domenica 29 aprile 2012

Un nuovo genere cinematografico: la fantastoria all'italiana

E ora? Ora che il tribunale di Milano ha stabilito che la tesi della doppia bomba a piazza Fontana è una panzana alla quale non occorre dare alcun credito, come la mettiamo? Ma come può essersi imbarcato in un’operazione così azzardata e discutibile il regista che ha diretto I cento passi? Il film di Marco Tullio Giordana sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura non era ancora uscito nelle sale che già era volato qualche fischio di disapprovazione. E non in nome dell’italica usanza a criticare un film “senza prima di vederlo”, bensì per la bocciatura che in precedenza aveva ricevuto il libro dal quale Romanzo di una strage è liberamente tratto: Il segreto di piazza Fontana, scritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli.
Sulla vicenda di piazza Fontana, come su quella, più complessiva, della strategia della tensione, delle stragi di Stato e degli anni di piombo, la verità storica presenta pochissimi aloni di mistero. Già nel 1974 (“Cos’è un golpe?”, articolo pubblicato sul Corriere della Sera e l’anno successivo inserito tra gli Scritti corsari proprio con il titolo utilizzato da Giordana per il suo film), Pier Paolo Pasolini aveva fatto vibrare alto il suo “io so”, nonostante l’impotenza dell’intellettuale “che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”, ma che in definitiva deve ammettere: “io so, ma non ho le prove”. È sulla verità giudiziaria che lo Stato ha puntualmente fallito, nel solco di una tradizione avviata con la nascita stessa della democrazia in Italia, un filo rosso che lega Portella della Ginestra ai misteri dei nostri giorni. Responsabili della strage del 12 dicembre 1969 (il giorno della “perdita dell’innocenza”) sono i neofascisti di Ordine Nuovo, i servizi segreti deviati e apparati dello Stato che intendevano alzare la tensione per provocare una svolta autoritaria nel Paese. C’è poco da aggiungere a quanto, oltre venti anni fa, Sergio Zavoli aveva fatto emergere nella trasmissione Rai La notte della Repubblica. Il ruolo di Franco Freda e Giovanni Ventura, il gruppo dei fascisti padovani, i servizi segreti e i depistaggi delle indagini, che determinarono la condanna di esponenti apicali del SID.
La tesi della doppia bomba finisce così nella spazzatura, accompagnata da un giudizio lapidario: “assoluta inverosimiglianza”. D’altronde, una teoria che prevedeva la presenza di due bombe (una dimostrativa, che doveva esplodere a banca chiusa; l’altra “vera”, piazzata invece proprio per fare morti) ha qualcosa di incredibile, illogico, per nulla convincente già d’istinto. Difficilmente sarà fatta giustizia per 17 vittime, 88 feriti e centinaia di parenti che ancora convivono con quel ricordo doloroso. All’amarezza e alla rabbia per il trattamento disinvolto e leggero riservato alla verità, si aggiunge anche il senso di beffa per un film che ha avuto un clamoroso battage pubblicitario, che è stato distribuito a tappeto nelle sale di tutta Italia e che approderà sugli schermi televisivi. Una seria riflessione su cinema ed etica dovrebbe chiarire fin dove ci si può spingere quando si ricostruisce “liberamente” una vicenda storica che è una ferita ancora aperta. Alla luce delle parole della procura milanese, sarebbe forse il caso di trasmettere il film con il sottopancia “la tesi della doppia bomba è stata giudicata inverosimile”.

mercoledì 25 aprile 2012

25 aprile, per non dimenticare



La Resistenza e la Liberazione sono nella dignità delle parole con cui Sandro Pertini, il 23 febbraio 1933, si dissocia dalla domanda di grazia presentata dalla madre al Tribunale Speciale:

La comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente.
Non mi associo dunque a simile domanda, perché sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni cosa, della mia stessa vita, mi preme.
Il recluso politico
Sandro Pertini



martedì 24 aprile 2012

Giù le mani da Guccini


Roma è stata imbrattata con manifesti dedicati “Ai ragazzi di Salò” che riportano le parole della canzone con la quale Francesco Guccini, da quarant’anni, chiude ogni suo concerto, La locomotiva (album: Radici, 1972): “gli eroi son tutti giovani e belli”. Il cantautore di Pavana, giustamente, non l’ha presa bene: “non solo la mia canzone La locomotiva non è stata compresa, direi che è stata davvero maltrattata”. La storia, ormai celebre, è quella di un anarchico bolognese vissuto alla fine dell’Ottocento.
Associare quella vicenda alla Repubblica di Salò è una bestemmia storica e un’operazione culturalmente disonesta. Non bisogna mai stancarsi di alcune puntualizzazioni, che diventano doverose per non correre il rischio che il trascorrere degli anni appanni una verità che va custodita e tramandata intatta, in tutta la sua grandezza.
Va bene la pietas per i morti, per tutti coloro che hanno perso la vita nel corso della guerra civile. Ma bisogna ribadire con forza che tra il 1943 e il 1945 c’erano italiani che lottavano per la libertà e italiani che difendevano il nazifascismo. La vittoria del fronte della Resistenza ha portato la democrazia. Quella dei repubblichini avrebbe trasformato l’Italia in un immenso campo di concentramento. L’equazione partigiani = repubblichini, brillante trovata di Luciano Violante ripresa e rilanciata da Giampaolo Pansa, è soltanto un’inaccettabile mistificazione storica.

 

sabato 21 aprile 2012

Le comiche finali

Confesso che mi mancava. Se ci pensate, c’è una tristezza in giro che non se ne può più. Gente che non arriva a fine mese, padri di famiglia disperati, disoccupati che vedono soltanto buio pesto nel loro futuro. E poi questa classe dirigente grigia, triste, vecchia. Un governo di professori, una roba di una noia mortale. Niente a che vedere con lo spettacolo al quale ci aveva abituato Berlusconi in questi ultimi anni. Ma sì, c’è crisi, i consumi si contraggono, ci stanno tartassando di tasse. Ma con lui era diverso. Leggi ad personam, personaggi come Calderoli (quoque tu, “a tua insaputa”), Santanché, Rotondi e compagnia danzante accomodati sulle poltrone governative, fenomeni tirati su direttamente dal limbo, olgettine, meteorine, escort e festini. Tarantini, Fede, Minetti, Mora, Lavitola. Chi non vorrebbe avere amici così? Gente che sa come tirarti su. In ogni senso. Insomma, il divertimento era assicurato. E se un fisiologico calo delle performance faceva inclinare a languore, interveniva lui in prima persona. Bastava una bandana, un “cucù” ad Angela Merkel, una barzelletta sessista ben assestata, un “credevo che fosse la nipote di Mubarak” e tutto tornava nell’ordine naturale delle cose. Ora no. Non si ride più. Giornate intere senza uno sprazzo, un sorriso, un diversivo. Fino a ieri, il momento del grande ritorno. Uno capace di scomparire per mesi, di essere politicamente agonizzante, che riemerge dall’ombra in cui era stato confinato e guadagna la scena travolgendo tutto e tutti, non facendo parlare di niente altro che di sé, è un fenomeno da applaudire. Altro che la più grande novità politica dal 1994, annunciata da Alfano. La più grande novità rimane sempre lui. L’unico capace di risollevare il morale degli italiani, con parole che soltanto un genio può pensare e pronunciare con una naturalezza del genere. Come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo: “facevano delle gare di burlesque”. Dita Von Teese nostrane. Come avevamo fatto a non immaginarlo? Diventa comprensibile un solo, grande rimpianto: avevamo in casa il più grande talento comico del mondo e gli abbiamo tarpato le ali facendolo diventare presidente del consiglio.

giovedì 19 aprile 2012

Tempo scaduto


A volte sembra davvero di stare sul Titanic. La nave sta affondando e l’orchestra continua a suonare imperterrita e ad invitare al ballo, come se niente fosse, senza riuscire a rendersi conto che il tempo è scaduto.
La riforma del finanziamento pubblico dei partiti è diventata la questione centrale del dibattito politico, in questi ultimi giorni. Colpa – anzi, merito – degli scandali che hanno coinvolto l’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, e quello della Lega, Francesco Belsito. La campagna del Corriere della Sera su “politica e trasparenza” cavalca il malcontento (eufemismo) popolare, ricordando in prima pagina i giorni trascorsi dall’impegno dei presidenti delle Camere “per la riforma del finanziamento ai partiti”. E se un giornale solitamente sobrio come il quotidiano di via Solferino comincia a svestire i panni di vigile del fuoco, vuol dire che qualcosa è cambiato anche nell’umore di quel vasto strato di popolazione – moderata, non certo antagonista – che ha guardato con fiducia alla costituzione del governo Monti. La classe politica, more solito, si è chiusa a riccio. Non contenta di avere tradito (usiamo le parole, visto che ci sono) la volontà popolare, che con una maggioranza bulgara (90,3% di Sì) nel 1993 aveva abolito il finanziamento pubblico ai partiti, facendo rientrare dalla finestra, sotto forma di “rimborsi elettorali”, quel che aveva fatto uscire dalla porta, tira fuori le unghie e si arrocca in difesa.
Il pericolo mortale per la democrazia, par di capire, è l’antipolitica. Verissimo. Ma quali sono i confini esatti della demagogia? Quelli stabiliti dagli attuali famelici partiti? Ha cominciato il segretario del Pd, Pierluigi Bersani: “l’onda dell’antipolitica rischia di travolgere tutti”. A ruota, i partiti che sostengono l’attuale maggioranza, con la posizione “ufficiale” contenuta nella relazione alla proposta di legge sulla trasparenza dei bilanci dei partiti: “cancellare del tutto i finanziamenti pubblici sarebbe un errore drammatico”. Buon ultimo, è arrivato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Tutti d’accordo, sulla base di una motivazione pelosetta: altrimenti, “si escludono dalla politica quelli che non hanno soldi”. A parte il fatto che i casi di arricchimento personale verificatisi con i “rimborsi elettorali” non hanno precedenti storici, va detto che la selezione della classe politica segue ormai logiche arcinote. Non è più, per niente, questione di avere una possibilità. Se non fai parte di un certo giro, se non sei tra i favoriti della ristretta oligarchia che nomina deputati e senatori, sei tagliato fuori. E qua sta il vero problema. Quello di una riforma elettorale che tutti, a parole, auspicano, ma che si è sostanzialmente arenata tra le stanze del Parlamento. La classe politica fa finta di non capire che se non restituirà al popolo il potere di scegliersi propri rappresentanti, espone al rischio di implosione l’intero sistema.
Quella che chiamano antipolitica è la manifestazione più evidente, invece, del bisogno di politica. Politica è anche l’urgenza di pulizia e di moralità. L’unico aspetto positivo della legge in discussione, per alcuni, è la previsione di controlli esterni sui bilanci. Cosa che, in realtà, dovrebbe indurre ad un’ulteriore riflessione. Possibile che senza il carabiniere o il finanziere diventi utopia il rispetto della legge? Possibile che i partiti non riescano a darsi un codice di autoregolamentazione serio e a farlo rispettare mediante gli organismi di controllo che i loro statuti pure prevedono, proprio per questo scopo? Tangentopoli non è un ricordo lontano. La situazione attuale ne è la continuazione su di un piano ancora più basso. Perché se là (“rubavo per il partito”) c’era il tentativo di giustificare i costi del sistema dei partiti, qua siamo all’arricchimento individuale, alla casta che si nutre del sangue dei contribuenti per perpetuarsi, sorda e indifferente al “grido di dolore” che sale dalla società.

domenica 15 aprile 2012

Vittorio Arrigoni, un vincitore


È trascorso un anno dall’uccisione di Vittorio Arrigoni, l’attivista dell’International Solidarity Movement, organizzazione non governativa che opera nella Striscia di Gaza in difesa dei diritti umani della popolazione palestinese: sulle ambulanze che soccorrono i feriti degli attacchi dell’esercito israeliano, sulle barche dei pescatori ai quali viene impedito di pescare oltre tre miglia dalla costa (praticamente, dove ci sarebbe qualcosa da pescare), sui terreni agricoli coltivati oltre il limite imposto da Israele.
Circa un mese fa, avevo parlato della vicenda giudiziaria, per la quale ci sono fondati timori che possa concludersi in una farsa e senza la condanna dei responsabili. Oggi però voglio ricordare Vik con le sue parole, da ascoltare dal primo al quarantasettesimo dei minuti di un bel documentario. È un peccato che questo video, fino ad ora, abbia avuto su youtube soltanto 2700 visualizzazioni. Dentro c’è tutto: l’idealismo, l’impegno, la passione, il pacifismo e l’amore. E l’invito, la “firma” di Arrigoni: “restiamo umani”. Si resta umani anche deponendo un fiore sulla tomba di un soldato israeliano all’interno del cimitero delle vittime della seconda guerra mondiale, un gesto accompagnato da parole che si commentano da sole: “Io che non credo alla guerra, non voglio essere seppellito sotto nessuna bandiera. Semmai vorrei essere ricordato per i miei sogni. Dovessi un giorno morire – fra cent’anni – vorrei che sulla mia lapide fosse scritto quello che diceva Nelson Mandela: Un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare. Vittorio Arrigoni: un vincitore”.

sabato 14 aprile 2012

Se non cinquanta, sono comunque molte le cose da fare prima dei dodici anni (e anche dopo)


È di questi giorni il risultato di una ricerca sulle abitudini dei bambini fino a dodici anni (per l’esattezza, undici anni e tre quarti) realizzata per conto del National Trust, ente senza fini di lucro, costituito nel 1895, che ha come mission la tutela e la promozione di alcuni tra i più belli e storici paesaggi inglesi. In Inghilterra, come in gran parte del mondo “civilizzato”, è ormai una rarità incontrare ragazzini che giocano all’aperto, salvo che non siano portati dai genitori o dai nonni in qualche spazio chiuso (pineta, parchi, piazze). Chi ha i capelli bianchi, ma anche soltanto sale e pepe, ha invece avuto un’infanzia e un’adolescenza vissute “on the road”. Interminabili partite di pallone per strada (altro che supplementari: un unico tempo fino al calar del sole); un genere di nascondino (“a tola”) per il quale i limiti territoriali erano dati dai confini geografici dell’intero paese; l’attraversamento del ponte e della galleria ferroviaria a piedi o con le biciclette, tenendo le orecchie ben aperte per correre a perdifiato e rifugiarsi nella “nicchia” appena si sentiva in lontananza la sbuffata della Littorina.
Le cause di questo mutamento sono molteplici, in primo luogo l’eccessiva apprensione di alcuni genitori, che a volte è terrore ingiustificato, visto che, più o meno, ce la siamo cavata tutti. Ma anche i nuovi passatempi, svolti dentro le mura di casa, con una connessione internet o una consolle. La “Playstation Generation” esce pochissimo: neanche uno su dieci gioca frequentemente in spazi aperti, addirittura il 30% non sa andare in bici. Il National Trust ha lanciato la campagna delle “50 cose da fare prima di avere undici anni e tre quarti”, selezionandole da una lista di 400 compilata da una commissione di esperti composta da volontari del proprio staff:


1. Arrampicarsi su un albero
2. Rotolare giù da una grande collina
3. Accamparsi all’aperto
4. Costruire un rifugio
5. Far rimbalzare i sassi sull’acqua
6. Correre sotto la pioggia
7. Far volare un aquilone
8. Pescare con il retino
9. Mangiare una mela appena colta dall’albero
10. Giocare a conker (un gioco tradizionale inglese)
11. Lanciare palle di neve
12. Partecipare a una caccia al tesoro sulla spiaggia
13. Fare una torta di fango
14. Costruire una diga su un ruscello
15. Andare sullo slittino
16. Seppellire qualcuno sotto la sabbia
17. Organizzare una gara di lumache
18. Stare in equilibrio su un albero caduto
19. Dondolarsi da una corda
20. Giocare a scivolare nel fango
21. Mangiare more raccolte dai rovi
22. Guardare dentro un albero
23. Esplorare un’isola
24. Correre a braccia aperte facendo l’aeroplano
25. Fischiare usando un filo d’erba
26. Andare in cerca di fossili e ossa
27. Guardare l’alba
28. Scalare un’enorme collina
29. Visitare una cascata
30. Dar da mangiare a un uccello dalla mano
31. Andare a caccia di insetti
32. Cercare uova di rana
33. Catturare una farfalla con il retino
34. Inseguire animali selvatici
35. Scoprire cosa c’è in uno stagno
36. Richiamare un gufo imitando il suo verso
37. Osservare le strane creature tra le rocce di un lago
38. Allevare una farfalla
39. Dare la caccia a un granchio
40. Fare una passeggiata nel bosco di notte
41. Piantare qualcosa, coltivarla e mangiarla
42. Nuotare in mare, in un fiume, insomma, non in piscina
43. Fare rafting
44. Accendere un fuoco senza fiammiferi
45. Trovare la strada servendosi solo di mappa e bussola
46. Arrampicarsi sui massi
47. Cucinare in campeggio
48. Fare discesa in corda doppia
49. Giocare a geocaching (una caccia al tesoro con il GPS)
50. Andare in canoa su un fiume

Esclusi i giochi tipicamente inglesi, le attività stravaganti (caccia al tesoro con il GPS), quelle obiettivamente improbabili, soprattutto per un dodicenne (accendere il fuoco senza fiammiferi, cucinare in campeggio) e altre abbastanza pericolose (rafting, scendere in corda doppia, pagaiare sul fiume), c’è poco di clamoroso: nuotare, correre, osservare la natura e interagire con essa. Cose del tutto normali, fino a qualche decennio fa. Per molti di noi, gli alberi della vecchia piazza Matteotti erano una seconda casa. Ci trascorrevamo ore e ore, ognuno sul proprio ramo, personalizzato dalla firma incisa sulla corteccia. Senza contare le scorribande su quelli da frutto, qualche volta concluse con fughe spericolate per sfuggire al cane che il proprietario ci sguinzagliava contro, quando non ci rincorreva ascia in pugno.
Nella mia adolescenza ho partecipato alla costruzione di due rifugi. Il nostro mondo in due metri per tre di tavole e lamiere sottratte da qualche cantiere e inchiodate in un posto sicuro: un rifugio, appunto. Ci è capitato spesso di correre sotto la pioggia, non per scelta, ma perché, essendo sempre in giro, il temporale ci poteva sorprendere per strada. Pulcini da spogliare e asciugare col phon. La gioia dell’aquilone (“a pianeta”), realizzato con le canne e la carta dell’uovo di Pasqua, che facevamo volare al campo sportivo, e quella della gara a chi faceva rimbalzare più a lungo i sassi sul mare di Favazzina, quando le labbra viola e le mani rattrappite ammonivano che non si poteva più stare in acqua. È un’età in cui basta poco per divertirsi. Ma forse un tempo bastava ancor meno.

mercoledì 11 aprile 2012

Da “mastru” Nino Spanto

C’è stata un’epoca in cui gli adolescenti non “andavano” a danza, a musica, a scuola calcio, a pallavolo, a inglese e a chi più ne ha più ne metta. Tutte quelle attività che assorbono quasi interamente le ore pomeridiane dei ragazzi, fino a non molto tempo fa, erano pressoché sconosciute. Tutt’al più, giocavano a calcio, ma nelle strade e nelle piazze. Pagare per giocare è un costume in voga soltanto da un decennio a questa parte. Un tempo, si andava dal “mastru”, che era “un artigiano esperto e abile” (Giuseppe Pentimalli, Vocabolario ragionato del dialetto femijotu). Falegname, sarto, calzolaio, barbiere, panettiere, imbianchino, impagliatore di sedie (“seggiaru”), fabbro, fabbricante di basti (“vardaru”), cestaio, stagnino, tornitore erano le professioni che contavano più “discipuli” (apprendisti). Le botteghe degli artigiani erano una seconda scuola e anche chi, alla fine, non imparava l’arte, ne usciva in qualche modo “formato”. La maggior parte dei ragazzi “girava” due, tre, anche quattro mestieri, fino all’età del servizio militare. Famiglia, scuola, luogo di lavoro e infine la caserma, di fatto, hanno contribuito all’educazione di intere generazioni.


La bottega del “mastro scarparo” Nino Spanto si trovava in via Carusa, l’ex “calata” del cinema, in un tempo in cui (1957) il cinema ancora non esisteva. Era però in costruzione e da lì a poco sarebbe stato aperto al pubblico, gestito dai fratelli Domenico e Vincenzo (“u vichingu”) Luppino, rientrati in paese dall’Eritrea alla fine della seconda guerra mondiale. Dal calzolaio, i ragazzini imparavano a fare una scarpa dal nulla. Appena presa confidenza con trincetti e lesine, tagliavano il cuoio, cucivano la tomaia e i “petti” (le suole) con lo spago incerato e alla fine estraevano dalle forme inchiodate il prodotto finito. Il primo impatto con il lavoro consisteva in mansioni semplici: i più piccoli dovevano infatti raccogliere con una calamita “simiggi” e “zippe”, i chiodini che restavano per terra a fine giornata e che dovevano poi raddrizzare in modo da renderli riutilizzabili. Non era previsto alcun compenso. Erano anzi i ragazzi a omaggiare il “mastro” (feste comandate, onomastico e compleanno), il quale si sostituiva all’autorità paterna, grazie alla delega conferitagli (“se faci u malu, minati”) ed esercitata con schiaffi e nerbate generosamente distribuiti.


A partire da sinistra, in alto: Cosimo Surace (“u Patru”), ’Ntoni Saccà (“u Casettotu”), “mastro” Nino Spanto, Vincenzo Gabrotti, Nino Villari (“u Zoppareddu”, “Ngaiò”). In basso: Rocco Polimeni, Gaetano Comandè (“u Gattu”), Diego Forgione (“Mario”, “u Tornaru”), Franco Tripodi, Carmelo Pentimalli.

domenica 8 aprile 2012

Occhiali rotti


Nella prossima vita indagherò l'inconscio. Mi intrigano il mistero e il miracolo della psiche umana, la logicità e l’illogicità di taluni passaggi, i salti incomprensibili a una prima e a una seconda lettura, le associazioni mentali spericolate e inspiegabili. Siamo carne, è vero. Siamo ciò che ci circonda, ci plasma, ci indirizza verso vite che a volte prendiamo in prestito, spacciandole per nostre. Ma siamo soprattutto intelletto, ragione capace di sopravvivere mentre tutto sfiorisce, nel deserto che attorno a noi si rivela quotidianamente. Siamo spirito imprigionato dentro la corazza dei nostri corpi, leggerezza che fluttua nell’indecifrabile nostro andare.
Ho visto un bimbo piangere e correre inutilmente dietro al padre. Ho pensato che, in quel preciso istante, il dolore del mondo avesse quel volto, quelle lacrime, quel singhiozzo disperato. Poi è iniziato “il viaggio”. Tanti altri bimbi piangenti, ovunque vi sia una guerra, una sporca guerra con le sue cluster bombs, i “pappagalli verdi” di un gioco per ragazzini senza infanzia che gioco non è, mani e piedi scaraventati a decine di metri dai corpi. Ovunque l’uomo tenti di sopraffare un altro uomo. Medio Oriente. La guerra in Iraq e un giornalista freelance, Enzo Baldoni, che racconta quel che vede (2004). Che non si limita al ruolo di testimone scomodo e che, per molte vittime dilaniate nel corpo e nell’anima, diventa una possibile ancora di salvezza. Il suo rapimento e la sua esecuzione. L’ignominia del titolo di un giornale (“Libero”), che spara in prima pagina l’articolo di Renato “Betulla” Farina, agente dei servizi: “Vacanze intelligenti”. Proprio così. Che vuoi, Enzo? In fondo, te la sei cercata. La prossima volta, stai a Milano, invece di fare l’alternativo.
Siamo materia leggerissima, che vola nello spazio immenso della nostra fantasia e corre dal pianto di un bimbo al messaggio di pace della foto dei “piedi spaiati di Mohammed” (all'epoca, Baldoni scrisse a Emergency per chiedere se si potesse fare qualcosa per l'amico iracheno che durante un bombardamento americano a Falluja aveva perso entrambe le gambe e aveva ricevuto due piedi “spaiati”, un 37 e un 38). E allora buona Pasqua, con le parole dedicate da Samuele Bersani a Baldoni in Occhiali rotti.

mercoledì 4 aprile 2012

La premiata ditta Calearo & Scilipoti


Ogni tanto riemergono dal nulla politico delle loro esistenze e guadagnano prepotentemente la scena con qualche uscita pirotecnica. Difficile capire qual è il comico e quale la spalla. Il rapporto è paritario: per intenderci, niente a che vedere con la coppia Totò-Castellani. L’ultimo in ordine di tempo è l’inossidabile Mimmo, tirato in ballo dall’imprenditore calabrese Antonino De Masi per avere fatto ricorso al copia-incolla in una nota di denuncia del “racket delle banche” a danno di clienti tartassati dagli istituti di credito. Un vizietto non nuovo, quello del ginecologo barcellonese ex Idv, “pizzicato” già l’anno scorso a copiare – nientemeno – stralci del “Manifesto degli intellettuali fascisti” (1925) per il suo “Manifesto del Movimento di Responsabilità Nazionale”, costituito nel dicembre 2010 in soccorso dell’agonizzante governo Berlusconi per iniziativa congiunta con i deputati democrats Bruno Cesario e Massimo Calearo.
Proprio l’imprenditore vicentino è l’altro protagonista della settimana politica. Scelto da Walter Veltroni per “gettare un ponte” verso il mondo degli industriali, il “falco” di Federmeccanica non aveva impiegato molto tempo a salutare i casuali compagni di viaggio (“li avevo avvisati che non sono mai stato di sinistra”), aderendo prima all’Api di Rutelli, quindi al Mrn nella vicenda del salvataggio del Berlusconi IV, voto di fiducia ripagato dal Cavaliere con la nomina a consigliere personale del presidente del Consiglio per il commercio estero. Più volte distintosi per il putiferio scatenato da alcune sue dichiarazioni, ha raggiunto vette inarrivabili con il “provvidenziale” attribuito a Mastella (responsabile della caduta del governo Prodi) e la simpatia espressa nei confronti di Sua Emittenza (“Berlusconi è uno come me, in Parlamento dovrebbero esserci solo persone come noi”). L’ultima perla l’ha dispensata ai microfoni della “Zanzara”, confessando di essere andato alla Camera solo tre volte dall’inizio dell’anno: “schiacciare un bottone è usurante”. Non lo è, evidentemente, pagare con lo stipendio da parlamentare un mutuo di 12.000 euro al mese o possedere una Porsche immatricolata in Slovacchia, “perché si pagano meno tasse”.
Il problema è sempre quello della selezione della classe politica e dell’ineludibilità di una riforma elettorale che consenta di passare dal metodo della cooptazione alla possibilità di scegliere i parlamentari. E poi stabilire un minimo di etica. Se un lavoratore non si presenta sul posto di lavoro, non viene pagato e rischia, giustamente, il licenziamento. Il problema non è Calearo che, da questo punto di vista, non è neanche il peggio. Il mitico Antonio Gaglione (gruppo misto, ed Pd) svetta dall’alto del suo 93,24% di assenze, ma davanti al deputato vicentino (ventitreesimo) si segnalano politici di primo piano: Verdini, Ghedini, D’Alema, Fioroni, Pionati, Di Pietro, Bersani.
Spesso si stigmatizza il populismo di alcune critiche feroci. Ma i dati sono impietosi: un giovane su tre senza lavoro, disoccupazione complessiva oltre il 9%, precarizzazione di una quota sempre più alta di lavoratori, assalto ai diritti e alle garanzie conquistati con anni di lotte operaie, cifre di Bankitalia (i primi dieci italiani più ricchi possiedono quanto tre milioni di persone più povere), ladrocinio dei vari Lusi e Belsito, dopo che il finanziamento pubblico ai partiti, abolito con la più alta percentuale referendaria di tutti i tempi, è rientrato dalla finestra sotto forma di “rimborsi elettorali” (Lega “ladrona”: quando si dice la nemesi).
Non c’è bisogno di soffiare sul fuoco dell’antipolitica. La rabbia di ampi strati della società è già sotto gli occhi di tutti. Sono “loro” che ancora fanno finta di non vederla, dal chiuso di stanze dorate, con privilegi ogni giorno sempre più intollerabili.

lunedì 2 aprile 2012

Gli echi di un'odissea?


Echoes per me è la versione del Live at Pompeii (1972), concerto registrato dai Pink Floyd nell’anfiteatro degli scavi archeologici vuoto, presenti solo i tecnici e la band. Il primo piano delle mani di Richard Wrigth sulle tastiere, David Gilmour che, a torso nudo, tira fuori dalla sua Fender Stratocaster sonorità e suggestioni incredibili. Per associazione, è anche Roger Waters che picchia il gong in A saucerful of secrets, mentre il sole sta tramontando alle sue spalle, o Nick Mason che perde la bacchetta durante l’esecuzione di One of these days e riesce a recuperarne un’altra senza perdere neanche un colpo.
Ho scovato su youtube, scoprendo poi di essere arrivato buon ultimo, una versione adattata al finale di 2001: Odissea nello spazio, film-capolavoro di Stanley Kubrick, uscito nelle sale nel 1968, tre anni prima della pubblicazione di Meddle, l’album che contiene i 23 e passa minuti della suite forse più nota dei Pink Floyd. Il regista americano aveva chiesto di potere utilizzare come colonna sonora canzoni tratte dai loro primi due album (The piper at the gates of down, 1967; A saucerful of secrets, 1968), ma la band rifiutò: “l’errore più grande che abbiamo mai commesso”, avrebbe in seguito dichiarato Waters.
Echoes e 2001 presentano parecchie sincronie, rilevate da tempo, ma Waters ha sempre sostenuto la tesi della loro casualità. Eppure, in alcune parti, il film sembra combaciare perfettamente con la canzone, suscitando angoscia e spiazzamento. Non so trovare altre parole per descrivere l’effetto dell’associazione tra la musica dei Pink Floyd e il cinema di Kubrick.