giovedì 30 agosto 2018

Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra sulla Gazzetta del Sud

Forgione riscopre la Grande Guerra
Presentato il libro del ricercatore di storia eufemiese

Articolo di Pino Fedele 
Gazzetta del Sud 26 agosto 2018

È stato presentato nei giorni scorsi l’ultimo libro del ricercatore e storico Domenico Forgione Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra, frutto di quattro anni di ricerche condotte sul fondo documentario dei ruoli militari del Distretto di Reggio Calabria (conservato all’Archivio di Stato) e sull’Archivio del Comune di Sant’Eufemia.
Introdotti dalla giornalista Monia Sangermano, che ha moderato i lavori, si sono susseguiti – dopo i saluti istituzionali porti dall’assessore comunale alla Cultura, Teresa Borrello – gli interventi della direttrice dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria, Fortunata Minasi, dell’editore de “Il Rifugio” Antonio Aprile, del giornalista Agostino Pantano ed a conclusione quello dell’autore “Dominic” Forgione.
Il dibattito ha visto la patecipazione non programmata degli scrittori Aldo Coloprisco e Giuseppe Pentimalli e del pittore e scrittore Domenico Antonio Tripodi, più noto come “L’Aspromontano”, che hanno lodato il lavoro di Forgione per l’accuratezza delle ricerche e per l’intento di ricostruire il ruolo del paese nella Grande Guerra.
In tutti gli interventi è stato evidenziato che Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra è destinato a costituire un esempio di sguardo sul passato ed al tempo stesso una finestra sul futuro di Sant’Eufemia in quanto l’autore – è stato affermato durante la presentazione – non ha semplicemente scritto un libro di storia, ma ha costruito una storia visiva.

*La didascalia della foto non è corretta. Da sinistra verso destra: Aprile, Sangermano, Forgione.

sabato 25 agosto 2018

La presentazione del libro come l’ho vista e sentita


Cosa mi rimane della presentazione del libro? Se riavvolgo il nastro e riparto dalla fine, dalla composizione floreale che il giorno dopo ho portato al monumento dei caduti, la prima cosa che penso è che non l’avevo preparata. Non ci avevo pensato prima, ma a ben vedere è stata la cosa più naturale dopo un pomeriggio dedicato alla memoria dei soldati di Sant’Eufemia.
Tutto l’evento si è svolto con una linearità sorprendente, come se un regista ne avesse scritto la sceneggiatura. Ogni cosa al suo posto, ogni parola misurata, incastonata nel quadro di un pomeriggio per me indimenticabile. Eppure gli interventi non erano stati “studiati”. Nessuno di noi sapeva cosa avrebbero detto gli altri, al massimo ne intuiva il tema per grandi linee, in base al profilo dei relatori. Io stesso avevo un foglio con degli appunti da sviluppare, ma credo di averlo fatto soltanto per metà: alla fine, mi mancavano ancora parecchie cose da dire. Un pomeriggio volato via leggero, tra tantissime persone rimaste fino all’ultimo. Attente, coinvolte, emozionate.
Mi interessava legare la piccola storia a quella grande, come con la lettura della poesia di Giuseppe Ungaretti “San Martino del Carso”, un luogo che per gli studenti è il simbolo delle atrocità della guerra. Ma anche il luogo dove, nella stessa giornata (29 giugno 1916), morirono sei soldati di Sant’Eufemia, asfissiati dal fosgene e dal cloro dell’attacco chimico degli austroungarici. Corre una grandissima differenza tra “un” e “il”.
Ripenso alle notti trascorse al computer, spesso “ai computer” perché a lungo ho avuto bisogno di lavorare su due monitor. Sono soddisfatto perché ritengo di avere anche compiuto un atto di giustizia: tirando fuori dall’oblio due vittime della guerra i cui nomi non sono presenti nell’albo dei caduti, né tantomeno sono incisi sul monumento dei caduti (Giuseppe Ierico, Giuseppe Sofo); oppure “consegnando” alle rispettive famiglie le cartoline di Giovanni Siviglia e Antonino Sofo, scritte cento anni fa e mai giunte ai propri cari.
È stato toccante leggere l’emozione nei volti degli adulti intervenuti alla fine della presentazione per condividere con il pubblico i propri ricordi familiari. E mi ha riempito il cuore di speranza constatare l’attenzione dei giovani per quelle storie lontane che tanto hanno ancora da raccontare e da insegnare. C’è bisogno di sentirsi comunità e di poterlo rivendicare; di farlo pizzicando le corde giuste, sforzandosi di elevarsi dalla gretta quotidianità. Non esiste altra strada, se vogliamo sopravvivere a questi tempi così tristi.
Ripenso agli incoraggiamenti e all’attesa suscitati dagli “aggiornamenti” che ogni tanto pubblicavo sul mio profilo facebook: mi sono stati di grande aiuto. Non perché temessi di non farcela. La ricerca è stata lunga ma non pesante: niente è pesante quando si fa ciò che si ama. Ma è stato importante avvertire l’interesse di tante persone nei confronti del lavoro che stavo portando avanti.
I tanti messaggi ricevuti dopo la presentazione mi lusingano come uomo e come cittadino del mio paese, ancor prima che come studioso.
Tutto si tiene. Bisogna riuscire ad assecondare la propria indole, a coltivare le proprie passioni: scrivere, dipingere, recitare, suonare, cantare, ballare, praticare sport o qualsiasi altra attività. Se si fa del bene a se stessi, ci sono buone probabilità di fare del bene anche alla comunità nella quale si vive.

 

lunedì 20 agosto 2018

Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra – L’intervista al blog “Pont’i carta”



Ringrazio Pont’iCarta per questa intervista nella quale racconto il “dietro le quinte” di “Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra”. Colgo anche l’occasione per rinnovare a tutti l’invito per la presentazione del libro, mercoledì 22, alle ore 17.30. Se il meteo ce lo consentirà ci vedremo alla pineta comunale, altrimenti presso la sala consiliare del comune. Vi aspetto!

Nei giorni scorsi abbiamo incontrato Domenico Forgione per parlare della sua ultima fatica letteraria. Si tratta di una ricostruzione dettagliata e ricca di particolari dei protagonisti eufemiesi nella Grande Guerra. Un lavoro di ricerca storica enorme, frutto di un metodo certosino e che ha bisogno veramente di tanta pazienza e passione. “Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra” è il titolo del libro, il che già è un promemoria sul contenuto del testo. Noi, con la nostra intervista abbiamo cercato di capirne di più, perché tra quelle trincee cento anni fa, siamo certi, tutti noi abbiamo lasciato un piccola parte della nostra storia. Buona intervista!

Come hai maturato l’idea del libro? 
Da molti anni mi dedico alla ricostruzione della memoria del nostro paese e delle storie dei suoi protagonisti più o meno illustri, devo ammettere con una leggera preferenza per coloro che per diversi motivi in vita non hanno avuto notorietà: penso che scrivere sia impegno civile e opera di giustizia, di riconoscimento del valore di ogni piccola vicenda umana. Ogni vita, anche quella apparentemente più insignificante contiene una lezione nascosta dalla quale tutti possiamo imparare qualcosa, per questo merita di essere raccontata. Avevo già “sfiorato” il tema della Grande Guerra nel libro sulla toponomastica di Sant’Eufemia d’Aspromonte e già allora mi ero riproposto di scriverne, prima o poi. La molla è però scattata grazie ad un convegno tenuto presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria in occasione dell’apertura degli eventi per la celebrazione del centenario della fine della guerra. In quella circostanza pensai che era giunto il momento di impegnarmi in questa ricerca.

Scrivere un libro di questo tipo è molto complicato, soprattutto dal punto di vista delle fonti e dei confronti storici tra periodi diversi della Grande Guerra. Ci spieghi come hai utilizzato le fonti e il materiale storico a tua disposizione?
La prima guerra mondiale, per quanto sia un argomento al quale studiosi e memorialisti hanno sempre prestato molta attenzione, rimane un periodo storico nel quale a predominare è l’avverbio “circa”: per l’Italia, circa 650.000 caduti, un milione circa di feriti e 600.000 circa tra prigionieri e dispersi. Le sue cifre sono difficili da calcolare con esattezza, perché i dati a disposizione sono incompleti e a volte incongruenti. Ho intrecciato informazioni provenienti da più fonti per cercare di avvicinarmi quanto più possibile al dato reale: alla fine sono riuscito a ricostruire, più o meno approfonditamente, le vicende che interessarono 580 giovani di Sant’Eufemia. Dovrebbero mancare all’appello circa venti-trenta soldati (ecco che torna l’avverbio “circa”), per i quali o non è rimasta traccia, o queste tracce erano troppo flebili. La documentazione che ho utilizzato proviene dal fondo dell’Ufficio notizie dei militari della provincia di Reggio Calabria e da quello dei ruoli matricolari dei soldati, entrambi custoditi presso l’Archivio di Reggio Calabria, che ho esaminato per intero alla ricerca dei soldati di Sant’Eufemia. All’Ufficio anagrafe di Sant’Eufemia ho consultato i registri delle nascite, per le opportune verifiche su date di nascita, casi di omonimia e per individuare anche i nomi dei genitori di ogni militare, non sempre presenti nei documenti a disposizione. Ho inoltre spulciato gli atti di morte, utili per riportare in maniera precisa la data, le cause, il luogo del decesso e di sepoltura dei caduti. Per completare i medaglioni biografici ho infine incrociato i dati raccolti con quelli del sistema sanitario e con i riassunti storici dei corpi e dei comandi: questa operazione mi ha consentito di stabilire i luoghi esatti e i periodi di permanenza di ogni soldato sui fronti di guerra, i ricoveri e le convalescenze per ferite o malattie. I cinque grafici pubblicati nell’appendice del libro illustrano in sintesi le cifre della partecipazione eufemiese alla prima guerra mondiale.

I ragazzi di allora fecero l’Italia senza saperlo?
Certamente la Prima guerra mondiale rappresenta il primo passo del processo di nazionalizzazione delle masse che caratterizza, non solo in Italia, la prima metà del Novecento. Quei ragazzi “fecero” l’Italia nel freddo, nella fame e nella sporcizia delle trincee: lì matura il seme di un sentimento nazionale, tra soldati che spesso fanno fatica a comunicare tra di loro perché ognuno parla il dialetto del proprio luogo di origine. Da questo punto di vista la Grande Guerra chiude il processo risorgimentale: difatti, sulla medaglia commemorativa istituita nel 1920 si legge “Guerra per l’Unità d’Italia 1915-1918”. È altrettanto vero che soldati per lo più analfabeti non potevano avere una sviluppata coscienza politica, né erano al corrente di quello che stava succedendo in tutta Europa. Il loro mondo era molto più ristretto: una delle maggiori preoccupazioni, ad esempio, era riuscire a farsi concedere una licenza nei periodi in cui c’era più bisogno di braccia nei campi, per la semina o per il raccolto.

A 100 anni dalla Grande Guerra, la memoria storica gioca un ruolo nella vita culturale nostrana?
La memoria storica è una pianta che va innaffiata di continuo affinché non appassisca. Dalle reazioni agli articoli di storia scritti per il mio blog deduco che i lettori desiderano conoscere il proprio passato, sentirsi parte di una storia comune, ricercare i tratti di un’identità collettiva. In generale però mi sembra che oggi ci si scontri con due ordini di problemi. Il primo è dato dalla scarsa attenzione che purtroppo a tutti i livelli si registra nella destinazione di fondi per la cultura. Fare ricerca comporta un dispendio di risorse al quale in genere non corrisponde alcuna gratificazione economica. Per tale ragione la ricerca rimane sostanzialmente confinata in ambiti ristretti: chi vive fuori dai circuiti accademici può fare leva esclusivamente sulle proprie forze. Il secondo problema ha a che fare con le conseguenze della odierna e diffusa tendenza “de-specialistica”: con lo sforzo di un clic oggi tutti riteniamo di essere medici, avvocati e, di conseguenza, anche storici. Ma la ricerca storica richiede senso di responsabilità, rigore nello studio e nella metodologia, approccio scientifico.

Gli ultimi due versi del Piave dicono “la Pace non trovò né oppressi né stranieri”: oggi si parla molto di stranieri e poco di oppressi, siamo davvero in pace? 
Come nella Bisanzio di Guccini, viviamo sospesi tra due mondi e tra due ere. Ci stiamo lasciando alle spalle l’epoca del Novecento, ma ancora non si è capito bene cosa ci riserverà il XXI secolo. Da qui il senso di spaesamento e di disagio che proviamo in questo tempo di mezzo, irto di contraddizioni e di problematiche complesse che l’ondata di populismo attuale non sembra in grado di affrontare concretamente, al di fuori di una prospettiva propagandistica, tanto strumentale quanto inconcludente. Si parla molto di stranieri e poco di oppressi, è vero. Ma io credo che valga sempre il monito di don Milani: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri».

Hai scritto tanti libri sulla storia di Sant’Eufemia, ma credo che questo sia quello che più di tutti possa entrare nell’intimo di molte storie paesane, magari dimenticate. Una sorta di moto continuo e di linea parallela che lega nonni e nipoti, madri e figli. Senti che anche per te è così, e cosa ti aspetti da questo libro? 
Sì, il significato ultimo di queste pagine risiede proprio nel filo rosso che lega fatti ignoti e lontani nel tempo con il presente. Siamo figli anche di quelle storie di fango e di freddo, di viltà e di coraggio, di inconscio senso del dovere nei confronti di una patria non sempre benevola con il Sud e con la sua povera gente. Mi sono emozionato nel ricostruire la vicenda militare, che in famiglia non conoscevamo, del mio bisnonno materno Carmine Candido, sul cui foglio matricolare ho potuto leggere l’encomio solenne ricevuto per una ferita riportata durante un assalto alle trincee nemiche a Bosco Triangolare, nel corso della Seconda battaglia dell’Isonzo. Mi auguro che i lettori provino la stessa emozione davanti alle proprie storie familiari e che le sofferenze patite da questi soldati facciano riflettere sulla barbarie di ogni guerra.

domenica 5 agosto 2018

La colonia estiva dell'Agape


Anche questa è andata. È la frase che ci ripetiamo ogni anno, dopo avere riaccompagnato a casa l’ultimo dei nostri amici. Significa che tutto è andato bene, che piccoli e inevitabili contrattempi sono stati superati senza particolari difficoltà, che i ragazzi si sono divertiti e noi pure. Possiamo rilassarci, perché inevitabilmente la responsabilità un po’ si sente. Ma è proprio quella una fonte di gratificazione, perché 12 ragazzi che hanno comunque bisogno di particolare attenzione sono stati affidati alle nostre braccia e alla nostra esperienza.
Quest’anno si sono registrati graditi ritorni sia tra gli assistiti che tra i volontari. Anche il meteo ci è stato amico, tanto che non si è dovuto rinunciare nemmeno ad un giorno di mare. Certo, un po’ di magone alla fine c’è: alcuni dei nostri ragazzi per quest’anno non torneranno più in spiaggia e, come noi, aspetteranno la prossima estate per schizzare acqua, giocare con la palla, stare sdraiati sotto l’ombrellone, raccogliere sassi colorati. Si vorrebbe fare di più, si dovrebbe fare di più, ma si fa quel che si può per mantenere un’iniziativa importante che – è bello ricordarlo – la comunità eufemiese sostiene da sempre.
La sostiene in tanti modi. Ad esempio quest’anno ci ha fatto emozionare il meccanico che ha eseguito alcuni lavori sul pulmino senza volere essere pagato: «Pe’ figghioli» – la sua risposta quando gli abbiamo chiesto quanto gli dovessimo. E non dimentichiamo (anzi cogliamo l’occasione per ringraziare) i tanti amici dell’Agape che a fine anno partecipano al “veglione di solidarietà”, finalizzato proprio alla raccolta di fondi che poi vengono spesi soprattutto per l’organizzazione della colonia estiva.
Due le novità, molto positive e apprezzate. La collaborazione con la Scuola dell’infanzia cattolica “Padre Annibale” ci ha consentito infatti di avere la disponibilità di un secondo pulmino, che ha ridotto di parecchio il ricorso alle macchine dei volontari; quella con il liceo scientifico “E. Fermi” ha invece fatto provare l’esperienza del volontariato a diversi studenti che si sono rivelati di grande aiuto per l’associazione. La speranza è che il seme piantato cresca e che la cultura del volontariato si diffonda sempre di più tra i giovani del nostro paese.
Per stare bene bisogna saper trovare la gioia nelle cose apparentemente piccole: la ragazza che torna appositamente dalla struttura di Cosenza dove vive per venire al mare con noi; quella che dopo un anno di pausa ci ha messo nuovamente allegria cantando “Azzurro”; il bambino che ha realizzato il sogno di toccare la boa grazie ai due volontari che l’hanno portato dentro aggrappato al collo; tutti gli altri che in una settimana hanno riempito le nostre vite con il loro affetto.
Che colore ha la felicità? L’azzurro del mare e del cielo, con il sottofondo di un vociare allegro.