplicistica della dichiarazione di Nadia. Lo capisco. Ma tutti quelli che si sono affrettati a puntare il ditino non sanno cosa è passato nella testa di Nadia, anche se i social network hanno fatto di ogni utente il possessore di una verità inconfutabile che non ammette il confronto con chi la pensa in maniera differente.
Io non conosco la verità, però penso che ognuno abbia il diritto di affrontare la vita e la morte come meglio crede. D’altronde (mi si perdoni la provocazione), per i santi venerati dalla chiesa, malattie e sofferenze erano un dono di Dio: e su questo non mi sembra ci siano polemiche.
Le polemiche ci sono per Nadia perché alla gente comune non sembra vero di potere in qualche modo essere ammessa nel mondo dei “famosi” (si tratti di calciatori, politici, personaggi dello spettacolo), mettendo un “mi piace” a una foto su instagram o, più frequentemente, rovesciando loro addosso insulti di ogni genere per scaricare la propria invidia e la propria frustrazione.
Parlare della propria malattia, per alcuni, è anche un esercizio di esorcismo. Una terapia dell’anima che io non riesco a condannare. Se lei sta meglio così, non vedo che problema possa esserci.
Non me la sento di giudicare il modo in cui gli altri affrontano il mistero più grande della propria vita (la morte), perché non permetterei a nessuno di giudicare il mio.

domenica 16 settembre 2018

16 settembre



Siamo le vite recise dai terremoti, le abitazioni distrutte e ogni volta ricostruite senza un lamento.
Siamo i soldati caduti per servire una patria a volte matrigna, i morti sul lavoro nelle campagne e nei cantieri, sotto casa o in terre lontanissime.
Siamo figli di donne che hanno cucinato cardi e “cosch’i i vecchia”, di mamme che con un pugno di fagioli sono capaci di fare un miracolo.
Siamo figli di uomini dalle schiene curve, di contadini a piedi o a dorso di mulo sui sentieri dell’Aspromonte, di carbonai dai volti anneriti, di pastori transumanti tra la montagna e i paesi caldi della piana di Gioia Tauro.
Siamo la caparbia di genitori che non ci hanno fatto vivere gli stenti delle baracche senza luce, né acqua.
Siamo figli di giovani con la valigia di cartone tenuta stretta dallo spago, accalcati nelle terze classi dei treni diretti a Nord o delle navi d’Oltreoceano: disposti a fare qualsiasi lavoro per un piatto di dignità. Dalla nostra terra partono oggi altri ragazzi: laureati, professionisti, manodopera qualificata, lavoratori che nel proprio campo sono eccellenze. Oggi come allora percorriamo le strade del mondo con la consapevolezza di essere noi i fabbri del nostro destino.
Siamo bellezza tramandata, da custodire e indicare ai più giovani perché ne abbiano cura: i libri di storia di Vittorio Visalli, i versi di Domenico Cutrì, i racconti di Nino Zucco, le opere d’arte dei Tripodi, la solitudine dolorosa di Mimì Occhilaudi.
Siamo storia che non passa, anche se tutto è cambiato.
Ma siamo soprattutto la storia del fuoco attraversato dalla nostra Protettrice, un passaggio di salvezza che è un messaggio dal valore universale, che ci riguarda singolarmente e come comunità portatrice di un patrimonio identitario unico.
Auguri a chi porta il nome Eufemia e a tutti noi eufemiesi.
VIVA SANT’EUFEMIA!

martedì 4 settembre 2018

Una famiglia eufemiese a Praga dopo la prima guerra mondiale: i Pietropaolo


Tra le storie dei soldati di Sant’Eufemia nella prima guerra mondiale mi ha colpito quella di Vincenzo Pietropaolo, della quale, per quelle strane coincidenze alle quali è difficile dare risposte razionali, dopo la pubblicazione del libro ho appreso ulteriori informazioni. La testimonianza del figlio Rostislav (classe 1929), proprio quest’estate in vacanza a Tropea, è stata raccolta da Carmelita Tripodi, la quale mi ha poi riferito di questo incontro e dell’orgoglio di Rostislav nello scoprire che era appena stato pubblicato un libro nel quale si parlava anche di suo padre. Ma andiamo con ordine. Vincenzo Pietropaolo nasce a Sant’Eufemia il 12 febbraio 1895 da Giuseppe e Teresa Albanese. I dati riportati sul foglio matricolare fanno immaginare un uomo abbastanza alto per quei tempi (162 centimetri e mezzo), con i capelli neri e lisci, gli occhi celesti, il colorito roseo e una cicatrice alla guancia sinistra. Calzolaio, sarà proprio la sua professione a salvarlo. Sì, perché le scarne notizie a disposizione ci dicono che, mentre con la 5ª compagnia del 158° reggimento (Brigata Liguria) si trova dalle parti di Luico, a nord di Caporetto, finisce nelle mani del nemico. Per i suoi superiori è però un traditore: denunciato al tribunale militare di guerra del IV corpo d’armata, “perché incorso nel reato di diserzione essendo passato al nemico il giorno 12 marzo 1916”, quattro mesi dopo viene condannato a morte in contumacia, mediante “fucilazione nella schiena previa degradazione per diserzione con passaggio al nemico”. La sentenza non verrà mai eseguita, in virtù dell’amnistia intervenuta dopo la fine della guerra, ma a conflitto in corso l’atteggiamento del comando supremo nei confronti dei soldati caduti prigionieri è molto severo. Considerati vigliacchi e traditori (“imboscati d’Oltralpe”, secondo la celebre definizione di D’Annunzio), vengono abbandonati a se stessi. A differenza dei governi francesi e inglese, quello di Roma non fa arrivare ai propri soldati pacchi con generi di prima necessità: dall’Italia partono soltanto aiuti privati o spediti da associazioni di carità, che spesso però non giungono a destinazione a causa delle enormi difficoltà di consegna. La situazione si aggrava dopo il blocco navale imposto a Germania ed Austria, poiché, con i civili che muoiono letteralmente di fame, le già misere razioni di cibo distribuito ai prigionieri (1.000 calorie giornaliere) subiscono una drastica riduzione. Centomila prigionieri italiani muoiono di freddo, per malattie infettive scatenate dalle spaventose condizioni igienico-sanitarie delle baracche o per “esaurimento organico”. Sei sono di Sant’Eufemia.
Il racconto di Rostislav aggiunge particolari a quanto riportato dai documenti ufficiali e rivela il motivo per cui suo padre riesce a sopravvivere dopo l’imprigionamento nel campo di Mauthausen. Nella località che diventerà tristemente nota nel secondo conflitto mondiale Pietropaolo rimane infatti internato per poco tempo, poiché i sarti e i calzolai vengono quasi subito trasferiti a Brno, in una fabbrica che si occupa della riparazione delle divise militari. Il rancio rimane scarso, ma alcuni colleghi di lavoro autoctoni forniscono di nascosto generi alimentari extra; inoltre, i prigionieri-operai si arrangiano sottraendo dal deposito stivali che di notte scambiano con i contadini del posto, in cambio di qualcosa da mangiare.
Per questioni burocratiche Pietropaolo non viene raggiunto subito dalla moglie Nicoletta Gioffrè (classe 1891, figlia di Generoso e Grazia Maria Tripodi), “ricamatrice” che aveva sposato a Sant’Eufemia l’11 ottobre 1913 e dalla quale aveva avuto una figlia, Teresa (classe 1914). Il ricongiungimento avviene un paio d’anni dopo la fine della guerra e in Cecoslovacchia Nicoletta dà alla luce altri due figli: Josef (classe 1923), futuro ufficiale dell’esercito, dal quale verrà espulso dopo la “Primavera di Praga”; e, appunto, Rostislav, il cui nome – suggerito dal parroco e dalla madrina di battesimo – è un omaggio (nonostante il refuso) al duca e poi re di Boemia Vratislav II, che nell’XI secolo aveva introdotto il culto dei santi Pietro e Paolo e fatto costruire a Praga l’omonima Basilica. Vincenzo si dedica con successo alla sua professione di calzolaio e avvia un laboratorio artigianale nel quale trova impiego un buon numero di operai: lo stesso Rostislav vi lavora a lungo, prima di decidere – in età matura, di completare gli studi per potersi iscrivere all’università. Anche lui ha qualche problema con le autorità governative nel corso del Sessantotto cecoslovacco: tuttavia, dopo il conseguimento del dottorato, lavora come ricercatore presso l’Accademia delle Scienze di Praga e fonda l’associazione “Amici dell’Italia”, con sedi sparse su tutto il territorio cecoslovacco e circa 6.000 iscritti. L’associazione organizza corsi di lingua italiana e promuove lo scambio di studenti tra Italia e Cecoslovacchia, in strettissima collaborazione con l’ambasciata italiana a Praga. Per questo suo impegno, con decreto del 30 luglio 2003 Rostislav Pietropaolo viene nominato dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi “Cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà italiana” (oggi: “Ordine della Stella d’Italia”), onorificenza che viene conferita agli italiani all’estero o agli stranieri “che abbiano specialmente contribuito alla ricostruzione dell’Italia”.

giovedì 30 agosto 2018

Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra sulla Gazzetta del Sud

Forgione riscopre la Grande Guerra
Presentato il libro del ricercatore di storia eufemiese

Articolo di Pino Fedele 
Gazzetta del Sud 26 agosto 2018

È stato presentato nei giorni scorsi l’ultimo libro del ricercatore e storico Domenico Forgione Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra, frutto di quattro anni di ricerche condotte sul fondo documentario dei ruoli militari del Distretto di Reggio Calabria (conservato all’Archivio di Stato) e sull’Archivio del Comune di Sant’Eufemia.
Introdotti dalla giornalista Monia Sangermano, che ha moderato i lavori, si sono susseguiti – dopo i saluti istituzionali porti dall’assessore comunale alla Cultura, Teresa Borrello – gli interventi della direttrice dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria, Fortunata Minasi, dell’editore de “Il Rifugio” Antonio Aprile, del giornalista Agostino Pantano ed a conclusione quello dell’autore “Dominic” Forgione.
Il dibattito ha visto la patecipazione non programmata degli scrittori Aldo Coloprisco e Giuseppe Pentimalli e del pittore e scrittore Domenico Antonio Tripodi, più noto come “L’Aspromontano”, che hanno lodato il lavoro di Forgione per l’accuratezza delle ricerche e per l’intento di ricostruire il ruolo del paese nella Grande Guerra.
In tutti gli interventi è stato evidenziato che Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra è destinato a costituire un esempio di sguardo sul passato ed al tempo stesso una finestra sul futuro di Sant’Eufemia in quanto l’autore – è stato affermato durante la presentazione – non ha semplicemente scritto un libro di storia, ma ha costruito una storia visiva.

*La didascalia della foto non è corretta. Da sinistra verso destra: Aprile, Sangermano, Forgione.

sabato 25 agosto 2018

La presentazione del libro come l’ho vista e sentita


Cosa mi rimane della presentazione del libro? Se riavvolgo il nastro e riparto dalla fine, dalla composizione floreale che il giorno dopo ho portato al monumento dei caduti, la prima cosa che penso è che non l’avevo preparata. Non ci avevo pensato prima, ma a ben vedere è stata la cosa più naturale dopo un pomeriggio dedicato alla memoria dei soldati di Sant’Eufemia.
Tutto l’evento si è svolto con una linearità sorprendente, come se un regista ne avesse scritto la sceneggiatura. Ogni cosa al suo posto, ogni parola misurata, incastonata nel quadro di un pomeriggio per me indimenticabile. Eppure gli interventi non erano stati “studiati”. Nessuno di noi sapeva cosa avrebbero detto gli altri, al massimo ne intuiva il tema per grandi linee, in base al profilo dei relatori. Io stesso avevo un foglio con degli appunti da sviluppare, ma credo di averlo fatto soltanto per metà: alla fine, mi mancavano ancora parecchie cose da dire. Un pomeriggio volato via leggero, tra tantissime persone rimaste fino all’ultimo. Attente, coinvolte, emozionate.
Mi interessava legare la piccola storia a quella grande, come con la lettura della poesia di Giuseppe Ungaretti “San Martino del Carso”, un luogo che per gli studenti è il simbolo delle atrocità della guerra. Ma anche il luogo dove, nella stessa giornata (29 giugno 1916), morirono sei soldati di Sant’Eufemia, asfissiati dal fosgene e dal cloro dell’attacco chimico degli austroungarici. Corre una grandissima differenza tra “un” e “il”.
Ripenso alle notti trascorse al computer, spesso “ai computer” perché a lungo ho avuto bisogno di lavorare su due monitor. Sono soddisfatto perché ritengo di avere anche compiuto un atto di giustizia: tirando fuori dall’oblio due vittime della guerra i cui nomi non sono presenti nell’albo dei caduti, né tantomeno sono incisi sul monumento dei caduti (Giuseppe Ierico, Giuseppe Sofo); oppure “consegnando” alle rispettive famiglie le cartoline di Giovanni Siviglia e Antonino Sofo, scritte cento anni fa e mai giunte ai propri cari.
È stato toccante leggere l’emozione nei volti degli adulti intervenuti alla fine della presentazione per condividere con il pubblico i propri ricordi familiari. E mi ha riempito il cuore di speranza constatare l’attenzione dei giovani per quelle storie lontane che tanto hanno ancora da raccontare e da insegnare. C’è bisogno di sentirsi comunità e di poterlo rivendicare; di farlo pizzicando le corde giuste, sforzandosi di elevarsi dalla gretta quotidianità. Non esiste altra strada, se vogliamo sopravvivere a questi tempi così tristi.
Ripenso agli incoraggiamenti e all’attesa suscitati dagli “aggiornamenti” che ogni tanto pubblicavo sul mio profilo facebook: mi sono stati di grande aiuto. Non perché temessi di non farcela. La ricerca è stata lunga ma non pesante: niente è pesante quando si fa ciò che si ama. Ma è stato importante avvertire l’interesse di tante persone nei confronti del lavoro che stavo portando avanti.
I tanti messaggi ricevuti dopo la presentazione mi lusingano come uomo e come cittadino del mio paese, ancor prima che come studioso.
Tutto si tiene. Bisogna riuscire ad assecondare la propria indole, a coltivare le proprie passioni: scrivere, dipingere, recitare, suonare, cantare, ballare, praticare sport o qualsiasi altra attività. Se si fa del bene a se stessi, ci sono buone probabilità di fare del bene anche alla comunità nella quale si vive.

 

lunedì 20 agosto 2018

Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra – L’intervista al blog “Pont’i carta”



Ringrazio Pont’iCarta per questa intervista nella quale racconto il “dietro le quinte” di “Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra”. Colgo anche l’occasione per rinnovare a tutti l’invito per la presentazione del libro, mercoledì 22, alle ore 17.30. Se il meteo ce lo consentirà ci vedremo alla pineta comunale, altrimenti presso la sala consiliare del comune. Vi aspetto!

Nei giorni scorsi abbiamo incontrato Domenico Forgione per parlare della sua ultima fatica letteraria. Si tratta di una ricostruzione dettagliata e ricca di particolari dei protagonisti eufemiesi nella Grande Guerra. Un lavoro di ricerca storica enorme, frutto di un metodo certosino e che ha bisogno veramente di tanta pazienza e passione. “Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra” è il titolo del libro, il che già è un promemoria sul contenuto del testo. Noi, con la nostra intervista abbiamo cercato di capirne di più, perché tra quelle trincee cento anni fa, siamo certi, tutti noi abbiamo lasciato un piccola parte della nostra storia. Buona intervista!

Come hai maturato l’idea del libro? 
Da molti anni mi dedico alla ricostruzione della memoria del nostro paese e delle storie dei suoi protagonisti più o meno illustri, devo ammettere con una leggera preferenza per coloro che per diversi motivi in vita non hanno avuto notorietà: penso che scrivere sia impegno civile e opera di giustizia, di riconoscimento del valore di ogni piccola vicenda umana. Ogni vita, anche quella apparentemente più insignificante contiene una lezione nascosta dalla quale tutti possiamo imparare qualcosa, per questo merita di essere raccontata. Avevo già “sfiorato” il tema della Grande Guerra nel libro sulla toponomastica di Sant’Eufemia d’Aspromonte e già allora mi ero riproposto di scriverne, prima o poi. La molla è però scattata grazie ad un convegno tenuto presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria in occasione dell’apertura degli eventi per la celebrazione del centenario della fine della guerra. In quella circostanza pensai che era giunto il momento di impegnarmi in questa ricerca.

Scrivere un libro di questo tipo è molto complicato, soprattutto dal punto di vista delle fonti e dei confronti storici tra periodi diversi della Grande Guerra. Ci spieghi come hai utilizzato le fonti e il materiale storico a tua disposizione?
La prima guerra mondiale, per quanto sia un argomento al quale studiosi e memorialisti hanno sempre prestato molta attenzione, rimane un periodo storico nel quale a predominare è l’avverbio “circa”: per l’Italia, circa 650.000 caduti, un milione circa di feriti e 600.000 circa tra prigionieri e dispersi. Le sue cifre sono difficili da calcolare con esattezza, perché i dati a disposizione sono incompleti e a volte incongruenti. Ho intrecciato informazioni provenienti da più fonti per cercare di avvicinarmi quanto più possibile al dato reale: alla fine sono riuscito a ricostruire, più o meno approfonditamente, le vicende che interessarono 580 giovani di Sant’Eufemia. Dovrebbero mancare all’appello circa venti-trenta soldati (ecco che torna l’avverbio “circa”), per i quali o non è rimasta traccia, o queste tracce erano troppo flebili. La documentazione che ho utilizzato proviene dal fondo dell’Ufficio notizie dei militari della provincia di Reggio Calabria e da quello dei ruoli matricolari dei soldati, entrambi custoditi presso l’Archivio di Reggio Calabria, che ho esaminato per intero alla ricerca dei soldati di Sant’Eufemia. All’Ufficio anagrafe di Sant’Eufemia ho consultato i registri delle nascite, per le opportune verifiche su date di nascita, casi di omonimia e per individuare anche i nomi dei genitori di ogni militare, non sempre presenti nei documenti a disposizione. Ho inoltre spulciato gli atti di morte, utili per riportare in maniera precisa la data, le cause, il luogo del decesso e di sepoltura dei caduti. Per completare i medaglioni biografici ho infine incrociato i dati raccolti con quelli del sistema sanitario e con i riassunti storici dei corpi e dei comandi: questa operazione mi ha consentito di stabilire i luoghi esatti e i periodi di permanenza di ogni soldato sui fronti di guerra, i ricoveri e le convalescenze per ferite o malattie. I cinque grafici pubblicati nell’appendice del libro illustrano in sintesi le cifre della partecipazione eufemiese alla prima guerra mondiale.

I ragazzi di allora fecero l’Italia senza saperlo?
Certamente la Prima guerra mondiale rappresenta il primo passo del processo di nazionalizzazione delle masse che caratterizza, non solo in Italia, la prima metà del Novecento. Quei ragazzi “fecero” l’Italia nel freddo, nella fame e nella sporcizia delle trincee: lì matura il seme di un sentimento nazionale, tra soldati che spesso fanno fatica a comunicare tra di loro perché ognuno parla il dialetto del proprio luogo di origine. Da questo punto di vista la Grande Guerra chiude il processo risorgimentale: difatti, sulla medaglia commemorativa istituita nel 1920 si legge “Guerra per l’Unità d’Italia 1915-1918”. È altrettanto vero che soldati per lo più analfabeti non potevano avere una sviluppata coscienza politica, né erano al corrente di quello che stava succedendo in tutta Europa. Il loro mondo era molto più ristretto: una delle maggiori preoccupazioni, ad esempio, era riuscire a farsi concedere una licenza nei periodi in cui c’era più bisogno di braccia nei campi, per la semina o per il raccolto.

A 100 anni dalla Grande Guerra, la memoria storica gioca un ruolo nella vita culturale nostrana?
La memoria storica è una pianta che va innaffiata di continuo affinché non appassisca. Dalle reazioni agli articoli di storia scritti per il mio blog deduco che i lettori desiderano conoscere il proprio passato, sentirsi parte di una storia comune, ricercare i tratti di un’identità collettiva. In generale però mi sembra che oggi ci si scontri con due ordini di problemi. Il primo è dato dalla scarsa attenzione che purtroppo a tutti i livelli si registra nella destinazione di fondi per la cultura. Fare ricerca comporta un dispendio di risorse al quale in genere non corrisponde alcuna gratificazione economica. Per tale ragione la ricerca rimane sostanzialmente confinata in ambiti ristretti: chi vive fuori dai circuiti accademici può fare leva esclusivamente sulle proprie forze. Il secondo problema ha a che fare con le conseguenze della odierna e diffusa tendenza “de-specialistica”: con lo sforzo di un clic oggi tutti riteniamo di essere medici, avvocati e, di conseguenza, anche storici. Ma la ricerca storica richiede senso di responsabilità, rigore nello studio e nella metodologia, approccio scientifico.

Gli ultimi due versi del Piave dicono “la Pace non trovò né oppressi né stranieri”: oggi si parla molto di stranieri e poco di oppressi, siamo davvero in pace? 
Come nella Bisanzio di Guccini, viviamo sospesi tra due mondi e tra due ere. Ci stiamo lasciando alle spalle l’epoca del Novecento, ma ancora non si è capito bene cosa ci riserverà il XXI secolo. Da qui il senso di spaesamento e di disagio che proviamo in questo tempo di mezzo, irto di contraddizioni e di problematiche complesse che l’ondata di populismo attuale non sembra in grado di affrontare concretamente, al di fuori di una prospettiva propagandistica, tanto strumentale quanto inconcludente. Si parla molto di stranieri e poco di oppressi, è vero. Ma io credo che valga sempre il monito di don Milani: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri».

Hai scritto tanti libri sulla storia di Sant’Eufemia, ma credo che questo sia quello che più di tutti possa entrare nell’intimo di molte storie paesane, magari dimenticate. Una sorta di moto continuo e di linea parallela che lega nonni e nipoti, madri e figli. Senti che anche per te è così, e cosa ti aspetti da questo libro? 
Sì, il significato ultimo di queste pagine risiede proprio nel filo rosso che lega fatti ignoti e lontani nel tempo con il presente. Siamo figli anche di quelle storie di fango e di freddo, di viltà e di coraggio, di inconscio senso del dovere nei confronti di una patria non sempre benevola con il Sud e con la sua povera gente. Mi sono emozionato nel ricostruire la vicenda militare, che in famiglia non conoscevamo, del mio bisnonno materno Carmine Candido, sul cui foglio matricolare ho potuto leggere l’encomio solenne ricevuto per una ferita riportata durante un assalto alle trincee nemiche a Bosco Triangolare, nel corso della Seconda battaglia dell’Isonzo. Mi auguro che i lettori provino la stessa emozione davanti alle proprie storie familiari e che le sofferenze patite da questi soldati facciano riflettere sulla barbarie di ogni guerra.

domenica 5 agosto 2018

La colonia estiva dell'Agape


Anche questa è andata. È la frase che ci ripetiamo ogni anno, dopo avere riaccompagnato a casa l’ultimo dei nostri amici. Significa che tutto è andato bene, che piccoli e inevitabili contrattempi sono stati superati senza particolari difficoltà, che i ragazzi si sono divertiti e noi pure. Possiamo rilassarci, perché inevitabilmente la responsabilità un po’ si sente. Ma è proprio quella una fonte di gratificazione, perché 12 ragazzi che hanno comunque bisogno di particolare attenzione sono stati affidati alle nostre braccia e alla nostra esperienza.
Quest’anno si sono registrati graditi ritorni sia tra gli assistiti che tra i volontari. Anche il meteo ci è stato amico, tanto che non si è dovuto rinunciare nemmeno ad un giorno di mare. Certo, un po’ di magone alla fine c’è: alcuni dei nostri ragazzi per quest’anno non torneranno più in spiaggia e, come noi, aspetteranno la prossima estate per schizzare acqua, giocare con la palla, stare sdraiati sotto l’ombrellone, raccogliere sassi colorati. Si vorrebbe fare di più, si dovrebbe fare di più, ma si fa quel che si può per mantenere un’iniziativa importante che – è bello ricordarlo – la comunità eufemiese sostiene da sempre.
La sostiene in tanti modi. Ad esempio quest’anno ci ha fatto emozionare il meccanico che ha eseguito alcuni lavori sul pulmino senza volere essere pagato: «Pe’ figghioli» – la sua risposta quando gli abbiamo chiesto quanto gli dovessimo. E non dimentichiamo (anzi cogliamo l’occasione per ringraziare) i tanti amici dell’Agape che a fine anno partecipano al “veglione di solidarietà”, finalizzato proprio alla raccolta di fondi che poi vengono spesi soprattutto per l’organizzazione della colonia estiva.
Due le novità, molto positive e apprezzate. La collaborazione con la Scuola dell’infanzia cattolica “Padre Annibale” ci ha consentito infatti di avere la disponibilità di un secondo pulmino, che ha ridotto di parecchio il ricorso alle macchine dei volontari; quella con il liceo scientifico “E. Fermi” ha invece fatto provare l’esperienza del volontariato a diversi studenti che si sono rivelati di grande aiuto per l’associazione. La speranza è che il seme piantato cresca e che la cultura del volontariato si diffonda sempre di più tra i giovani del nostro paese.
Per stare bene bisogna saper trovare la gioia nelle cose apparentemente piccole: la ragazza che torna appositamente dalla struttura di Cosenza dove vive per venire al mare con noi; quella che dopo un anno di pausa ci ha messo nuovamente allegria cantando “Azzurro”; il bambino che ha realizzato il sogno di toccare la boa grazie ai due volontari che l’hanno portato dentro aggrappato al collo; tutti gli altri che in una settimana hanno riempito le nostre vite con il loro affetto.
Che colore ha la felicità? L’azzurro del mare e del cielo, con il sottofondo di un vociare allegro.

sabato 28 luglio 2018

Chiedi chi erano i Wood



Nell’estate del 1969 c’era stato il festival di Woodstock, la tre giorni di musica più celebrata della storia, mentre negli anni Settanta la band inglese “The Who” passava da un successo all’altro. Influenze che arrivano in provincia con qualche anno di ritardo, ma con un’immutata carica di rivoluzionare costumi e tendenze di una società che il ’68 aveva stravolto. Riguardando a quegli anni balza evidente che il desiderio di cambiare il mondo era uguale per i giovani di Milano, Berkeley o Sant’Eufemia d’Aspromonte. I più impegnati erano attivi nelle scuole, nelle università e sui luoghi di lavoro. Poi c’era chi “faceva politica” con comportamenti individuali trasgressivi, spesso non compresi da una comunità che restava fondamentalmente arretrata, incapace di avvertire il vento di un cambiamento epocale. Minigonne e capelli lunghi non passavano inosservati in un paesino dell’Aspromonte: eppure ci furono ragazzi e ragazze che “sfidarono” genitori e benpensanti in nome di una libertà che era anche quella di vestirsi a proprio piacimento.
La musica diventa il grimaldello per scardinare vecchie convenzioni; le note, ali sulle quali fare volare il sogno di un mondo governato dalla fantasia, dalla bellezza, dall’amore. È il periodo d’oro per i complessi musicali, che si costituiscono un po’ ovunque e consentono inedite opportunità di incontro e relazione tra i due sessi.
Nascono così a Sant’Eufemia nel 1973 i “Wood”, il cui nome è un omaggio al paesaggio locale e, per assonanza, un richiamo esplicito al gruppo di Pete Townshend. La formazione iniziale è composta da Cosimo Luppino (chitarra elettrica e voce), Totò Orlando (tastiere), Natale Condello (batteria), Armando Calabrò (basso), ai quali in un secondo momento si unisce Mimmo Lupoi (chitarra acustica e voce). Qualche anno prima avevano in realtà segnato il cammino i “Pupi 32”, fondati dai cugini Pupo (entrambi sedicenni, da cui il nome): Vincenzo alla chitarra, Mimmo alla tastiera e voce, Cecè Tripodi al basso, Cesare Bille alla batteria. I Wood raccolgono però l’eredità di un altro gruppo, i Sud Boys (o Ragazzi del Sud): Luigi Nolgo (voce), Saverio Infantino (chitarra), Pino Fiorentino (chitarra da accompagnamento), Gaetano Chirico (batteria), Totò Orlando (tastiere) e, nella fase finale, Cosimo Luppino. Saranno proprio questi ultimi due a fare da trait d’union tra Sud Boys e The Wood, dopo le defezioni di coloro che per motivi di studio o di lavoro sono costretti ad andare via dal paese.
Totò Orlando è il componente che ha più familiarità con note e spartiti per via del genitore, il Maestro Vincenzo Orlando, clarinettista uscito dal conservatorio di San Pietro a Majella, anche se il colpo di fulmine, in lui, scocca ascoltando il suono della tastiera dei Pupi 32. Cosimo Luppino è un eclettico chitarrista infatuato di Carlos Santana, le corde della sua Gibson SG Custom “diavoletto” sprigionano sonorità che toccano l’anima. Natale Condello, che si innamora della batteria assistendo alle prove dei Sud Boys nel “basso” di don Pepè Chirico (medico condotto, papà di Gaetano), racimola fortunosamente una Hollywood Meazzi d’ennesima mano a Messina. Armando Calabrò, che come Mimmo Lupoi è di Sinopoli, porta in dote il basso dal disciolto gruppo musicale “Angeli azzurri”.
La band è composta da “bufali” e “locomotive”. I primi (Luppino, Condello) suonano ad orecchio, si lasciano trascinare dall’istinto, azzardano soluzioni creative: come il bufalo di De Gregori scartano di lato e per questo, ogni tanto, cadono. I secondi (Orlando, Calabrò) sono fedeli esecutori dello spartito, locomotive dalla strada segnata. La forza del gruppo è nell’equilibrio tra queste due spinte, l’estro di Luppino ricondotto da Orlando a struttura musicale ordinata.
Il repertorio dei ragazzi, nazionale e internazionale, viene costantemente arricchito dalle musicassette pirata acquistate nel mercato domenicale e dall’ascolto religioso di programmi radiofonici che divulgano le novità musicali del momento: “Per voi giovani”, condotto tra gli altri da Carlo Massarini e Raffaele Cascone; “Supersonic” (Tullio Grazzini), “Pop-Off” (Maria Laura Giulietti, Massarini, Cascone e altri).
Mimmo Lupoi incrementa le soluzioni artistiche e la scaletta del gruppo, ma soprattutto consente un salto di qualità significativo con l’acquisto di un impianto voce Montarbo da 700 watt, per quei tempi e in quel contesto un vero e proprio lusso. Come i loro predecessori i Wood suonano in paese e nel circondario, in occasione di serate danzanti, veglioni di capodanno, matrimoni e feste. Le trasferte sono avventurose: su un pulmino Volkwagen noleggiato oppure stipati dentro un’unica vettura, propria o di fortuna quando riescono a strappare un passaggio. Sono ragazzi pieni di vita che al di là delle esibizioni sul palco fanno musica estemporanea, correndo a sperimentare per ore ed ore nuove soluzioni, quando non tirano tardi in piazza con chitarre e bongo, aggiungendo un pizzico di magia al cielo stellato dell’estate eufemiese. Qualcuno storce il naso («Che fanno questi?»), altri approvano quella sana goliardia che li spinge a parlare con un’inflessione nordica in un concerto tenuto a Gallico, pubblicizzato con una locandina geniale: “per la prima volta in Calabria”. Per una settimana, a Delianuova curano l’accompagnamento dei concorrenti dello “Zecchino Deliese”, ma eseguono anche brani propri, rifacendosi all’esperienza dei Sud Boys che qualche anno prima avevano organizzato nei locali del cinema di Sant’Eufemia un partecipatissimo festival per ragazzi.
Ogni tanto qualcuno passa a trovarli mentre provano nel primo piano che si affaccia sulla centralissima via Maggiore Cutrì. Dall’altro lato della strada c’è la sede della camera del lavoro e da lì accorre ebbro di gioia il segretario Vincenzo Gentiluomo (“u brigghiu”), per la storica vittoria del partito comunista e l’elezione a sindaco del professore Peppino Pentimalli: «Abbiamo vinto! Abbiamo un sindaco comunista! Suonate bandiera rossa!» – la richiesta, esaudita, mentre sotto una folla festante canta l’inno dei lavoratori.
La storia dei Wood è un’esperienza che si esaurisce quando prendono il sopravvento le necessità materiali dei suoi componenti, alcuni dei quali sono costretti all’emigrazione. Una parentesi esistenziale che tuttavia chiarisce la visione di una generazione, affascinata dallo spazio sconfinato della prateria e dal sogno inteso – alla Ivano Fossati – come elemento fondamentale della vita di ogni giovane: “un tempo bellissimo, tutto sudato, una stagione ribelle […]; un tempo sognato, che bisognava sognare”.