martedì 27 ottobre 2015

La finestra senza cielo

Lo sguardo rivolto alla finestra si scontra con il grigio del cemento, oltre il vetro. Un tempo infinito senza vedere l’azzurro del cielo o uno scampolo di vita. Senza sapere niente del freddo di fuori. Con quella voce che rimbomba in testa: «Se è ematoma, svuotiamo. Altrimenti bisognerà tagliare la gamba». E la risposta glaciale di chi ha soltanto sete di verità: «Quel che sarà, purché si esca da questo stato di incertezza». Non è la spavalderia di un ragazzo convinto di poter masticare il mondo. È la ricerca di un appiglio al quale aggrapparsi per ricominciare. Anche con una gamba, purché finisca l’odissea di cliniche, ospedali e oncologi da Sud a Nord. Ecografia-tac-risonanza magnetica; ecografia-tac-risonanza magnetica: «Se non è un ematoma, è un tumore». L’odore di anice del mezzo di contrasto, il colpo di sonno dentro al macchinario della risonanza magnetica, i fogli dell’anamnesi da riempire ogni volta. Le storie ascoltate da compagni di stanza transitori. Infine Gianni, alto e milanista, beccato dal primario con una sigaretta da divorare in pochi, rapidi, profondissimi tiri. Trenta maledetti secondi.
Il camice e la cuffia, il gelo della sala operatoria e la voce di Lucio Battisti in sottofondo, che si allontana sempre di più... Buio. Risveglio. La mano che corre subito sulla gamba, a tastare. C’è. Chissà, forse potrò giocare a calcio tra qualche mese: lo chiederò al primario, appena passa.
Caldo, caldo, un incendio divampato dentro al corpo e la sensazione di un naufragio, il centro del materasso un buco nero che risucchia e fa inabissare. Caduta libera, l’interruttore si spegne. Buio. Di nuovo buio e di nuovo sala operatoria. Al ritorno Gianni non c’è. Ci sono le sue ciabatte, resteranno a lungo ai piedi del letto. L’intimazione alla moglie è di non toccarle, deve tornare lui a riprenderle. Anche Gianni raddoppia, ma per lui niente tripletta: «Ok, tu hai tre interventi in anestesia totale in dieci giorni, ma io ho due operazioni e una settimana di terapia intensiva», il bilancio finale di giornate furibonde, addolcite dal sorriso dell’infermiere: «Ma voi due non ne volete sapere di andare via da quest’ospedale?».
Non credo ai miracoli, né alla fatalità o alle pagine già scritte. Credo nella preparazione, nella tempestività e nei nervi saldi di chi ha capito che era emofilia. Credo in sette sacche di sangue passate nelle vene, come il carburante dalla pompa del distributore al serbatoio della macchina. Credo nella simpatia del chirurgo prima dell’ultimo incontro in sala operatoria: «Non fare scherzi, perché io non ti apro più». Credo in quattro lunghissimi mesi di endovene a base di fattore VIII sintetico, le braccia doloranti e l’eredità di un’insofferenza istintiva per le attese nei corridoi degli ospedali. Credo negli occhi lucidi dell’abbraccio finale con Gianni, che resta un mese in più e si aggiudica il premio ideale di “arredo umano” della clinica Humanitas di Rozzano.
E credo agli attimi in cui avrei voluto fermare il tempo, davanti alla grande vetrata che apre sul giardino e fa baciare dal sole il mio viso scolorito, mentre sul prato i passeri saltellano spensierati.

lunedì 19 ottobre 2015

Acquamarina

Se tu fossi qui, ora, sarebbe un cielo terso. Acquamarina come i miei occhi. Come i tuoi. E noi sotto, a parlarci del tempo che scappa, dei tuoi capelli sempre più bianchi e del senso di solitudine che mi assale prima di ogni partenza. Il mio pomeriggio sarebbe altro da queste quattro mura tappezzate di poster superati, che però non me la sono sentita di levare. Diversa la play-list selezionata sul portatile, meno malinconica. Non vivrei il distacco dai tuoi libri sulle mensole come un abbandono. Il poco che ho di te, che mi invoca per farsi trovare tra righe lette trenta o quarant’anni fa. Ti scopro in una freccetta verde o rossa tracciata con delicatezza sul margine di pagine sciupate, quasi impercettibile ma fondamentale per la mia ricerca di figlia che non ha conosciuto il genitore. Tu sei là, nel primato del viaggio sulla meta e nella ricerca della felicità di Kerouac; o nella protervia con cui il giovane Holden si rifiuta di varcare la soglia dell’adolescenza. L’America sbirciata sui libri e vista al cinema dalla tua generazione, quando sognare non era ancora un lusso difficile da mantenere.
La mia testa è nell’unico posto in cui posso trovarti. Un altrove fatto di assenza. Non di rimpianto. Si rimpiange ciò che si ha avuto, conosciuto, amato. Sei stato mio padre per così troppo poco tempo che non riesco a darti una collocazione tra le caselle dei sentimenti. Sei da qualche parte, offuscato da una nebbia impenetrabile che è il senso di noi, un vuoto che aggredisce lo stomaco come un virus e non permette di respirare.
Sei un papà di seconda o terza mano. Sei il figlio di nonna, il marito di mamma, l’amico di conoscenti. Non sei mio padre. Non lo sei mai stato, anche se ti ho visto ridere in vecchie fotografie, con lo spumante tra le mani dietro di me che stavo dietro alla torta con una sola candelina. Vent’anni fa. Anche se concentrata sulle pagine di un libro ho la tua identica, attenta espressione di chi non avrebbe bisogno di nient’altro per resistere a colpi che piovono da ogni parte.
Dicono che la mia irrequietezza era la tua, la stessa irriverente smania di spaccare il mondo. Col tempo forse saresti cambiato e mi avresti invitato alla prudenza. I papà sanno sempre cos’è giusto perché sono infallibili, almeno fino a quando i figli non diventano adulti. Poi no, il rapporto tende a diventare paritario e allora sì che cominciano i dolori, gli scontri. Questa fase non la conosco, mi tocca fidarmi di quello che osservo accadere ai miei coetanei. Ma sono sicura che per noi sarebbe stato differente, che ci saremmo capiti. Che avresti assecondato il mio anelito di libertà. Se c’è una cosa che mi manca, è proprio il conforto di avere te dalla mia parte, qualsiasi cosa io decida di fare. So che tu lo avresti fatto, a sentire chi ti ha vissuto accanto: «Non bisogna mai permettere che siano gli altri a decidere per noi. Mai».
Avresti saputo accompagnarmi con discrezione, da lontano, pronto a scattare in mio soccorso. Forse arricciando le labbra come facevi tu, in una sorta di tic che non so ripetere. Mi avresti dato i consigli che da te non ho mai avuto e che ho dovuto intuire guardandomi attorno.
Ti rivedo in rari fotogrammi della mia memoria, mentre sei con me e con il mio inseparabile compagno di giochi, un cavallo rosso di plastica con le rotelline che ci divertivamo a fare correre nel salotto. Il tuo viso è allegro, come quando mi osservavi di là dalla finestra bassa della scuola materna con il vassoio dei cornetti caldi in mano. La scarna dimensione dei ricordi, un soffio leggero che dona linfa alla tua vita e la fonde con la mia.

giovedì 8 ottobre 2015

Via Grande

Più di venti anni fa Nino Caserta, maestro elementare di generazioni di eufemiesi, in cinque puntate raccontò per la rivista “Incontri” (edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio dal 1988 al 2005) la storia del giornale murale “Via Grande”, realizzato dai suoi alunni sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso. “Un’occasione – spiegò – per fare il punto su un’epoca, su quel senso della famiglia e della vita, sui valori che hanno irrobustito quelle generazioni”.
Per ricostruire il “piccolo mondo antico” della Sant’Eufemia uscita dal dopoguerra e pronta ad offrire le braccia dei propri figli alle fabbriche del Nord o alle lontane terre d’Oltreoceano Caserta spulcia vecchie pagine ingiallite che riproducono poesie, favole, disegni, lettere, proverbi, spaccati di vita quotidiana. Il risultato finale è un affresco di gente semplice e laboriosa, dignitosa anche quando soffre il freddo e la fame, animata dalla speranza di un futuro migliore, confortata dal prevalere di sentimenti di condivisone, solidarietà. Rileggendo le parole scritte dai nonni di oggi rivediamo il paese di allora, i suoi costumi, la sua storia: San Bartolo con i vecchi muri del monastero, la chiesetta e la “Fontana dei Monaci”, la promessa di fidanzamento di una giovane coppia, il carnevale per le strade e nelle case, i giochi di piazza, il mercato settimanale con i prodotti della terra e il pesce fresco delle gerle che le bagnarote trasportavano sulla testa. Il duro lavoro dei campi e la consapevolezza del valore della fatica e delle rinunce: “Gesù fa che mio padre e mio fratello non si facciano male al lavoro”, supplica un bambino costretto a crescere in fretta, perché i bisogni materiali rendono maturi e responsabili sin da piccoli. Il titolo del giornale non è casuale. Rimanda a una delle strade più antiche del paese, situata nell’attuale Vecchio Abitato (o Paese Vecchio), “grande” se confrontata con i vicoli caratteristici dell’originario assetto urbano di Sant’Eufemia, precedente ai terremoti del 1783 e del 1908. Su via Grande, larga un paio di metri, si innestavano stradine secondarie ancora più strette e corte, per tutto il tragitto che collegava la chiesa Matrice con piazza Mercato (oggi piazza Purgatorio). Una scelta identitaria, che sottintende la volontà di raccogliere “la memoria delle cose più lontane”, di riscoprire – annota Caserta – “costumi e valori, figure e usanze che poi ciascuno si porta dietro come corredo e ricchezza dell’essere figlio di una patria, quella piccola del paesino e quella grande col nome Italia, con la coscienza più o meno acquisita di essere egli stesso tessera dell’immenso mosaico che dalla singola persona può giungere all’armonica convivenza di una società”.
Scopriamo che nell’anno scolastico 1958-59 la scuola elementare “Don Bosco” fu sede provinciale della sperimentazione del C.R.E.S. (centro ricreativo educativo scolastico). Al termine dell’orario delle lezioni i bambini consumavano il pranzo nello stesso edificio scolastico, quindi venivano affidati a un’equipe di insegnanti che coordinava le attività formative del Centro (studio e ricerca; canto e danza; tecniche pittoriche e manuali; teatro e giochi): lavori di falegnameria, di carta e di creta, ma anche dipinti, lettura di libri, esecuzione di canzoni, giochi nel cortile.
Lorenzo fissa sulla carta bambini intenti a soffiare sui bracieri non sempre di ottone, che Felice rivela essere accesi prima di entrare nell’aula: “accendiamo i bracieri, poi li portiamo in classe e quando abbiamo le mani fredde andiamo a riscaldarcele, perché fa molto freddo”. D’altronde ha ragione Andrea quando osserva che con le mani fredde è impossibile scrivere bene. Fuori dalla scuola è diverso: “quando le mani si raffreddano, entriamo in una casa qualsiasi e ci riscaldiamo”, dichiara Diego. Mentre Giovanni racconta che, quando nevica, i bambini costruiscono una slitta con due tavolette di legno e si lanciano nelle discese del paese.
Sono fanciulli attenti alla natura che li circonda: il canto degli uccelli, la fioritura degli alberi e l’esplodere della primavera. Conoscono il mutare delle stagioni e il fenomeno della transumanza delle greggi e delle famiglie, raccontata con parole che sembrano prese in prestito da Corrado Alvaro. Giuseppe annota che “i pastori non ci sono più: sono andati in pianura, vicino al mare, dove fa più caldo”; e Stefano, di rimando: “sull’Aspromonte ci sono tanti greggi e tanti pastori. Proprio accanto a casa mia abitano sei pastori. Qualche volta essi portano le loro pecore al pascolo nelle mie terre e le portano perché c’è tanta erba e non si può falciare. Quando viene il mese di gennaio e fa freddo, essi se ne scendono con le pecore e le portano a Rosarno. Nel mese di marzo se ne tornano ancora sui monti perché laggiù comincia a fare caldo”.
Dal locale al globale, gli alunni del maestro Caserta si interessano anche della corsa allo spazio tra Unione Sovietica e Stati Uniti, una delle tante pagine della guerra fredda combattuta dalle due superpotenze mondiali. Dieci anni prima che Tito Stagno pronunciasse in diretta televisiva “ha toccato: l’uomo è sbarcato sulla Luna”, Lorenzo disegna Un razzo verso la Luna e commenta: “La Russia e l’America vogliono sapere cosa c’è sull’altra faccia della Luna. Siccome la Luna a noi fa vedere una sola faccia, essi mandano dei razzi e li fanno posare sopra la Luna. Ancora nessun razzo si è posato sulla Luna, ma gli scienziati prevedono che questo che c’è in volo forse si poserà”.
Il giornale si occupa anche di televisione, nuovissimo mezzo di comunicazione che in quegli anni cominciava ad entrare nelle case dei più benestanti, non in quella della maggior parte dei piccoli redattori di “Via Grande”. Nelle case dei pochi possessori di un televisore la gente delle rughe si radunava per assistere alle trasmissioni del tempo. A Gilberto piace “La TV per i ragazzi”, in particolare la serie televisiva Ivanoe, tratta dall’omonimo romanzo storico di Walter Scott, che fece conoscere al grande pubblico l’attore Roger Moore, il futuro James Bond.
Il programma del momento è però Il Musichiere, condotto da Mario Riva: “è un gioco divertente e ci sono concorrenti di ogni regione d’Italia”, spiega Sergio per descrivere la trasmissione diventata molto popolare tra il 1957 e il 1960. Non appena l’orchestra di Gorni Kramer accennava un motivetto, due concorrenti in scarpette da tennis saltavano dalla sedia a dondolo e scattavano per suonare la campana e poter così tentare di dare la risposta esatta.
A una puntata del Musichiere prese parte l’eufemiese Pippo Pecora, un portento nel riconoscere le canzoni che per la troppa foga, tuttavia, cadde sulla canzone September in the rain, celebre brano interpretato da molti artisti, tra i quali Frank Sinatra. La conosceva, ma invece di “settembre” pronunciò “novembre”, per la delusione delle centinaia di spettatori che in quel lontano sabato sera riempirono piazza Matteotti per vedere il proprio compaesano nel televisore issato sul muretto da Cosimo ’u cipuddaru, che li vendeva.