martedì 31 ottobre 2017

M’i dati i morti?



«M’i dati i morti?». Sono sempre di meno i bambini che vanno in giro, casa per casa, a chiedere offerte per i defunti. Ciò avviene sostanzialmente per due motivi. Il primo: perché sono pochi, in generale, i bambini che crescono nelle strade. Sono luoghi che non frequentano e che pertanto non gli appartengono, sballottati come sono tra danza, musica, calcio rigorosamente praticati in spazi chiusi, che non devono conquistare perché ci arrivano accompagnati dai genitori. La stessa cosa accade con le biciclette: al massimo vengono portati in pineta o in piazza e là pedalano, sotto l’occhio vigile della mamma o del papà. Il secondo: perché la globalizzazione sta cancellando consuetudini secolari e ha trasformato la ricorrenza dei defunti in un carnevale americano, con tanto di streghe e maschere di mostri che nulla hanno a che fare con il significato intimo della nostra tradizione. Che invece affonda le radici nell’incontro simbolico tra vivi e defunti, nel bisogno di mantenere un legame tra i due mondi.
La richiesta di cibo rappresentava proprio lo strumento di questo incontro simbolico, perché “i questuanti non sono altro che vicari dei defunti e il cibo loro offerto viene considerato un’offerta fatta ai defunti”. Il virgolettato è preso in prestito da Vito Teti, che fa riferimento alla tradizione degli “strinari” (da “strina”: dono, strenna), ma vale per tutti quelli che egli definisce “viaggi rituali e vicari dei morti”: ad esempio, i “mascherati” che uscivano dopo il tramonto durante il periodo di Carnevale o, appunto, i questuanti “per i morti”.
Le offerte consistevano per lo più in castagne, noci, uva, cachi, fichi secchi, mele, pere, cioccolatini e caramelle. Ma c’era anche chi offriva monete di piccolo taglio, che venivano poi investite per l’acquisto di leccornie da dividere tra i componenti della piccola comitiva. Chi apriva la porta dava “da mangiare” ai bambini perché essi rappresentavano le anime dei propri defunti, i quali avrebbero sofferto molto nel caso (molto improbabile) di un rifiuto.
In Sicilia, ricorda Andrea Camilleri, nella notte tra l’1 e il 2 novembre i bambini collocavano invece sotto il letto un cesto di vimini che la mattina avrebbero trovato riempito di dolci (i “morticini”), di giocattoli, di pupazzi di pezza. Erano regali lasciati dai defunti e i bambini avrebbero ricambiato quella visita notturna recandosi al cimitero, la mattina della “festa dei morti”.
La simbologia (e anche l’emozione) dell’incontro con i defunti è del tutto assente nella tendenza importata d’Oltreoceano. Commemorare i defunti significava annodare presente e passato e indicava ai bambini l’importanza di onorare le proprie radici. La festa di Halloween mi pare che non insegni niente di tutto questo: non la demonizzo, ma è un’altra cosa.

giovedì 26 ottobre 2017

Le nozze di platino di Ninuzzo e Micuzza

Prima dell’espansione urbana degli anni Ottanta nelle contrade Giovancortese, Castellano e Arena esistevano pochi nuclei abitativi, dal carattere per lo più familiare. Un’espressione che ancora sopravvive nel linguaggio popolare rendeva l’idea della perifericità di quest’area: “calu ’o paisi” dicevano infatti i suoi abitanti quando intendevano recarsi nel centro del paese. La presenza di un albero di noce in seguito abbattuto accomunava inoltre Giovancortese e Castellano con il toponimo ’a nucara. Per “scendere” al Petto si percorreva la via Arena ancora sterrata, che a un certo punto si restringeva in un viottolo stretto e scosceso. In quegli anni era così.
Ma erano anche tempi in cui i rapporti di vicinato avevano il carattere familiare tipico delle rrughe di un tempo. Anche chi arrivava “da fuori” finiva per sentirsi parte di una famiglia più allargata. Così è stato per la mia famiglia: i nostri vicini Micuzza e Ninuzzo Condina sono stati per noi qualcosa di più che semplici vicini di casa. La stessa cosa vale per la figlia Nina che abitava proprio nel piano sopra di noi e per gli altri figli, le cui voci si rincorrevano di balcone in balcone tutto intorno. Ma al centro c’erano loro due: Ninuzzo con quel suo fisico da omone burbero che incuteva timore e Micuzza con la sua dolcezza naturale, con quel sorriso che oggi più che mai fa emozionare.
Era una società fatta di semplicità e di affetto genuino. Mia mamma, per loro, è stata davvero un’altra figlia: non è retorica, è la realtà. Quando Micuzza arrivava dalla scala esterna che univa la loro casa al pianerottolo della nostra, aveva sempre qualcosa in mano: “cimedde” e amaretti preparati nel forno a legna, conserve sott’olio, olive “scaddate” o sotto sale, frutti del suo giardino.
Ninuzzo e Micuzza sono al centro di Giovancortese anche oggi che hanno 97 e 95 anni; ora che – sabato 28 ottobre – festeggeranno 75 anni di matrimonio. C’era la guerra nel ’42 e soltanto la sua buona stella consentì al marinaio Antonino Condina di uscire indenne da quella tragedia, anche se vide i corpi carbonizzati dei morti e udì le urla strazianti degli ustionati nel bombardamento alleato della base navale di La Maddalena, il 10 aprile 1943, quando furono attaccati gli incrociatori “Trieste” (che fu affondato) e “Gorizia” (che nonostante i gravi danni riuscì a riparare a La Spezia): 140 vittime e circa 200 feriti gravi.
Da allora il mondo è cambiato, ma questa coppia dalla straordinaria longevità continua ad essere il centro di Giovancortese, perché quest’area si identifica con la loro storia: la storia di una civiltà contadina che ha ancora tanto da insegnare: sacrificio, lavoro, generosità. Gente semplice che ha speso la propria vita per offrire ai figli una possibilità di crescita.

Ninuzzo e Micuzza sono il cardine di una famiglia che nel tempo si è sparpagliata in Italia, negli Stati Uniti e in Australia: sette figli, diciassette nipoti e trentadue pronipoti che in paese però tornano di continuo, a turno, perché qua trovano ristoro: nel sorriso di Micuzza che sconfigge la malattia e nell’energia di Ninuzzo che tutti i giorni si siede a bordo della sua mitica Golf amaranto per andare in farmacia o all’orto, da dove torna con mazzetti di fiori di zucca e buste di cetrioli, zucchine e pomodori da regalare a parenti e amici.
Il richiamo della terra è elisir di lunga vita, quella terra lavorata con la zappa da ragazzo e che ha sempre continuato a lavorare: anche quando ha cominciato a fare altro, quando dall’asino è passato al camion e agli altri mezzi di cantiere necessari per dare l’avvio all’urbanizzazione di Giovancortese.
Ninuzzo, l’ultimo cestaio del paese, che intreccia sapientemente i “panari” tra un gioco enigmistico e l’altro. E che ancora pianta alberi, perché “tra qualche anno faranno i frutti”. C’è della magia in questa concezione del tempo che si fa beffe dell’età.

E c’è della magia nel sorriso di Micuzza, anche quando sembra giungere da un mondo altrove: un mondo fatto di ricordi confusi e faticosi, che solo l’amore di figli e nipoti può in qualche modo mettere insieme per tentare di ricavarne un senso.
Quella stessa magia che si respirava quando, da bambini, assistevamo al rito dell’apertura delle valigie di qualche loro figlio di ritorno dall’estero per dividerci gli Hershey’s Kisses, i cioccolatini americani a goccia con la caratteristica “miccia” che spuntava dall’incarto argentato. La stessa magia che si spande nell’aria quando Ninuzzo abbraccia Micuzza e dice: «’A me’ figghiola».

venerdì 20 ottobre 2017

Horcynus Orca: un’arcalamecca di parole

Horcynus Orca è un romanzo sulla morte. Reale o metaforica, la sua presenza aleggia dalla prima all’ultima delle pagine che raccontano il ritorno a casa, sponda messinese dello “scill’e cariddi”, del “marinaio della fu Regia Marina” Ndrja Cambrìa dopo l’8 settembre 1943 e la sua successiva partenza per andare incontro alla morte. Nella narrazione di Stefano D’Arrigo riecheggiano Omero e Joyce, ma le chiavi di lettura sono tante e stratificate su più livelli. C’è il mito del ritorno dell’eroe dalla guerra, ci sono i personaggi omerici e c’è ovviamente Ulisse, che però non si salva perché in D’Arrigo – osserva Walter Pedullà – egli non è un bugiardo.
E poi c’è l’Orca, l’immortale Orca che muore, subito dopo seguita da Ndrja e dalla fine del romanzo, “evento che l’autore ha rimandato oltre ogni limite”. Perché Horcynus Orca è soprattutto “un’odissea della parola” e uno sforzo fisico immane, sfibrante come la seconda parte, nella quale l’autore gira attorno alle parole in maniera ossessiva, circolare. Il racconto è composto da “quadri”, ferite che ricordano la piaga dell’Orca: è proprio lì che prendono forma i 56 episodi “collaterali e confluenti” conteggiati da Pedullà. Un’impresa titanica che impegnò D’Arrigo per circa vent’anni: La testa del delfino (che contiene già la trama di Horcynus Orca) fu infatti scritto tra il 1956 e il 1957, mentre gli anni dal 1958 al 1961 furono assorbiti dalla sua revisione (I giorni della fera; I fatti della fera); infine, quindici anni di riscrittura, innesti, varianti, aggiunte e digressioni che porteranno al romanzo del 1975, che assume il titolo definitivo e raddoppia il numero delle pagine.
La lentezza e la lunghezza di alcuni passaggi a volte possono scoraggiare il lettore, ma sono funzionali al rinvio dell’appuntamento di Ndrja con la morte, che arriva improvvisa come lo squarcio di un fulmine nel cielo. Prima però le digressioni si moltiplicano: i giochi di parole trascinati all’infinito, come l’indimenticabile calembour sulla parola “barca”, che può diventare salvezza (“arca”) o fine di tutto (“bara”); i brani dedicati a quel personaggio mitologico che è Ferdinando Currò; il dialogo tra Ndrja e don Luigi Orioles; il monologo interiore di Ndrja sullo sperone, da dove osserva l’agonia dell’Orca.
Se l’ossessione di Ndrja è la morte, che sembra inseguire con una foga suicida, quella di D’Arrigo è la parola, che mette “sotto torchio” mediante la sperimentazione di un linguaggio arcaico e nuovo nello stesso tempo. La lingua è infatti il vero protagonista del romanzo: i termini inventati e la scrittura “parlata”, che recupera frasi e modi di dire del dialetto siculo-calabro, quel “parlato popolare [che] dice una cosa semplice e ne suggerisce cento complesse”.
Quando, dopo avere sottoposto il figlio a innumerevoli prove, Caitanello Cambrìa finalmente si convince che quello che ha di fronte è proprio Ndrja tornato dalla guerra, lo mette a sedere per dirgli “due parolette, su una faccenda personale”, ma si fa alba: «Era incinto, implenato di parole, con le voglie e le doglie di parlare che gli scappavano da tutte le parti: doveva sgravarsele all’istante, tutte quelle parole bell’e fatte, che lo spingevano di dentro, sennò gli morivano e gli facevano setticemia».
Un passaggio autobiografico che rivela l’implenamento dell’autore stesso e che spiega la lunghissima gestazione del romanzo, “arcalamecca” e “mille e una notte” di parole.

lunedì 16 ottobre 2017

Per l’istituzione della commissione toponomastica

Stamattina ho presentato la richiesta di inserire all’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale un punto con oggetto l’istituzione della commissione toponomastica. La memoria storica è il collante di una comunità, la ragione dello stare insieme e del sentirsi protagonisti di un destino comune. Per questo motivo auspico che il consiglio comunale riesca a lavorare sulla mia proposta con spirito unitario e che vi sia il massimo coinvolgimento possibile della cittadinanza.

*La proposta di istituire la commissione consiliare “toponomastica” risponde a due ordini di motivi. Il primo, di carattere pratico, attiene all’esigenza amministrativa di governo del territorio mediante la predisposizione di un’adeguata toponomastica laddove esistono strade, vicoli e spazi pubblici privi di alcuna denominazione.
La seconda esprime invece un alto contenuto ideale di tutela della memoria collettiva, considerato che il lavoro della commissione dovrebbe essere finalizzato alla valorizzazione del patrimonio storico e culturale di Sant’Eufemia, alla riscoperta del senso di comunità, all’orgoglio di sentirsi eufemiesi. La toponomastica, quindi, come strumento di gestione del territorio che consente di tramandare la storia locale coltivando il ricordo delle personalità che hanno dato lustro alla comunità nel campo dell’arte, della scienza, della cultura, del sociale, della politica.
La toponomastica attuale è molto datata: salvo qualche sporadica eccezione (Largo Giovanni Paolo II e Piazza Giorgio La Pira), è infatti rimasta ferma al secondo dopoguerra. Ed è altresì inconcepibile che a Sant’Eufemia vi sia una sola strada dedicata a una donna (via regina Margherita): compito della commissione dovrebbe essere anche quello di sanare tale ingiustizia; ancora, essa potrebbe finalmente porre rimedio alla presenza di veri e propri errori storici (esempio: sostituire “Via Ruggero VII”, inesistente personaggio storico, con “Via Ruggiero Settimo”, che fu protagonista del Risorgimento italiano e primo presidente del Senato del Regno dopo l’unificazione nazionale).
La commissione, da istituire nel rispetto del criterio di rappresentanza proporzionale tra maggioranza e minoranza consiliare, svolgerà l’incarico a titolo gratuito, per cui il suo lavoro non comporterà alcun onere per l’Amministrazione. Inoltre, nell’ottica di promozione del ruolo responsabile e propositivo della cittadinanza attiva, essa sarà aperta al contributo dei singoli cittadini e delle associazioni secondo modalità che saranno definite con un apposito regolamento.

*Relazione illustrativa allegata alla richiesta di inserimento, nell’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale, della proposta di istituzione della commissione toponomastica.

mercoledì 4 ottobre 2017

Tipi da Facebook



Si legge poco e si naviga molto, è un dato incontestabile. Il rapporto Censis del 2016 è per certi versi impietoso: a dispetto dell’alta percentuale di laureati, i “lettori forti” (più di 12 libri in un anno) sono solo il 13,7%. Sono cambiati i canali di informazione, come conferma il crollo dei lettori di quotidiani tra 2007 e 2016 (-26,5%). Dopo il telegiornale (63%), è Facebook la principale fonte d’informazione per gli italiani (35,5%): più indietro i giornali radio (24,7%) e, appunto, i quotidiani (18,8%), superati anche dai motori di ricerca (19,4%), poi a seguire troviamo YouTube (10,8%) e Twitter (2,9%). Facebook è uno strumento pratico per la rapidità della ricerca degli articoli che siti o contatti personali condividono: notizie di cronaca, post di approfondimento, comunicati stampa, eventi. Nonostante il conflitto non ancora risolto tra news e fake news, tra informazione e disinformazione, il social di Zuckerberg da questo punto di vista è utile. Ciò ha però prodotto anche una sorta di mutazione “antropologica”: senza scomodare Umberto Eco, è innegabile che l’utilizzo dei social da parte di molti utenti non sempre risponde allo scopo di informarsi, mantenere/riallacciare rapporti con amici e parenti lontani (una benedizione), condividere con gli altri momenti importanti della propria vita: avvenimenti, “successi” (una pompatina al proprio ego fa sempre bene, inutile negarlo), dolore e dispiaceri (ma qua si potrebbe aprire una parentesi infinita su tempi e modalità, riservatezza e pubblicità di sentimenti intimi e personali). Eh, no: “oltre”, c’è tutto un mondo da studiare. Un compito che esula dalle mie capacità, per cui mi limiterò soltanto a tracciare un breve profilo dei “tipi” che più mi fanno divertire, ma anche riflettere: mi incuriosisce cercare di comprendere certi meccanismi mentali, anche se spesso non resta altro da fare che alzare le braccia e sorridere. Ma procediamo con ordine.

L’ALLUSIVO – Non è mai diretto, ma è come se lo fosse. In una comunità virtuale nella quale tutti conoscono tutti, non è complicato intuire il destinatario di una frecciatina. Però l’allusione aggiunge un tocco di sottigliezza alla volgarità dell’attacco frontale e in più, particolare da non sottovalutare, consente di raccogliere qualche consenso in più perché offre al potenziale sostenitore la possibilità di salvarsi in calcio d’angolo: «Sì, ho messo mi piace e ho commentato quello stato, ma non credevo fosse riferito a te».
IL CATASTROFISTA – Svolge una funzione sociale. Terremoti, alluvioni, frane, cicloni, cadute di asteroidi sulla Terra ed estinzione dei ghiacciai sono il suo pane quotidiano. Se c’è una sola nuvola nel cielo, state tranquilli. Siete in una botte di ferro. Lui ne seguirà l’evoluzione fino a quando potrà finalmente mettervi in guardia: «Restate tappati in casa!».
L’EPURATORE – Ha un’attività ciclica, che si manifesta puntuale come il disco di Mina a Natale. I suoi ultimatum nascondono una propensione palingenetica volta alla realizzazione della “soluzione finale” contro vagabondi e parassiti del web. Che sarebbero tutti quelli che non interagiscono con lui commentando o “mipiaciando”. Inaccettabile, per cui: «Raus! Presto farò un po’ di pulizia tra i miei contatti!».
IL MALATO – Di lui sappiamo se ha il termometro a mercurio o quello elettronico, le medicine che prende, i dolori di testa insopportabili, eventuali cadute o indigestioni. Più che un profilo Facebook quello che abbiamo davanti è un foglio di anamnesi. D’altronde, il filosofo contemporaneo Peppe Voltarelli ha ragione quando sostiene che il lamento è una forma di godimento. Il top però viene raggiunto con la “registrazione” presso un ospedale, senza ulteriori informazioni. La solidarietà così obliquamente cercata in quel caso “deve” scattare immediata: «Che ti è successo?».
IL QUESTUANTE – Si muove nella penombra della messaggistica privata, dove solo tu puoi vederlo. Arriva con passo felpato quando meno te l’aspetti, anche se in genere preferisce essere il tuo buongiorno con una richiesta che – santiddio – non dovrebbe costarti niente esaudire: «Lo metteresti un “mi piace” allo stato che ho appena pubblicato?».
LO SGAMATORE – Aggiorna raramente il suo stato e ancor meno interagisce con i suoi contatti, dei quali però conosce vita, morte e miracoli “virtuali”. In pratica utilizza Facebook esclusivamente per tenere sotto controllo gli amici, ai quali ogni tanto rivela le sue sensazionali doti da Sherlock Holmes facendo l’occhiolino e sussurrando all’orecchio: «Sei andato al mare a Scilla, eh?».
IL SORVEGLIATO – È un perseguitato. Spiato in tutto quello che fa: pubblica uno stato e i suoi contatti, pensate un po’, lo leggono. Kgb, Cia, Mossad e Stasi gli stanno sempre col fiato sul collo per carpire informazioni che verranno poi decodificate da un cervellone centrale. Nel frattempo, i suoi stati sono passati al setaccio dai suoi contatti, che – sicuro – li commentano privatamente, nei bar, dal fruttivendolo o dal parrucchiere. Ma lui non teme nessuno: quello che deve dire, lo dirà.
IL TAGGATORE – Pubblica qualcosa e ti “tagga”, magari insieme ad altre venti persone ignare come te. Perché in quel momento tu non sei con lui! Passi per un articolo o un evento che può interessarti, per la condivisione di uno stato d’animo comune, ma il tag in una foto mentre sorseggia l’aperitivo è decisamente troppo: non te lo metto il “mi piace”, tirchio.
IL TATTICO – Il suo “mi piace” è sempre calcolato, mai messo a caso. Una forma di captatio benevolentiae per dimostrare interesse/simpatia e, nello stesso tempo, sperare di suscitarne in virtù della legge non scritta sul contraccambio della cortesia. Vive costantemente in bilico tra l’ansia di farsi vedere e la paura di esporsi troppo. In fondo, lui è un trapezista dei sentimenti.