mercoledì 27 febbraio 2019

Seicento messaggi nella bottiglia



E pensare che tutto iniziò sotto la doccia. Si sa: sotto la doccia si canta e si pensa. A me capitava spesso di “voler dire delle cose” e di immaginare anche come le avrei scritte. Da qualche anno avevo smesso di scrivere per “Il Quotidiano della Calabria”, ma sentivo dentro di me parole che volevano uscire. Parole che non avevo mai scritto, anche perché da corrispondente locale del giornale avevo pochi margini sia come temi da trattare, che come spazi a me riservati per ogni articolo. Più o meno nello stesso tempo aveva pure chiuso i battenti la rivista “Incontri”, periodico eufemiese edito dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, sulla quale mi dilettavo a scrivere degli argomenti più disparati.
Sotto il flusso dell’acqua calda, tra aggettivi, verbi e sostantivi che si accavallano dentro la mia testa, decisi di ricavarmi sul web uno spazio dove potere esprimere i miei pensieri. Nacque così prima “Santeufemiaonline” e, da quell’idea, il 24 marzo 2010 “Messaggi nella bottiglia”. Al primo post del blog diedi un titolo che più personale non sarebbe stato possibile: “Minita”, come io stesso mi presentavo da bambino, quando ancora non riuscivo a pronunciare bene il mio nome. Perché sostanzialmente sono rimasto un bimbo curioso di scoprire il mondo che lo circonda.
Oggi i messaggi nella bottiglia sono seicento: fa effetto questo traguardo, perché l’esperienza del blog è stata per me fondamentale. Qui ho avuto la possibilità di continuare a coltivare la mia passione per la storia, con ricerche che poi sono finite sui libri dedicati alla storia di Sant’Eufemia. Qui ho scritto del mio paese e, a volte, inciso nel suo tessuto sociale e culturale con iniziative partite da alcuni articoli. In sintesi sono queste due ragioni a dare linfa al blog stesso, che considero un efficace strumento di comunicazione.
C’è poi l’aspetto umano, che non è affatto secondario perché la gratificazione alla fine è esclusivamente quella: e ovviamente fa piacere essere apprezzati per ciò che si scrive. Ogni tanto mi arrivano messaggi privati che considero medaglie: sono il più bel riconoscimento.
“Messaggi nella bottiglia” è il diario pubblico dei miei ultimi nove anni. Niente di più, niente di meno. Il post “Minita” si chiudeva con la considerazione che “può risultare utile affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia. A futura memoria”. Ci penso sempre quando (è capitato proprio ieri) vengo contattato da qualcuno che ha scovato per caso sul web un mio articolo.
Adoro questa casualità, che nasce anche dalla volontà di non essere “invadente”. Sia chiaro: a me fa piacere che gli articoli vengano condivisi se altri decidono che vale la pena condividerli. Ci mancherebbe. Però mi affascina l’idea che sia l’articolo stesso a “chiedere” di essere diffuso perché ha contenuti interessanti; non che lo chieda il suo autore mediante una richiesta esplicita di condivisione, l’uso indiscriminato del tag dei propri contatti Facebook o la richiesta del “like”, l’intasamento delle chat di Whatsapp.
Scrivo assecondando interessi e gusti miei personali. Cerco di porre all’attenzione di chi legge avvenimenti e personaggi che mi sembrano significativi. Lo faccio con una libertà assoluta, nella scelta degli argomenti e nel modo di trattarli. Non è fantastico?

venerdì 22 febbraio 2019

Dona il sangue, salva una vita


Sempre con maggiore frequenza, purtroppo, leggiamo che negli ospedali c’è carenza di sangue. Ospito pertanto volentieri sul blog l’intervento di mio fratello Luis, che sottolinea quanto sia importante donare il sangue, al di là dell’associazione con la quale si sceglie di farlo, e di come basta poco (non “basterebbe”, precisa esortando all’azione concreta della donazione) per dare sostanza e vita al concetto di solidarietà. Al suo invito unisco il mio, quello di un ex ventiseienne salvato dalla trasfusione consecutiva di sette sacche di sangue. 

*Sono un donatore di sangue. A Sant’Eufemia sono attive due associazioni per la raccolta delle donazioni, Avis e Adspem; regolarmente, i giornali locali denunciano la cronica, drammatica carenza di sangue nelle strutture ospedaliere, esortando la popolazione a donare: eppure, sebbene nel nostro paese operino due realtà, la risposta eufemiese è scarsa. L’associazione di cui faccio parte vanta un gran numero di tesserati: tra questi, c’è chi riesce a donare assiduamente; c’è chi, per sopraggiunti limiti di età o di salute, non può donare, spendendosi comunque in maniera encomiabile per la causa; c’è chi, nonostante essere in condizioni ottimali per effettuare la donazione non sia agevole, ci prova sempre. E poi c’è chi alle donazioni non lo incontri mai. Ho più rispetto per chi non fa niente, che per chi finge di fare. Prima di continuare devo però confessare il mio peccato originale: per destare e spronare la mia attenzione, mi è stato necessario sentir fischiare le pallottole vicine, maledettamente vicine. Non voglio raccontare cosa mi ha scosso dal mio torpore e motivato, appartiene al mio vissuto più intimo, però è innegabile che per svegliarmi c’è voluto uno scappellotto ben assestato. Mai mi sarei fermato a riflettere sul fatto che spesso, molto più spesso di quanto si possa immaginare, un medico debba sostituirsi a Dio nello scegliere a chi dare una speranza di vita con il poco sangue a disposizione. Mi è stato detto che un dio cinico, seppur combattuto dentro un camice troppo stretto e che mai più sentirà candido, davanti alla scelta fatale salva il bambino e condanna il vecchio. E davanti a due bambini?
L’inspiegabile vola ad ali spiegate. Perdonate il banale gioco di parole ma personalmente ho sempre preferito la potenza disarmante dell’ironia al nichilismo dell’aggressività “di posizione”. Inutile scontrarsi frontalmente con l’ignavia e l’apatia di chi pensa di fare la sua parte pascolando compulsivamente sui vari social, salvo poi sparire all’atto pratico. Che, diciamocela tutta, se ti azzardi a muovere critica (una volta nobile presupposto, volano di miglioramento) al modus operandi imperante vieni prontamente tacciato di arroganza e mancanza di rispetto verso posizioni diverse dalla tua. Ma tant’è. Ci indigniamo sbigottiti per gli sconvolgenti risvolti dell’apertura di una lettera di Maria (no, non quella, l’altra, quella di canale 5…) ma non ci accorgiamo delle criticità attorno a noi. Palpitiamo per una noce di cocco sparita sull’isola dei famosi e sbuffiamo alterigia in attesa che al tg termini il servizio sui gommoni della disperazione. Eppure, basta poco. Non “basterebbe”, condizionale-alibi di fatalisti e disfattisti: “basta”, indicativo che non offre zone d’ombra di dubbia interpretazione. Purtroppo viviamo in un contesto storico basato sui punti esclamativi, sull’eclatante: se non fa notizia, audience, non interessa. È davvero così? Per conto mio, agli eroi da blockbusters cinematografici preferisco gli eroi invisibili di tutti i giorni, quelli che una cosa la fanno solo perché va fatta.
“Donare è ricevere”: questo lo slogan della mia associazione. Non ho detto quale sia delle due e non lo farò, non è importante. L’importante è donare, con chi è un dettaglio irrilevante.

*Luis Forgione, donatore

mercoledì 20 febbraio 2019

Un paese dormitorio



Provate a fare un giro per le strade del paese anche soltanto dopo le 21.00, non a mezzanotte. Un deserto. Incrocerete qualche rara macchina, a volte neanche quella. A me mette tristezza questo lento spegnersi di candela. Nell’ultimo decennio Sant’Eufemia ha avuto un crollo, è inutile girarci attorno. Come una persona anziana che di colpo si sveglia pieno di acciacchi e, a un certo punto, si lascia andare. I segnali c’erano già, anche prima di dieci anni fa. Perché l’emorragia di giovani prima o poi la paghi in termini di vitalità, di voglia di cambiare le cose, di spirito combattivo. Di dire: «Ci provo, comunque vada ci provo».
Si vive rannicchiati sulle proprie piccole certezze, che danno un minimo di tranquillità a chi le possiede. Ma per lo più si sopravvive, in tutti i sensi. Non è soltanto questione di economia, anche se i soldi sono oggi purtroppo al vertice della scala dei valori. È proprio apatia, come se niente potesse avere importanza al di là del proprio superbo deretano. Un paese rassegnato al declino, che ha subito una sorta di mutazione genetica. Che si indigna poco o niente, che ha fatto del quieto vivere la propria filosofia di vita. E che aspetta a bocca aperta. «Chi me lo fa fare?»: tutto ruota attorno a queste cinque miserabili parole. Non eravamo così. No, non eravamo così. Timidi, impauriti, servili.
E mentre una sorta di mutazione genetica sta stravolgendo il nostro stesso carattere, la nave affonda. Non basta ordinare all’orchestra di continuare a suonare. La nave affonda e là sopra ci stiamo più o meno tutti.
A Sant’Eufemia c’erano due filiali di banca: chiuse entrambe. Il centro di riabilitazione “Chirico” dava lavoro e forniva un servizio di assistenza fondamentale per i disabili del comprensorio: chiuso. L’associazione turistica Pro loco, dopo vent’anni, ha chiuso i battenti, preceduta dall’associazione culturale Sant’Ambrogio. Non ci è rimasta nemmeno la squadra di calcio, sparita; mentre il tennis aveva tirato le cuoia già da tempo. Ogni tanto ne ricordano funzione e gloria qualche lavoro di ristrutturazione del campo sportivo o la ritinteggiatura di quello da tennis, dovesse un giorno succedere un miracolo. Per chi crede nei miracoli.
Ricordi di un passato che sembra lontanissimo, mentre dietro gli scuri di questo moderno e triste dormitorio ognuno coltiva la propria solitudine.

lunedì 11 febbraio 2019

La Giornata mondiale del malato con l’Agape


La Giornata mondiale del malato è tra le iniziative più significative che l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” celebra annualmente. Per questa XXVII edizione, incentrata sulla gratuità e sulla logica del dono («Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date»), sono stati diversi i momenti ai quali i volontari hanno partecipato.

Durante la mattina sono state effettuate le visite domiciliare agli ammalati, mentre il pomeriggio è stato caratterizzato dalla condivisione della Giornata con il parroco don Marco Larosa.
Alcuni volontari hanno trasportato la statua della Madonna di Lourdes presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”, dove il parroco ha condotto la recita del Santo Rosario e impartito il sacramento dell’Unzione degli infermi.

Successivamente don Marco ha celebrato la Santa Messa, nel corso della quale il presidente Iole Luppino ha letto la “preghiera dei fedeli” e ricordato i volontari dell’Associazione che non sono più tra di noi:
«Signore, noi volontari ti ringraziamo per quello che Anna, Adelina, Antonella e Marco ci hanno dato e insegnato in tanti anni di amicizia. Ti chiediamo che adesso nel tuo Paradiso possano vegliare sulle loro famiglie e sull’Agape, di rafforzare in ogni volontario il desiderio di impegnarsi per gli altri e di risvegliare nei giovani la voglia di scoprire la bellezza di donarsi».

A ricordo della Giornata del malato 2019, l’Agape ha consegnato un rosario nel corso delle visite domiciliari e omaggiato la R.S.A. “Messina” con un quadro recante l’effigie della Madonna di Lourdes.


lunedì 4 febbraio 2019

5 febbraio 1783: ’u fracellu a Sant’Eufemia d’Aspromonte


Sono quasi le 13 di un giorno come tanti, il ritmo della vita dei contadini e dei pastori scandito dai consueti lavori di un’economia di sussistenza. Molti sono ancora a tavola, intenti a consumare il pranzo frugale della povera gente. Ma il 5 febbraio 1783 non sarà un mercoledì come gli altri: è il giorno del “fracellu”, una terrificante ondata sismica che provoca nella Calabria meridionale 30.000 vittime e 31.250.000 ducati di danni.
Secondo il geologo Dolomieu, bastò la prima scossa (magnitudo 7.1) “per rovesciar tutto”: «I paesi e tutte le case di campagna furono smantellati nel medesimo istante. I fondamenti parvero come vomitati dalla terra che li rinchiudeva. Le pietre furono attrite e triturate con violenza le une contro le altre, e la malta che le riuniva fu ridotta in polvere».
Uno scenario apocalittico descritto da diversi contemporanei, tra i quali Andrea Gallo (professore nel Collegio di Messina): «Cominciò a sentirsi tremare la terra da prima leggermente, indi con forza tale, con tal muggito e con scotimenti così varj ed irregolari che il suolo videsi ondeggiare, le muraglie muoversi da ogni lato, urtarsi insieme negli angoli, triturarsi e crollare, saltare i tetti per aria, slogarsi i pavimenti delle stanze, infrangersi le volte, rompersi gli archi più forti, e, senza punto cessare il terribile movimento, con tre o quattro continuate scosse, che si succedettero l’una all’altra, rovinarono le case, caddero i superbi palazzi, precipitarono le chiese ed i campanili, si aperse con lunghe fenditure il terreno».
I sussulti della terra proseguono fino al 28 marzo, quando si verifica l’ultima violentissima scossa, di magnitudo 7.0 (altre di poco inferiori vengono registrate nei giorni 6, 7 febbraio e 1 marzo, oltre a un migliaio di minore entità). Il letterario diplomatico Michele Torchia annota: «Se ne sono contate fino al giorno 3 del corrente Marzo in sì gran numero tra forti e leggiere, che cogli avvisi posteriori parlasi di un tremuoto continuo […]. Il loro movimento è stato di ogni genere, di sussulto, ondulatorio, di trepidazione. Non è stato moto della terra, ma un rovescio totale della sua superficie».
Lo sconvolgimento del sistema idrogeologico produce effetti devastanti: liquefazione delle sabbie, frane che ostruiscono il corso dei torrenti deviandone il corso o dando origine a paludi e laghi. Intere montagne spariscono o vengono squarciate, ovunque si aprono voragini che ingoiano “tutto ciò che si è presentato al loro abisso”: «gli alberi vi sono stati svelti dalle loro radici, le Città rovesciate dalle loro fondamenta; le acque sorgive vi hanno perduto o nascosto il loro corso; il fiume Petrace assai profondo vi ha lasciato il suo letto per tre giorni; quello di Rosarno ha straripato sulle campagne; e quello di Sitizano ha formato un lago tra i monti congiunti».
Molti centri della costa tirrenica reggina, della piana di Gioia Tauro e dell’entroterra aspromontano (così come del Vibonese) vengono letteralmente rasi al suolo: Terranova, Polistena, Oppido, Santa Cristina, Palmi, Scilla, Bagnara. I superstiti vagano per le campagne laceri e affamati, senza neppure un po’ di fuoco per riscaldarsi. Ovunque vi sono cadaveri, che vengono infine sepolti in qualche modo, dove capita: «La mortalità – conclude Torchia – è stata grande; quivi anche par che il flagello abbia fissato il teatro della Carneficina».
Sant’Eufemia d’Aspromonte non viene risparmiata. Su una popolazione di 3.160 abitanti, il terremoto miete 945 vittime (302 uomini, 414 donne, 216 bambini, 13 monaci); i danni stimati ammontano a 300.000 ducati. Il paese per tre quarti è situato sul versante e lungo le rive del torrente “Peras” (o “Marino”), mentre il rimanente quarto occupa un piano elevato, denominato “Petto del Principe” e al quale si giunge “per una via assai erta e lunga più che quattrocento metri, che sale rapidamente verso una difficile altura che chiamasi “Calvario”: viene quasi completamente distrutto.
In una relazione (databile tra il 1792 e il 1824) sottoscritta da 55 cittadini davanti al notaio Giuseppe Rechichi, si legge: “La cittadinanza alla vista spaventevole della rovina di tutti gli edificij del paese, d’innumerabili cadaveri degli estinti concittadini, fra le grida de’ semivivi e feriti, in mezzo insomma della confusione e del timore, che ingombrava i sensi di ogn’uno, non seppe altrove ritrovarsi un asilo che nei contigui giardini del Petto e Pezzagrande, provedendosi a proporzione del bisogno di malconcie baracchelle di tavole, una delle quali fu destinata al divin culto ed alla conservazione de’ Sagramenti”.
Tuttavia, nel volgere di poco tempo la popolazione ritorna nelle proprie case ricostruite, “sol colà rimanendovi un avanzo della gente bassa, vile, ed inosservante de’ generali e comunali principij di ben vivere”. La baracca utilizzata come chiesa viene distrutta e i sacramenti trasferiti nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, riedificata ed elevata a “chiesa Parrocchiale e Madre”, preferita alla vecchia chiesa Matrice anche perché situata al centro del paese: “per commodo di quell’avanzo del popolo rimasto al Petto si [costruì] una Chiesa filiale [dedicata alla protettrice Sant’Eufemia], ed altra consimile nell’antico suolo della diruta Chiesa Matre [già sotto il titolo di Sant’Eufemia, assunse il nuovo titolo del Rosario], per commodo di coloro che nel convicinio della stessa abitassero, l’una e l’altra a spese della C.[assa] S.[acra]”.
Tra gli effetti del terremoto va infatti sottolineato il trasferimento della parrocchia dalla chiesa “Matrice” a quella di Santa Maria delle Grazie. Il monastero di San Bartolomeo, invece, non verrà mai più ricostruito. I sette monaci (su venti) superstiti si trasferiscono nella “grangia” del “Belvedere”, dove dalla seconda metà del 1700 dispongono di un baraccone dotato di quattro camere, cucina, refettorio e cappella; mentre attorno cominciano a ergersi sparse abitazioni di contadini, in direzione della feconda pianura della “Pezzagrande”.
Proprio in quest’area (“Petto del Principe, Pezzagrande e Vigna di Belvedere”), secondo il governo borbonico, va ricostruito il paese. Il piano redatto dall’architetto Giuseppe Oliverio e rettificato dall’ingegnere Vincenzo Ferraresi consta di tre rettangoli: “Uno stretto e allungato con le vie ortogonali disposte in senso SSW-NNE e NNW-SSE; un altro, maggiore di forma, all’incirca quadrato con le vie pure tagliatisi ad angolo retto, ed infine il terzo doveva sorgere nelle adiacenze del Calvario, cioè della piccola cappella che ancora oggi si scorge nella parte alta di via Roma”.
Ma non tutti concordano sulla necessità di abbandonare il “Vecchio Abitato”. Più di un secolo dopo, quando il terremoto del 1908 avrebbe riproposto più o meno negli stessi termini la questione dell’edificazione della “Pezzagrande”, i fautori del trasferimento nel nuovo sito rispolverano quel precedente: «Si era già con gran fervore, da tutto il popolo, dato principio alla buona opera della riedificazione del paese in “Pezzagrande” e “Petto del Principe”, quando un prete mestierante, premuroso di secondare e favorire gl’interessi del principe di Scilla, allora feudatario delle terre della “Pezzagrande”, cinse la stola, buon mezzo qualche volta di lucrose ciurmerie, si ammantò di piviale, inalberò la croce e nel nome del Signore predicò alla folla superstiziosa la necessità e il dovere della riedificazione nella vecchia area del paese distrutto; perché ivi erano le afflitte anime dei morti, preganti pietà dai memori congiunti, ivi i simulacri dei santi e delle madonne, invocanti dal popolo il ritorno nei vecchi santuari da ricostruire. E il prete coi suoi pochi proseliti, cointeressati con lui, la ebbe vinta, e l’unità, la bellezza, la igiene, il commercio, la civiltà soggiacquero; la “Pezzagrande” fu abbandonata ed il paese fu, disordinatamente e con ristrette viuzze, riammassato sulla vecchia rea angusta, malferma, minacciata dalle frane, antigienica e fatalmente soggetta a disastri futuri, inevitabili».
Il progetto Oliverio-Ferraresi non viene quindi realizzato, se non in minima parte nel “Petto”. Diverso, invece, sarà l’esito dopo il 1908, quando la resistenza di numerosi eufemiesi verrà superata grazie ad una soluzione di compromesso che consentirà l’edificazione del nuovo sito, ma anche la permanenza della popolazione in quello vecchio.

*Nella foto, la pianta del progetto Oliverio-Ferraresi
**Fonti
- Carbone-Grio, Domenico: I terremoti di Calabria e di Sicilia nel secolo XVIII (ristampa edizione 1884), Barbaro editore 1999
- Iero, Caterina: Sancta Euphemia. Cenni storici, vita civile e costume di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Laruffa editore 1997
- Luzzi, Vincenzo Francesco: La Comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna, in: Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, Rubbettino editore 1997
- Pentimalli, Pietro (e altri): Per la riedificazione di Santeufemia d’Aspromonte, 14 ottobre 1911
- Principe, Ilario: Città nuove in Calabria nel tardo Settecento, Frama Sud 1976
- Rao, Anna Maria: La Calabria nel Settecento, in: Storia della Calabria moderna e contemporanea (a cura di Augusto Placanica), Gangemi editore 1992
- Torchia, Michele: Tremuoto accaduto nella Calabria e a Messina alli 5 febbraio 1783 descritto da Michele Torcia Archiviario di S.M. Siciliana e Membro della Accademia Regia (a cura di Giovanni Russo), Nuove edizioni Barbaro 2003
- Tripodi, Vincenzo: Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte (ristampa edizione 1945, a cura di Antonino Fedele), Vannini editrice 1999

venerdì 1 febbraio 2019

Mila chilometri, mila attimi



Si fa presto a dire: «Era solo una macchina». Lo so che era solo una macchina. Però ci pensi. Pensi a quanta vita, in diciassette anni e 413.000 chilometri. Ero da poco tornato dagli Stati Uniti, dove con un team di ricercatori universitari conducevamo uno studio sugli italo-americani di terza generazione: New York era ancora sotto shock per l’attacco alle Torri Gemelle del settembre precedente. Dall’altra parte dell’Atlantico avevo assistito all’anatema scagliato da Nanni Moretti, a piazza Navona, contro l’intera classe politica della sinistra: «Con questi dirigenti non vinceremo mai». Mi sentivo un po’ girotondino pure io, lo ammetto.
Il mondo sembrava comunque andare secondo i miei progetti. Probabilmente proprio per questo arrivò lei, la Saxo: per affrontare meglio la discesa. Nonostante la stroncatura, vergata su carta da lettera (preistoria), di un mio carissimo amico: «Non ti posso lasciare un attimo che combini danni. Hai comprato una macchina a tre porte e senza aria climatizzata. Male, molto male».
Più tardi sarebbe arrivato il tempo del disincanto, la Saxo unica superstite di un sogno infranto. Ma anche testimone di una seconda vita.
Diciassette anni sono un tempo lunghissimo, soffiato sul palmo di una mano come polline.
Pensi all’allegria e alle lacrime. Alla felicità condivisa con chi ha voluto salirci, sulle note di una canzone. A quel viaggio di dolore fino in Francia. Ai libri nelle scatole chiuse con il nastro adesivo. Alla sabbia delle colonie estive. Alla neve che diventa acqua. Alle partite di calcio a cinque. A matrimoni, funerali, lauree. A fiocchi rosa o azzurri. Alle griglie e alle buste di carne. Alle birre di notte. Ai fogliettini volanti e al bloc notes nel cruscotto. Alle parole pensate, da dire, non dette. A chi c’era e a chi non c’è più. Collezioni di attimi.
Era solo una macchina. Eppure, prima di consegnarla allo sfasciacarrozze, non ho potuto fare a meno di darle un bacio sul vetro.