martedì 26 marzo 2019

Palazzo Capoferro


La maggior parte della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte è rimasta sepolta sotto le macerie delle scosse telluriche che nel corso dei secoli ne hanno più volte distrutto le abitazioni. In particolare, il terremoto del 1783 e quello del 1908 hanno pressoché cancellato le vestigia del suo passato. Sono ben poche le strutture architettoniche (o parti di esse) del XVIII e XIX secolo giunte ai nostri giorni, anche perché, laddove la natura non aveva completamente raso al suolo, l’uomo ha distrutto quel che era rimasto in piedi.
Palazzo Capoferro è tra i pochi ruderi in qualche modo sopravvissuti. “In qualche modo”, appunto. Un portale bellissimo ma interamente ricoperto dai rovi, che ha richiesto l’intervento della falce per scoprirlo fino al frontone. I muri esterni e le pareti interne rimasti in piedi, anch’essi conquistati dalle erbacce; i pavimenti inesistenti; le scale interne completamente coperte dalla terra; la scalinata esterna che conduceva all’ingresso principale e che in origine era ampia almeno il doppio, diroccata; nelle stanze dalle finestre con le inferriate adibite a deposito, ovunque cocci di giare; quasi inaccessibile il giardino interno.










Non è facile notare il rudere, i cui piani superiori sono crollati. Si trova infatti ubicato più o meno a metà della salita del “Calvario” (via Roma), la strada che collegava (e collega) il “Vecchio Abitato” con il “Petto del Principe”, un pianoro che si estendeva verso l’area, interamente edificata dopo il terremoto del 1908, degli ampi e fecondi terreni agricoli della “Pezzagrande”. Nascosto dalle abitazioni costruite nell’area nel corso del XX secolo, oggi si presenta agli occhi del visitatore all’improvviso: una sorta di apparizione in fondo a uno dei vicoli del “Calvario”.
Palazzo Capoferro è una costruzione ottocentesca situata in una posizione simbolicamente significativa: in alto, rispetto al centro urbano dell’epoca. In alto, da dove le famiglie facoltose (gli gnuri) dominavano sul popolino sovrastandone anche fisicamente i miseri tuguri. Accanto ai Capoferro abitavano i Fimmanò e i De Angelis Grimaldi, poco più distanti i Visalli.
Nel XIX secolo fu la dimora dell’avvocato e ricco proprietario terriero Paolo Capoferro (cl. 1823), che aveva sposato Maria Rosa Fimmanò (cl. 1827), sorella del commendatore Michele (cl. 1830), il deus ex machina della politica locale per sessant’anni a partire dalla seconda metà dell’800. Le famiglie Capoferro-Fimmanò, già protagoniste in epoca pre-liberale (entrambi i cognati, Paolo e Michele, erano stati membri del Decurionato e avevano ricoperto la carica di sindaco sotto i Borboni), continuarono a dominare la scena anche dopo l’unità d’Italia. Paolo Capoferro fu consigliere comunale, assessore, prosindaco e, per due trienni consecutivi (1870-72 e 1873-75), sindaco. Michele Fimmanò, più volte sindaco o prosindaco, fu inoltre consigliere provinciale ininterrottamente dal 1868 al 1913, anno della sua morte.
Palazzo Capoferro fu ereditato da Rosaria (cl. 1863) e portato in dote al medico chirurgo Saverio Greco di Delianuova (cl. 1857), dopo il matrimonio celebrato a Sant’Eufemia il 18 luglio 1889. Quindi passò al figlio Domenico (cl. 1891). E proprio nei pressi del palazzo (conosciuto per tale ragione anche come Palazzo Greco), Domenico, all’epoca podestà di Delianuova, fu assassinato il 12 settembre 1936.
Su un terreno posto più in alto rispetto al palazzo, anch’esso di proprietà dei Capoferro-Greco, sorge infine una costruzione che nella prima metà del Novecento ospitò una scuola elementare. Dotata di cucina, nell’immediato secondo dopoguerra funzionò da mensa non soltanto per gli alunni della scuola, ma anche per i tanti bambini poveri del paese.




domenica 24 marzo 2019

Qualche considerazione a margine dell’inaugurazione dell’aula consiliare


I relatori che ieri sono intervenuti nella cerimonia di inaugurazione della nuova aula consiliare, interessata da un pregevole lavoro di restyiling, hanno giustamente sottolineato l’importanza “storica” dell’evento. Ne convengo e non posso che unire i miei complimenti a quelli espressi nel corso della serata nei confronti di Nicola Dardano, che è riuscito con la sua arte a sintetizzare la storia della nostra comunità e a farla “vivere” nel luogo politicamente più simbolico del perseguimento del bene comune. Ed è stato emozionante ascoltare le parole di Antonio Crea, cittadino eufemiese emigrato da quasi mezzo secolo a Roma, che ha voluto finanziare i lavori per testimoniare l’amore per la propria terra d’origine.
Ho molto apprezzato le parole del moderatore della serata, Cosimo Petrolino, in particolare il passaggio nel quale ha sottolineato l’importanza di “unione”, pur nella diversità di ruoli e responsabilità tra maggioranza e opposizione. Sono d’accordo: su alcune questioni, su alcune tematiche di fondo, sui caratteri e sui valori del nostro essere eufemiesi non possiamo e non dobbiamo dividerci. Storia e memoria collettiva sono un patrimonio che non ha bisogno di essere messo ai voti: siamo la storia che si è sviluppata prima di noi e abbiamo il dovere di difendere e tramandare quella storia alle nuove generazioni.
Ieri non mi sono sentito un consigliere di opposizione, ma un semplice cittadino eufemiese, orgoglioso della storia della propria comunità ed emozionato per il gesto nobile e per le parole d’amore di Antonio Crea.
 Lo svolgimento della serata non ha previsto interventi del pubblico. Avrei detto queste poche parole, che ho comunque espresso ai diretti interessati. Ma avrei anche aggiunto una piccola proposta, peraltro non nuova, considerato che per la prima volta la esposi in questo blog il 24 marzo 2014. La proposta è semplice e credo anche di facile realizzazione, considerato che i due riquadri realizzati alle spalle della presidenza del consiglio comunale si prestano perfettamente ad accogliere:
1) la riproduzione dell’epigrafe composta dallo storico Vittorio Visalli in occasione (5 luglio 1914) della posa della prima pietra del vecchio Palazzo municipale nell’attuale sede:
«Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire»;
2) la riproduzione della lapide in marmo dedicata al martire della rivoluzione partenopea Carlo Muscari a cent’anni dalla sua morte:
«Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio».

giovedì 21 marzo 2019

La chiesa delle Anime del Purgatorio a Sant'Eufemia d'Aspromonte


La chiesa delle Anime del Purgatorio (o “del Purgatorio”) di Sant’Eufemia è uno scrigno di tesori, purtroppo inaccessibile per la maggior parte dell’anno. La costruzione attuale risale agli anni Venti-Trenta del secolo scorso, ma le sue origini risalgono più indietro nel tempo. Viene infatti menzionata per la prima volta negli atti della visita pastorale che il vescovo di Mileto fece a Sant’Eufemia nel 1706. Ma va sottolineato che la documentazione vescovile presenta un vuoto di 120 anni, risalendo al 1586 la precedente visita pastorale registrata. In quella circostanza il vescovo Marco Antonio del Tufo aveva censito quattro chiese, dedicate rispettivamente a Sant’Eufemia, Santa Maria delle Grazie, San Rocco e San Giovanni. Per cui è ragionevole collocare la data dell’edificazione della chiesa del Purgatorio in un arco temporale che va dal 1586 al 1706.
Secondo lo studioso Vincenzo Francesco Luzzi, nel Settecento la chiesa delle Anime del Purgatorio era la più attiva. La congregazione omonima era aggregata alla chiesa di Sancta Maria de Suffragiis (Roma) per i suffragi e per le indulgenze: «I fratelli indossavano sacco e scapolare nero con pileo e bacolo “ad morem peregrinorum”; facevano la processione di San Tommaso Apostolo e intervenivano alle processioni generali; facevano il I° Lunedì con esposizione del Santissimo; avevano le funzioni delle XL Ore, che nel 1728 si celebravano “pro circulo”, cioè erano circolari nelle chiese di Sant’Eufemia».
Negli atti delle visite pastorali effettuate nel XVIII secolo, relativamente alla chiesa del Purgatorio vengono annotati gli altari di San Tommaso Apostolo, di Maria SS. del Suffragio, di San Francesco Saverio, di San Filippo Neri, del Crocifisso, di San Luigi Gonzaga e di San Carlo Borromeo; la confraternita di San Francesco Saverio e quella della Beata Vergine dei Sette Dolori, entrambe composte da soli ecclesiastici.
La chiesa fu rasa al suolo dal terremoto del 1783, quindi ricostruita e nuovamente crollata dopo il sisma del 1908; fu infine riedificata tra gli anni Venti e Trenta del Novecento.
Tra le opere d’arte che custodisce, oltre ad oggetti di arte sacra realizzati artigianalmente e di rara bellezza (ostensorio, paramenti della omonima confraternita, croci), un posto particolare nel sentimento popolare è occupato dai lavori di due grandi pittori eufemiesi: Rocco Visalli (deceduto a soli 23 anni, nel 1845) e Carmelo Tripodi, artista poliedrico e fecondo. Del primo è possibile ammirare “San Francesco” e “Santa Filomena”; del secondo, la “Deposizione dalla croce” e “San Rocco tra gli appestati”. Di particolare interesse è anche la statua della “Madonna del Suffragio” (1832) di Raffaele Reggio, artista proveniente da Serra San Bruno; così come il dipinto posto alle spalle dell’altare maggiore, raffigurante la “Madonna delle anime del Purgatorio”: una pala ottocentesca restaurata circa trent’anni fa da un altro grande artista eufemiese, Graziadei Tripodi (il “restauratore al servizio di Dio”), che ha riportato alla luce diversi soggetti incredibilmente coperti al termine di un precedente restauro.

Deposizione dalla Croce - Carmelo Tripodi

San Rocco tra gli appestati - Carmelo Tripodi

San Francesco - Rocco Visalli

Santa Filomena - Rocco Visalli


*Fonti:
- Carmela Cutrì – Eufemia Tripodi, Cosma e Damiano. Medici-Martiri-Santi nella storia del culto in S. Eufemia d’Aspromonte, Virgilio editore (1998).
- Luzzi, Vincenzo Francesco, La Comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna, in: Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, Rubbettino editore (1997).

giovedì 14 marzo 2019

L’Alfiere della Repubblica Roman Moryak: la premiazione


Si è svolta ieri al Palazzo del Quirinale la cerimonia di consegna degli Attestati d’Onore ai 29 nuovi Alfieri della Repubblica, giovani nati tra il 1999 e il 2008 “che si sono distinti per la loro testimonianza, il loro impegno, le loro azioni coraggiose e solidali” e che rappresentano modelli positivi di cittadinanza, “esempi dei molti ragazzi meritevoli presenti nel nostro Paese”.
Tra i premiati anche Roman Moryak (14 anni il 30 maggio), nato a Reggio Calabria da genitori ucraini che risiedono da circa 15 anni a Sant’Eufemia d’Aspromonte, con la seguente motivazione: «Si è distinto per la passione e l’impegno dimostrati prima nello studio del sassofono, poi nell’attività di calciatore, e quindi in quella di scacchista. Nei tornei di scacchi il suo valore è molto apprezzato e già diversi trofei sono entrati nella sua personale bacheca, oltre a piazzamenti importanti a livello regionale e nazionale. Essendo figlio di immigrati ucraini, nella sua comunità è divenuto un simbolo positivo di integrazione».
Si tratta di un riconoscimento del quale andare fieri come comunità eufemiese per il suo alto valore simbolico, in un momento storico particolarmente difficile per le tematiche legate al concetto di integrazione.
Nel suo intervento il Presidente della Repubblica Mattarella, riferendosi allo stupore dei giovani premiati in virtù di comportamenti da essi stessi considerati “normali”, ha sottolineato l’importanza di “far vedere che questa è la normalità della vita, che aiutare gli altri, aiutare chi è in difficoltà, rende la vita migliore, fa vivere meglio se stessi e la comunità in cui si è inseriti”: «Ed è quel che avete fatto, in tanti modi diversi, ciascuno con un’iniziativa particolare, dimostrando che ogni persona è irripetibile, ma che tutte queste risorse individuali confluiscono nella vita comune, nella convivenza. Non siete i soli a fare cose così belle da sottolineare; tanti altri ragazzi come voi hanno fatto cose analoghe. Voi li rappresentate tutti, perché il nostro Paese è pieno di ragazzi che hanno la vostra stessa sensibilità. È importante però farla conoscere, far capire che questa è la regola della vita, la normalità, che dovrebbe essere sempre praticata da tutti».
«Vi ringrazio molto – ha concluso il capo dello Stato – perché avete dimostrato che questa è la vita del nostro Paese e che la solidarietà è l’impalcatura della convivenza. Nulla regge senza impalcatura. La nostra società, il nostro vivere insieme non starebbe in piedi senza la solidarietà. Voi l’avete praticata e dimostrata».
Complimenti a Roman e auguri anche ai genitori, Igor e Ivana.
*La fotografia e il video della consegna degli attestati sono condivisi dal sito istituzionale della Presidenza della Repubblica (www.quirinale.it)

martedì 12 marzo 2019

Oggi non è un bel giorno



Chi ha subito un attentato conosce bene la prostrante sensazione di amarezza e di incredulità che ti resta a lungo dentro. Vorresti capire perché ti è capitata una cosa tanto brutta e vile. Per mesi o anni, o per sempre, temi che possa riaccadere. Di notte, poi, ogni rumore che somigli a uno scoppio ti fa saltare dal letto.
Non è paura, i vigliacchi non fanno paura perché soltanto di quello sono capaci: agire nell’ombra, fare un “dispetto”. Però la serenità di una famiglia viene turbata.
Ho letto più volte la reazione “a caldo” di Ilaria: «Ho paura, non di voi e del vostro lurido gesto, mi fa paura la vostra mentalità, mi terrorizza il solo pensiero che mio fratello debba crescere in un ambiente così ostile e miserabile. Io sono “scappata” ma con la nostalgia nel cuore e la voglia di tornare per poter valorizzare i luoghi dove sono nata e cresciuta, ma ad oggi non vorrei mai più ritornare e se potessi farei fuggire le persone che porto nel mio cuore».
Sono parole che mettono tristezza, proprio perché pronunciate da una giovane. Chi resterà in questo paese? Che resterà di questo paese? Mi angoscia il pensiero di una buia direzione che intravedo, che ogni tanto provo a indicare, sconfortato, su questo blog. E che ha suscitato anche la reazione dei soliti tromboni ammantati dalla retorica del “viviamo in un posto bellissimo”.
Io odio la retorica. Non bisogna generalizzare, su questo concordo. E bisogna sottolineare, valorizzare le cose e le persone belle che pure ci sono. Credo di farlo in questo spazio virtuale e nella vita di tutti i giorni. Però non si fa un buon servizio al paese nascondendo la testa sotto la sabbia. Bisogna anche essere onesti, con la propria coscienza e nei confronti proprio della parte sana della nostra comunità. Sant’Eufemia non è il migliore dei posti possibili, così come la Calabria non è l’Eden per i suoi tramonti, il buon cibo, il mare e la montagna che sono così attaccati che sembrano fare l’amore.
È il secondo attentato, a distanza di poco tempo, che colpisce persone perbene di Sant’Eufemia. Qualche mese fa l’incendio del furgone da lavoro dell’idraulico Mimmo Cammarere, un uomo che nella sua vita ha solo e sempre lavorato, sin da quando era un ragazzino. Ora è toccato alle famiglie Papalia-Bagnato.
Tutto questo è vergognoso. Le persone perbene non si toccano. Bisogna avere rispetto per chi lavora dalla mattina alla sera, con garbo e con il sorriso sulle labbra. Per chi trasmette ai propri figli con l’esempio quotidiano il valore dell’unione familiare e la religione del lavoro, sottolineati da Maria: «Tutti insieme, sin dall’inizio, per toccare con mano ciò che nella vita non deve esser dato per scontato e capire che nulla si ottiene senza il sacrificio».
Riporto i commenti di Ilaria e Maria, nella speranza che siano letti da tanti altri giovani come loro. Che possano servire da monito. E faccio mie le parole postate da Francesca sul suo profilo Facebook, sotto una foto bellissima, per rispondere “con i nostri sorrisi” ad un gesto così vile, perché rappresentano la risposta dell’intelligenza alla barbarie: «Dovreste solo prendere esempio da una famiglia bella, unita, che lavora duramente e onestamente. È questo che vi auguro: essere come noi».

lunedì 4 marzo 2019

Le medaglie di Giuseppe Silvani

Medaglia di bronzo al valore militare
Due anni fa scrissi di Giuseppe Silvani, soldato eufemiese nella prima guerra mondiale che alla fine del conflitto fa sostanzialmente perdere le proprie tracce negli Stati Uniti, da dove era rientrato in Italia per essere arruolato nell’esercito. Lo stesso foglio matricolare, conservato presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria, si conclude con l’annotazione “non è stato possibile completarlo risultando l’interessato irreperibile”.
L’articolo ha navigato sulle onde del web fino ad arrivare, qualche giorno fa, davanti agli occhi di Margie Silvani, nipote dello “sconosciuto eroe di Sant’Eufemia”. Grazie a Margie, che vive a Cedar Knolls (New Jersey), possiamo aggiungere nuovi tasselli alla biografia del trovatello eufemiese medaglia di bronzo al valore militare e raccontare una piccola storia di emigrazione che si inserisce nella grande storia dell’emigrazione italiana nel secolo scorso.
Qualche vuoto rimane: ad esempio non sappiamo chi adottò il piccolo Giuseppe Silvani, che tra le altre cose ha lasciato in eredità a figli e nipoti le due fototessere che Pasquale e Domenico (il cognome non è specificato) gli spediscono da Sant’Eufemia nel luglio del 1962 firmandole sul retro, entrambi, “il tuo caro fratello”.
I due probabili fratelli di Silvani, da sinistra: Pasquale e Domenico
Apprendiamo invece che nel 1912 Silvani aveva sposato Giuseppa Carzo (nata a Sinopoli), poco tempo prima del suo primo viaggio negli Stati Uniti a bordo della nave “Madonna”, che sbarca a Ellis Island il 15 marzo 1913.
Le medaglie e gli attestati delle onorificenze custoditi da Margie confermano il dato della lacunosità delle fonti documentarie sulla grande guerra e completano l’elenco che era stato possibile stilare sulla base delle informazioni riportate sul foglio matricolare. L’onorificenza più prestigiosa conferita a Silvani è la medaglia di bronzo al valore militare, guadagnata in un’azione di guerra sul Monte San Marco il 23 maggio 1917, che gli vale anche l’assegnazione (“per le ferite di shrapnel riportate alla gamba destra”) del distintivo d’onore, un galloncino d’argento che i soldati feriti in combattimento applicavano alla divisa, sul braccio destro. Seguono le altre decorazioni: la medaglia commemorativa della guerra 1915-1918; la medaglia a ricordo della guerra europea (meglio conosciuta come medaglia interalleata della vittoria o medaglia della vittoria); la croce al merito di guerra.
Croce al merito di guerra

Distintivo d’onore


Medaglia interalleata della vittoria


Medaglia commemorativa della vittoria

Infine, l’attestato rilasciato dal ministero della guerra agli italiani rientrati dall’estero per servire l’esercito, che riporta la formula: «All’appello della Patria in armi, accorse sollecito da Oltre Oceano, sfidando le insidie delle navi e dei sommergibili nemici. Partecipò lodevolmente alla lotta per la difesa e il compimento dell’Unità nazionale, meritando la gratitudine della Patria».
Attestato ministero della guerra

A guerra finita Silvani parte nuovamente per gli Stati Uniti e, il 20 aprile 1920, sbarca dalla “Pannonia”. La moglie Giuseppa lo raggiunge con la nave “Taormina” più di un anno dopo, il 27 settembre 1921. In tutto saranno sei i figli nati dal matrimonio di Giuseppe e Giuseppa. I quattro maschi partecipano alla seconda guerra mondiale con l’esercito statunitense, quindi troveranno occupazioni dignitose: Rocco presso il dipartimento dei lavori pubblici, come il padre; Pasquale nei vigili del fuoco; James “Jimmy” Vincenzo nel porto di New York; Michael nella polizia.
Foto del matrimonio di Michael Silvani con Margaret. Da sinistra: Pasquale Silvani, Michael e Margaret, Giuseppa Carzo, Giuseppe Silvani, Rocco Silvani, James Silvani

Delle figlie, Grace e Mildred “Millie”, la prima muore giovanissima in un incidente d’auto, nel 1949.
Grace Silvani
Michael, James e Millie Silvani

Giuseppe Silvani si stabilisce a Pittsburgh (Pennsylvania) e lavora per circa nove anni nelle miniere di carbone. Naturalizzato il 7 gennaio 1926, tre anni dopo si trasferisce a West Orange (New Jersey), città nella quale risiederà per tutto il resto della sua vita (muore nel 1967), impiegato presso il dipartimento dei lavori pubblici, come operaio addetto alla manutenzione delle strade. Ed è proprio grazie al responsabile del dipartimento, Louis Falcone, che nel 1957 la comunità di West Orange viene a conoscenza degli atti di eroismo di Silvani durante la guerra dalle colonne del “West Orange Chronicle”: i tre giorni trascorsi senza mangiare per trarsi in salvo dopo un’incursione in territorio nemico; il ferimento alla coscia nella Decima battaglia dell’Isonzo e i 37 giorni di ricovero in ospedale; la cattura di diversi prigionieri nell’azione premiata con il conferimento della medaglia di bronzo al valore militare. Vicende incredibili commentate da Silvani con semplicità e umiltà disarmanti: «Ho fatto semplicemente il mio dovere, come tutti gli altri soldati».
West Orange Chronicle, 15 luglio 1957

*Margie Silvani è la figlia di Michael, il più piccolo dei fratelli Silvani, scomparso nel 2010 (gli altri erano deceduti in precedenza).