sabato 30 gennaio 2016

Il mercato a Sant’Eufemia d’Aspromonte



Il mercato a Sant’Eufemia ha una tradizione consolidata, giunta fino ai nostri giorni nonostante i tempi siano cambiati e le abitudini pure. Nel secolo scorso e alla fine dell’Ottocento esso costituiva un momento di grande dinamismo economico e sociale, caratteristica oggi un po’ sbiadita: “colpa” di una maggiore mobilità per gli individui, con la conseguente possibilità di fare acquisti ovunque e a qualsiasi ora del giorno (a volte anche della notte), sette giorni su sette.
Non sempre è stato così. Il mercato settimanale ha dato lustro a Sant’Eufemia, portandovi gente e denaro, facendo di questo piccolo centro pre-aspromontano un punto di riferimento e di incontro per le popolazioni dei paesi limitrofi. Nel suo capolavoro La signora di Ellis Island, Mimmo Gangemi vi fa arrivare il protagonista, partito da Santa Cristina per acquistare due “cartate” di pasta da cinque chili, aringhe sotto sale e una “pinna” dell’apprezzatissimo pesce stocco. Tutte le botteghe di generi alimentari erano infatti provviste delle vasche per la produzione dello stocco, un’arte per la quale Sant’Eufemia era nota in tutto il circondario, come mi confermò un professore universitario originario di Bagnara Calabra che ogni domenica vi saliva apposta – a “passaggi” o a piedi – mandato dalla madre, negli anni Sessanta del secolo scorso.
L’area in cui si svolgeva il commercio di mercanzie, generi alimentari, prodotti dell’artigianato e animali era l’attuale piazza Purgatorio, che sul finire del XIX secolo era appunto denominata Piazza Mercato. Qui si teneva il mercato, a partire dal 1889 due giorni a settimana (giovedì e domenica), in seguito soltanto di domenica, giorno festivo che riusciva a convogliare in paese un maggiore numero di acquirenti. Va ricordato che prima del terremoto del 1908 le abitazioni erano distribuite tra “Vecchio Abitato” e “Petto”: la “Pezzagrande” era aperta campagna, per cui il mercato si svolgeva in quello che allora era il centro del paese, tra la piazza e i bordi della strada provinciale che da Bagnara si spingeva fino ai comuni dell’entroterra aspromontano. Proprio lo spostamento del mercato domenicale fu uno dei motivi di maggiore contrasto tra i fautori della ricostruzione del dopo terremoto nella vecchia area e i sostenitori dello spostamento nell’area della “Pezzagrande”, allorquando (8 agosto 1910) il consiglio comunale deliberò il trasferimento del mercato nel nuovo rione.
Tra XIX e XX secolo Sant’Eufemia era uno dei maggiori centri del comprensorio. Lo confermano i dati del censimento della popolazione (6.252 abitanti nel 1871, 5.888 nel 1881, 6.285 nel 1901, 6.136 nel 1911), costituita perlopiù da braccianti agricoli e pastori: il ruolo per la riscossione del diritto di pascolo nelle proprietà del comune per l’anno 1895 riporta 28 allevatori, per un totale di 4.167 capi di bestiame. Il ruolo dei contribuenti soggetti alla tassa sulle professioni ed esercizi per l’anno 1878 riporta invece 66 nominativi: 18 “pizzicagnoli” (venditori di generi alimentari), 11 panettieri, 5 dolcieri, 5 macellai, 5 calzolai, 4 farmacisti, 4 rivenditori di farine e altro, 3 droghieri, 3 venditori di ferro e altro, 3 venditori di generi diversi, 2 negozianti di legname e altro, 2 negozianti di tessuti, 1 “merciaio” (venditore di stoffe, bottoni, aghi, filati).
Con il trasferimento del mercato nel nuovo centro abitato, l’area destinata alla compravendita del bestiame acquisì la denominazione di “mercato dei porci”. Si trattava dello spiazzo (oggi edificato) posto sotto la via “maggiore Cutrì”, utilizzato anche come pubblica latrina dalle famiglie che ancora nell’immediato secondo dopoguerra vivevano in baracche prive di luce, servizi igienici e acqua. Era però anche un luogo di divertimento, poiché ospitava il tendone del circo di “Fortunello” o di quello più celebre di “Zavatta”.
Pur nell’ambito di un’economia quasi di baratto, era numerosa la presenza di piccoli artigiani, molto rinomati per la loro maestria: orafi, falegnami, ebanisti, cesellatori, cestai, tintori, tessitori, sarti, calzolai, conciapelli, forgiatori, fabbri, ferrai, tornitori, ramai, cerai. Una tradizione che si è perduta nel tempo, ma che meriterebbe di essere riscoperta, rivalutata e, perché no, rilanciata.

venerdì 22 gennaio 2016

C'era una volta il tennis

Chi non hai mai provato la sensazione di trovarsi in una circostanza “già vista”? L’improvviso riemergere nella memoria di ricordi sospesi tra sogno e realtà è il fenomeno del déjà vu: un passante che ci sfiora, una frenata brusca con l’automobile, un profumo, un suono che appartengono a una situazione già vissuta nel passato. Che sappiamo come andrà a finire, mentre si svolge.
A me capita entrando in pineta, soprattutto quando la primavera sta per esplodere. Il sole tiepido di marzo mi riporta agli anni del tennis, ormai lontanissimi nella memoria mia e del paese. Da oltre un decennio il campo da tennis vive infatti una condizione di abbandono ed è incredibile come nessuno riesca a rilanciare una disciplina sportiva che ha avuto stagioni gloriose. Uno sport che ha aggregato generazioni di eufemiesi e reso vivace un angolo di paradiso, quale è la nostra pineta comunale con la sua brezza fresca, che d’estate è un balsamo miracoloso per coloro che soffrono il caldo.
La vitalità di un paese si misura dal rapporto virtuoso che l’uomo riesce a instaurare con l’ambiente che lo circonda. L’abbandono è sinonimo di morte. Quanti sono nel nostro paese, oggi, gli spazi morti? Beninteso, ciò dipende pure da una socialità che è parecchio mutata rispetto anche soltanto a due decenni fa e che è – ahimè – prevalentemente “virtuale”. Fatto sta che i luoghi di aggregazione stanno sparendo. Di sicuro è svanita la loro originaria funzione. I cortili sono ormai scomparsi o, se ci sono, hanno perso l’antico fascino di luogo in cui le famiglie condividevano con i vicini della porta accanto gioie e dolori. Le strade servono soltanto a collegare un posto con un altro, ma sono prive di calore: quasi scomparse le biciclette, per non dire dei palloni che rotolavano lungo le discese mentre dietro orde di ragazzi si affannavano per raggiungerli. Le piazze sempre più vuote o comunque non “vissute”: giusto qualche bambino, finché non raggiunge l’età che gli consente di affrancarsi dalla tutela dei genitori.
La pineta di venti, trenta, quarant’anni fa per molti eufemiesi è il posto delle fragole, perché rimanda all’innocenza e alla felicità di tempi che non torneranno mai più, all’adolescenza fatta di sogni e semplicità. Tra i suoi alberi sono nati amori, altri sono naufragati. Sulle sue panchine si sono accomodati migliaia di giovani e meno giovani. Sono queste le scene che rivedo quando ne varco l’entrata. Nonostante sia cambiata “fisicamente”, se si chiudono gli occhi e si sta in silenzio, è possibile ascoltare la vita trascorsa.
In questo passato c’è il tennis, che tutti abbiamo praticato. Con la racchetta di legno, prima che esplodesse la mania dei più moderni semiracchettoni. Tutti. Quelli che non sono mai riusciti a impostare il rovescio. Quelli che “forzavano” prima e seconda battuta. I “pallettari” che attendevano sempre l’errore degli avversari. Da marzo a settembre-ottobre era una gara a chi riusciva a prenotare il campo. Sempre occupato. E poi, d’estate, i tornei con 50-60 partecipanti: tutti affascinati dall’abilità con cui Rocco Vizzari riusciva a comporre i tabelloni di singolare, doppio e doppio “giallo”, tra teste di serie e turni preliminari, per dare a tutti almeno una chance di passaggio del primo turno.
Perché quel movimento è scomparso? Certo, il “pensionamento” di un fuoriclasse dell’organizzazione come Rocco Vizzari ha inciso parecchio. L’emigrazione universitaria e lavorativa di due-tre generazioni trainanti ha fatto il resto. Tuttavia, a mio modo di vedere, a un certo punto sono mancate le condizioni minime per poter continuare. Vale a dire: un impianto tenuto in discrete condizioni e un custode responsabile.
Per rilanciare il tennis e rivitalizzare la pineta comunale occorrerebbe ripartire da qua. Riprendere quel filo, spendendo pochi soldi per sistemare la recinzione, comprare la rete e pitturare il campo; quindi affidarne a qualcuno la gestione, stabilendo orari di apertura e di chiusura della pineta (se la videosorveglianza implica dei costi eccessivi) per evitare che i soliti vandali distruggano quanto di bello il nostro paese ha da offrire.

giovedì 14 gennaio 2016

La cartolina dal fronte del soldato Siviglia


Viaggiava lenta l’informazione negli anni della Prima guerra mondiale. Niente a che vedere con la nostra attualità di orrori che i social network fanno rimbalzare da una parte all’altra del pianeta, proprio mentre accadono. No, un secolo fa passavano mesi, a volte anni, prima che a casa potessero conoscere il destino di padri, mariti e figli che l’Italia aveva inviato a combattere in terre lontane, dal nome oscuro. Per “semplificare e accelerare le comunicazioni relative ai militari al fronte tra il Ministero della Guerra e le rispettive famiglie”, nel 1915 fu costituito l’Ufficio per notizie alle famiglie dei militari di terra e di mare, che aveva due sedi centrali (Bologna, per i militari di terra; Roma, per quelli di mare) e circa 8.400 tra sezioni e sottosezioni disseminate nelle province. Una straordinaria manifestazione di amor patrio e di solidarietà che coinvolse più di 25.000 volontari (in prevalenza donne), impegnati nella schedatura delle notizie e nello smistamento della corrispondenza, oltre che nella gestione del rapporto diretto con le famiglie tramite gli sportelli, dove i congiunti dei soldati si recavano per conoscere le informazioni raccolte nelle sedi di Comando o dei Distretti e conservate negli schedari.
Alla sottosezione di Reggio Calabria dovette rivolgersi Domenica Nocera, da troppo tempo ormai senza notizie del marito Giovanni Siviglia, inquadrato nel 131° Fanteria di stanza tra le pietre di quel monte San Michele che ispirò i versi immortali di Ungaretti. Già oltre la trentina, il capraio Siviglia (classe 1883) era al suo secondo matrimonio, poiché la prima moglie (Rosaria Cutrì, sposata nel 1906) l’aveva lasciato vedovo sul finire del 1913. Erano tempi in cui “c’era bisogno di una donna in casa” e così, già nel marzo del 1914, si era risposato. Quindi la chiamata alle armi e un lungo, lunghissimo silenzio. Le annotazioni riportate sullo schedario segnalano diversi ricoveri: presso l’ospedale di campo 211 a Palmanova (6 febbraio 1916) per una ferita nella “regione interscapolare”; presso l’ospedale militare di riserva di Portogruaro (4 marzo 1916), per una ferita al fianco destro; presso l’ospedale militare di Padova (10 marzo 1916), tenuto “in osservazione”. E da qui, il 2 luglio 1916 indirizza alla moglie una cartolina “in esenzione da tassa”, magro privilegio concesso dal governo al proprio esercito. L’italiano è quello stentato di chi riesce a scrivere poco più del proprio nome – ed è già un successo in tempi di analfabetismo endemico:
«Carissima consorte rispondo alla tua il quale mi dice che goti ottima salute assieme ai nostri cari bambini come il simile è di me. Di più mi dice che o scritto a mia madre la causa della mia mia malattia no a te io ammia madre non li o scritto nulla e per quanto alla mia malatia e cosa di nulla perciò come ti ripeto non starti ampressionare che speriamo al buon Dio che guarisco del tutto. Ultimo mi prolungo saluto e miei e i tuoi genitori a chi domanda di me. Saluto te con tanti baci ai nostri cari figli e sono per sempre il tuo affezionato consorte Siviglia Giovanni».
Il soldato di Sant’Eufemia tranquillizza la moglie: neanche alla madre, contrariamente a quanto lei pensava, aveva rivelato le ragioni del suo ricovero. Per cui non le stava nascondendo il proprio stato di salute: c’era soltanto da stare tranquilli e da sperare in una veloce guarigione.
L’ospedale civile di Brusegana-Padova era in realtà un ospedale psichiatrico, il quale durante la Grande Guerra ospitò un reparto dell’ospedale militare. La trincea, con il suo odore di fango e di morte, portava spesso alla pazzia i giovani militari strappati agli affetti delle famiglie: secondo gli studi di Elena Fais, i ricoverati presso la struttura di Padova per “shock da combattimento” furono in totale 1.805 (156 nel 1915, 833 nel 1916, 767 nel 1917, 49 nel 1918). Traumatizzati dallo spettacolo dell’inutile strage, i giovani in divisa ammutolivano o diventavano vittime di convulsioni e allucinazioni. Gli stati depressivi e la demenza precoce erano diagnosi abbastanza frequenti, ma non mancavano le simulazioni per evitare di essere mandati in prima linea o, meglio, per ottenere il rientro anticipato a casa.
Il successivo 25 agosto, il direttore dell’ospedale risponde alla richiesta di un commilitone (Surace) compaesano di Siviglia e lo rassicura: “Il ricoverato Siviglia Giovanni fisicamente sta bene, anche mentalmente continua a migliorare”.
La scheda non riporta altre informazioni. Molto probabilmente, la guerra di Siviglia finì con il ricovero di Padova. Rientrato a Sant’Eufemia e rimasto nuovamente vedovo nel 1947, fece in tempo a sposarsi una terza volta (il 30 ottobre 1949, con Maria Teresa Mileto), prima di morire sul proprio letto il 3 ottobre 1961.

FONTI:
- Archivio di Stato di Reggio Calabria, Ufficio Notizie, cassetto 53
- Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Ufficio Anagrafe e Stato Civile
- Elisa Erioli, Ufficio per notizie alle famiglie dei militari (1915-1919)
- Elisa Fais, Trovato l’armadio degli orrori della Grande Guerra a Padova
*Foto tratta dal blog di Francesco Luigi Chirico Reggio era...

venerdì 8 gennaio 2016

Il problema non è La Pira

Nei giorni scorsi è stata resa nota la volontà dell’amministrazione comunale di dedicare una piazza a Giorgio La Pira. Nulla da eccepire sulla statura morale e politica del padre costituente, deputato e sindaco di Firenze nativo di Pozzallo (Ragusa), che ho tra l’altro “incontrato” nel corso della mia esperienza da ricercatore, quando il Dipartimento dell’Università di Messina al quale afferivo prese parte alle celebrazioni per il centenario della nascita, con un convegno di studi i cui atti furono in seguito pubblicati (Dalla Sicilia al Mediterraneo. Atti del Convegno di apertura delle celebrazioni per il centenario della nascita di Giorgio La Pira, Messina-Pozzallo, 8-10 gennaio 2004).
Non condivido questa scelta, né nel merito, né nel metodo. Non la condivido nel merito, pur riconoscendo la grandezza del personaggio, derivante anche dallo sforzo per la costruzione della pace negli anni della Guerra Fredda e dall’impegno nell’Azione cattolica, associazione importante per la formazione di tantissime generazioni, che a Sant’Eufemia ha avuto per 35 anni il proprio faro nel parroco Antonino Messina.
Perché La Pira e non un calabrese o, perché no, un eufemiese? Meglio ancora: “una” eufemiese. Nel 2013, presentando nell’aula consiliare Il cavallo di Chiuminatto. Storia e strade di Sant’Eufemia d’Aspromonte, lanciai una serie di proposte, che purtroppo rimasero tali. Il mio suggerimento, in sintesi, era di correggere alcuni nomi errati (il caso limite è via Ruggero VII, personaggio storico mai esistito se non in quanto Ruggero Settimo: dove Settimo è il cognome, non l’enumerazione dinastica) e di rinnovare la toponomastica del paese dedicando qualche via a personaggi illustri calabresi ed eufemiesi, meglio ancora se donne, visto che l’unica omaggiata, a Sant’Eufemia, è la regina Margherita di Savoia. Avevo anche proposto, seppure in via informale, la costituzione di una commissione ad hoc, che curasse proprio la toponomastica del comune. Questo per dire che la mia è una riflessione che parte da lontano. Sono rimasto di quell’idea: dispiace che altri – legittimamente – l’abbiano cambiata. Dispiace anche che questa decisione sia stata presa nel chiuso delle stanze del palazzo municipale, senza coinvolgere quanto meno la Consulta comunale, che avrebbe potuto certamente dare un contributo prezioso. E questo attiene al metodo che è stato adottato per la scelta del nome, a mio avviso dettato dalle contingenze del momento, come già un anno fa, quando – a cavallo dell’organizzazione di un convegno per la Giornata della Memoria – “girò” la voce che la piazza in questione sarebbe stata intitolata ai “Giusti tra le nazioni”, ma poi non se ne fece nulla.
L’intitolazione della piazza a La Pira può avere molteplici e validissime motivazioni, ma non ha attinenza con Sant’Eufemia. Non ha niente a che vedere con la riscoperta della propria storia e con l’orgoglio per l’appartenenza a un destino comune. In quel caso, sarebbe stata un’operazione dall’altissimo valore civico e simbolico. Per come è stata concepita, invece, assomiglia più a un’occasione persa.
Rimango del parere che anche tra i nostri concittadini vi siano riferimenti morali e modelli di vite da imitare. Nella citata presentazione del 2013 – e anche successivamente – proposi il nome di una donna di Sant’Eufemia, Suor Rosaria Ioculano, che fu fondamentale per l’istituzione dell’Orfanotrofio Antoniano. Più indietro nel tempo, altri cittadini avevano suggerito quello di Giuseppe Chirico (“don Pepè”), amatissimo “medico del popolo”d alla cui memoria la Pro Loco, nel 2001, assegnò il Premio solidarietà “Ginestra”. Ma sono molti altri i personaggi eufemiesi o calabresi degni di essere omaggiati, protagonisti di primo piano nel campo della cultura, della politica, delle arti e dello sport che hanno dato lustro alla nostra terra.