mercoledì 25 novembre 2020

Splendi, Diego

 

Scrivo di te di notte, l’ora del dialogo con le stelle. L’ora dei sogni. L’ora dell’amore. Perché sei stella, sogno e amore. Sei “Pibe de oro” e “mano dei Dios”, sei “Isso”: il liberatore dei popoli oppressi, il riscatto degli scugnizzi, il bambino che grida che il re è nudo mentre attorno il sistema volge lo sguardo da un’altra parte. Per paura o per debolezza. Due sentimenti che non ti appartengono, che non possono appartenere a chi ha respirato la polvere di Villa Fiorito. 
Sono argentini i due più grandi rivoluzionari della seconda metà del XX secolo: Ernesto Che Guevara e tu, Diego. «Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo». Ed è quello che hai fatto salendo le scale degli spogliatoi del San Paolo, il 5 luglio 1984. Caricandoti sulle spalle la rabbia degli ultimi per condurli nella scalata al cielo: sapendo che “la vita è una lotteria di notte e di giorno”, come canta di te Manu Chao. Lo sai meglio di chiunque, Diego: conosci vittorie e sconfitte della vita, quella tua vita che hai spesso maltrattato, ma sempre amato. Sei il Lord George Byron del calcio. Lo sarai per sempre, con quel cuore grande che hai portato anche in un campo infangato di Acerra, per mantenere la promessa fatta ad un bambino malato. E come sorridevi, quel giorno. Per questo la gente ti ama e ti amerà per sempre: come me, con il tuo poster attaccato accanto a quello dell’Inter dei record. 
E allora splendi, continua a splendere, nell’eterno presente in cui vivono gli Dei.

domenica 22 novembre 2020

Il volontariato al tempo del Covid

Tutto è nato per caso, sulla chat Whatsapp dei volontari dell’Agape. Ci siamo detti: «Perché non facciamo una videochiamata collettiva, una sorta di riunione dell’associazione “da remoto”? Giusto per vedersi, per come è possibile con l’emergenza sanitaria che ha cambiato molte nostre abitudini, anche le modalità dello stare insieme. 

Dal piacere di ritrovarsi al lancio dell’idea è stato un attimo: «Perché non utilizzare le potenzialità della tecnologia per continuare le nostre attività?». E così, in questo fine settimana, siamo ripartiti. Non possiamo fare molto, ma fare qualcosa può essere davvero tanto per chi, in fondo, ha principalmente bisogno di compagnia e di calore. Alcuni di noi hanno partecipato ad una videochiamata con gli anziani della RSA “Mons. Prof. Antonino Messina”, grazie alla disponibilità della direttrice Rossana Panarello e, in questo primo collegamento, di Michela Carbone che ha fatto da tramite tra i volontari e gli anziani: qualche scambio di battute, domande, sorrisi. Un’esperienza ripetuta oggi con una tra i ragazzi speciali che in estate partecipano alla colonia estiva e che a turno coinvolgerà anche gli altri. Anche in questo caso, molta sorpresa e tanta gioia sul display a mosaico. 

Non bisogna arrendersi, neanche al lockdown. Per questo siamo decisi ad “esserci” nella nostra comunità, come ci siamo dal 1991: il prossimo, sarà l’anno del trentennale e va festeggiato! A dicembre non potremo mettere in campo le consuete iniziative del “Natale di solidarietà”, ma nel nostro piccolo cercheremo di stare vicino a chi non desidera altro che una carezza, seppure virtuale. Piccoli gesti, sulla scia delle parole di Teresa Sarti, cofondatrice di Emergency, che spiegano il senso delle attività di volontariato: «Se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene».   

venerdì 20 novembre 2020

A futura memoria

Il 20 novembre 1989 moriva Leonardo Sciascia: scrittore ed intellettuale eretico, illuminista e cultore dell’arte del dubbio, protagonista di battaglie civili ancora attuali. Un oracolo inascoltato, che spesso dovette scontare la solitudine: «Mi sembra di aggirarmi nella realtà italiana, non come un veggente, ma come un fantasma». Sciascia professò la religione della ricerca della verità, della difesa del diritto, delle regole, della Costituzione. Gesualdo Bufalino, del quale il 15 novembre è ricorso il centenario della nascita, definì l’opera di Sciascia “un unico grande libro sulla giustizia” e appare oggi come un testamento la citazione dello scrittore e drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt, posta da Sciascia in epigrafe al suo ultimo romanzo “Una storia semplice”: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia». 

Nei mesi scorsi ho avuto modo di rileggere molte opere di Sciascia, in particolare i saggi e gli articoli dedicati ai temi del garantismo e del diritto, alcuni dei quali confluirono nel libro “A futura memoria”. Titolo che mi colpì quando lo lessi per la prima volta e che non a caso presi in prestito per chiudere il mio primo “messaggio nella bottiglia” (24 marzo 2010), in una sorta di omaggio nascosto tra le righe.
Per ricordare il “maestro di Racalmuto” riporto un brano dell’articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” il 7 agosto 1983, nel quale, prendendo spunto dal “caso Tortora”, Sciascia affrontava provocatoriamente i temi del garantismo e delle disfunzioni dell’amministrazione della giustizia: 
«… resterà il problema del come e del perché dei magistrati, dei giudici, abbiano prestato fede ad una costruzione che già fin dal primo momento appariva fragile all’uomo della strada, al cittadino che soltanto legge o ascolta le notizie. E qui entriamo nel vivo. Ogni cittadino, quale che sia la sua professione o mestiere, ha l’abito mentale della responsabilità […] sa che di ogni errore deve rendere conto e pagarne il prezzo a misura della gravità e del danno che […] ha arrecato. Ma un magistrato non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera […]. E credo che sia, questo, un ordinamento solo e assolutamente italiano. Inutile dire che dentro un ordinamento simile che addirittura sfiora l’utopia, ci vorrebbe un corpo di magistrati d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo, ma anche, e soprattutto, di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza. E altro che sfiorare l’utopia: ci siamo in pieno dentro. E come uscirne, dunque? Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza. Ma mi rendo conto che contro un’utopia è utopia anche questa. Un rimedio più semplice sarebbe quello di caricare di responsabilità i magistrati senza preventivamente togliere loro l’indipendenza: e cioè di dare ad ogni cittadino ingiustamente imputato, una volta che viene prosciolto per più o meno mancanza di indizi, la possibilità di rivalersi su coloro che lo hanno di fatto sequestrato e diffamato».

martedì 17 novembre 2020

Ho scelto la vita

“Ho scelto la vita” è il titolo dell’ultima testimonianza pubblica sulla Shoah della senatrice Liliana Segre, condivisa il 9 ottobre 2020 nel borgo di Rondine (Arezzo). Una scelta che le consentì di sopravvivere all’orrore di Auschwitz e di trasformare la marcia della morte in marcia della vita: camminando “una gamba davanti all’altra, con i piedi piagati, mentre chi cadeva veniva finito con una fucilata in testa”; brucando nei letamai alla ricerca di qualcosa da mangiare; cibandosi con la carne cruda di un cavallo morto, strappata con le unghie e con i denti; succhiando foglie. 

Come fu possibile tutto questo? Liliana Segre lo spiega con una sola parola: indifferenza. Dodici lettere che lei stessa ha fatto incidere a caratteri cubitali all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano, realizzato nel binario 21 della Stazione Centrale, da dove partivano i carri bestiame pieni di ebrei destinati ai campi di concentramento: «Se pensi che una cosa non ti riguardi e ti volti dall’altra parte, è lì che inizia l’orrore».

Furono in tanti, in Italia, a girarsi dall’altra parte. Ed è comodo, per la coscienza collettiva della nazione, attribuirne la responsabilità in via esclusiva al fascismo e non, piuttosto, ad un humus culturale razzista, presente nella società italiana e capace di produrre frutti velenosi ancora oggi. Il “Manifesto degli scienziati razzisti”, la “Dichiarazione sulla razza” del Gran consiglio del fascismo (“È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”), l’esclusione degli ebrei dalle scuole pubbliche e dallo svolgimento di determinate professioni (pubblica amministrazione, banche, assicurazioni, notariato, giornalismo), la negazione dei diritti politici e civili, il divieto di matrimonio tra cittadini italiani di razza diversa furono atti e provvedimenti che ebbero largo consenso, così come lo stesso regime fascista fino al 10 giugno 1940. Erano italiani coloro che segnalavano alle autorità, per pochi soldi, il vicino di casa ebreo. Non dimentichiamolo.

«La memoria – scrive Ferruccio De Bortoli nella prefazione al libro – è un vaccino prezioso. Ci aiuta a combattere con intelligenza e moderazione i miasmi del totalitarismo che una società conserva, nonostante tutto, nel suo inconscio, nel retrobottega della sua storia collettiva, familiare, personale».

Auschwitz – scrisse Primo Levi – è “la mancanza di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”. Ed è il ricordo di Liliana, ragazzina tredicenne alla quale viene semplicemente detto di dimenticare il proprio nome, perché da quel momento sarebbe stata soltanto un numerino tatuato sul braccio. Nell’istante in cui si diventa una cifra riportata sopra un registro dell’ufficio matricola inizia, sempre, l’opera sistematica di annullamento della dignità dell’uomo.  

Per Liliana Segre, scegliere la vita significò allora «sognare di essere fuori di lì, il rumore di un bambino che gioca, un gattino, un prato verde, una qualsiasi cosa bella». Scegliere la vita, oggi, significa fare opera di memoria ed assumere collettivamente la funzione delle pietre d’inciampo che in molte città europee ricordano le vittime del nazismo.


domenica 15 novembre 2020

Giornata mondiale dei poveri

“Non serve per vivere chi non vive per servire”: utilizzando le parole di don Tonino Bello, Papa Francesco ha ribadito il valore del messaggio evangelico “tendi la tua mano al povero”, tema centrale dell’odierna Giornata mondiale dei poveri. Ma cos’è la povertà? Ovvio, esiste una spaventosa povertà materiale, sulla quale noi fortunati abitanti della parte sviluppata del pianeta tendiamo a chiudere gli occhi, fino a quando non ci presenta il conto degli sbarchi dei disperati che scappano da guerre, eccidi, carestie. Occhi che sgraniamo quando i sei mesi di Joseph finiti in fondo al mare gridano vendetta, per poi dimenticare. Perché “il dolore degli altri è un dolore a metà”: ce l’ha insegnato Fabrizio De Andrè, con gli emarginati e i diseredati ai quali ha dato voce e dignità letteraria, riconoscendo loro il diritto di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”. E poi esiste una povertà dello spirito, che ci porta ad inseguire bisogni sempre più crescenti, sempre più effimeri, sempre più egoisti. Scrooge, l’avido protagonista di “Canto di Natale”, è poverissimo. 
Contagiati come siamo dal virus dell’indifferenza, il male che il prete degli ultimi don Andrea Gallo definì “l’ottavo vizio capitale”, neanche ci accorgiamo di coloro che hanno realmente bisogno: si tratti di un piatto di pasta o di una carezza. Quante volte ci giriamo dall’altra parte, per non vedere e per sentirci così a posto con la nostra coscienza vigliacca? Ciò che non si vede non esiste, a maggior ragione in una società fondata sulle immagini. Ritoccate e spacciate per vere, tra l’altro. 
L’imperante cultura dello scarto nasconde sotto il tappeto tutto ciò che sporca un’immagine fasulla di arcadia. Eppure bisognerebbe imparare a “sedersi dove la gente si siede”, come padre Alex Zanotelli a Korogocho, baraccopoli di Nairobi. Perché tutti gli esseri umani dovrebbero avere il diritto a vivere con dignità. Ovunque si trovino, quale che sia la loro condizione: liberi e oppressi.

lunedì 2 novembre 2020

2 novembre 2020

Quanto siamo cambiati da marzo ad oggi? Quanto le nostre vite sono state stravolte dal Covid? A quante abitudini abbiamo dovuto rinunciare? Ci pensavo oggi, mentre il pensiero andava ai “miei” defunti. Parenti e amici che non ho potuto salutare come facevo ogni anno, lasciando sulle loro tombe un fiore o un lumino. Ho ripercorso mentalmente il percorso che faccio quando entro nel cimitero, in una sorta di appello degli assenti. Ci sono tutti. 
La pandemia ci ha rinchiusi nelle nostre case, costringendoci ad una solitudine che diventa più acuta in occasione di una ricorrenza. Avvertiamo lontana e rimpiangiamo la tradizione dei “morti”, quando da piccoli andavamo a bussare alle porte delle case per ricevere qualche soldino, frutta e dolcini. In quelle castagne, in quei cioccolatini si realizzava il miracolo dell’incontro simbolico con l’aldilà, poiché i questuanti – sostiene l’antropologo Vito Teti – non erano altro che “vicari” dei defunti. I bambini rappresentavano le anime dei propri cari, che avrebbero sofferto molto in caso di rifiuto. 
Nelle fotografie delle lapidi cerchiamo occhi e lineamenti che ci riconducano ad una storia ininterrotta, nonostante la morte: “le tessere giganti di un domino che non avrà mai fine” (De Andrè). Cerchiamo il calore di parole che abbiamo ascoltato, di gesti che ci hanno fatto sentire amati. Oggi, tutto questo non c’è stato: sono mancate le visite e, con esse, un aspetto profondo del rapporto con la morte nella nostra cultura religiosa e popolare. 
Non potendomi recare al cimitero, ho deposto un lumino ai piedi del Crocifisso del monumento dei caduti. A quel Cristo che, per chi crede, è risorto dalla morte e, per chi non crede, è comunque il simbolo della lotta non violenta contro gli abusi del potere e delle autorità. Il predicatore dell’egualitarismo e della fratellanza universale. Il volto degli “ultimi” della Terra, di tutti coloro che soffrono nel fisico o portano sul cuore cicatrici impresse come solchi.