martedì 31 dicembre 2013

Le parole che non ho detto


Avrei voluto dire che è grande quella comunità che riesce ad essere solidale e generosa, che si stringe con affetto attorno a chi ha bisogno. Esprimere profonda gratitudine agli oltre duecento partecipanti alla piccola grande iniziativa dell’Agape, la tombolata di solidarietà per raccogliere fondi da utilizzare per consentire a una famiglia di Sant’Eufemia di accompagnare periodicamente al “Gaslini” di Genova un bimbo affetto da disabilità.
Avrei voluto dire che il sogno delle associazioni di volontariato è quello di scomparire, perché ciò significherebbe che lo Stato riesce a soddisfare i bisogni di tutti. Ma purtroppo non è così: ecco perché occorre incoraggiare e sostenere chi fa volontariato. Sono povere, molto povere, quelle società che non possono contare su questo straordinario patrimonio di umanità.
Avrei voluto dire, soprattutto ai giovani, di avvicinarsi a queste realtà, perché ne trarrebbero certamente un arricchimento e la convinzione di dare un senso profondo alle proprie vite.
Avrei voluto dire che, a volerlo, il tempo per fare del bene lo si può sempre trovare. Perché nessuno ha mai preteso un impegno totalizzante, che tra l’altro contrasterebbe con le ragioni stesse del volontariato. Per restare all’Agape, è sufficiente dare un contributo anche una volta all’anno, per una qualsiasi delle iniziative che l’associazione svolge. Può sembrare poco, ma è soltanto sommando i tanti “poco” che si ottiene il “molto”.
Avrei voluto dire che sulla disabilità c’è ancora molto da lavorare e che nessuno dovrebbe tirarsi indietro. Negli ultimi anni si comincia ad avvertire un approccio diverso, in positivo. Ma non dimentico la prima volta che Peppe Napoli mi portò in una abitazione e vi trovai un ragazzo seduto su una sedia, in un angolo buio.
Avrei voluto dire che a queste famiglie bisogna stare vicino, con gesti concreti e quotidiani: si tratti di lasciare libero il parcheggio riservato ai disabili o di costruire scivoli e pedane d’ingresso ovunque, affinché nessun posto sia inaccessibile per chi si muove su di una sedia a rotelle.
Avrei voluto dire che sogno un mondo senza barriere architettoniche. Un mondo in cui tutti riescano a rivolgersi a un soggetto diversamente abile senza assumere un tono pietoso. Un mondo in cui tutti abbiano pari dignità non perché lo impone la Costituzione, ma perché così è. Un mondo in cui a tutti sia consentito di correre per realizzare le proprie aspirazioni, anche quando le gambe non vanno.
Avrei voluto dire tutto questo, ma so che un conto è scrivere, altra cosa è parlare con la tempesta dentro.
E quindi ho preferito affidarmi alle parole di Giuseppe Pontiggia, tratte dall’autobiografico Nati due volte (2000), al quale nel 2004 Gianni Amelio si ispirò per girare il commovente Le chiavi di casa:

Voi dovete vivere giorno per giorno, non dovete pensare ossessivamente al futuro. Sarà un’esperienza durissima, eppure non la deprecherete. Ne uscirete migliorati. Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita.

domenica 29 dicembre 2013

Libertà è... offrire un caffè!

In principio fu Giovanni Giolitti: “un mezzo toscano e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”. Poi qualcuno aggiunse la stretta di mano, che il fascismo scoprì poco virile e antigienica; infine, toccò al caffè. In un celebre spot degli anni Ottanta, Pino Caruso rischiò di pagare caro un suo vezzo (“al signor Caruso, cuannu si l’arrimina, ci piaci sentiri u scrusciu d’a tazzina”): “mi sono rovinato, ora ci vuole il caffè per tutto il vicinato!”.
Niente a che fare, comunque, con le conseguenze nefaste che la passione per la miscela arabica procurò a Gaspare Pisciotta, il braccio destro di Salvatore Giuliano ucciso da un caffè dell’Ucciardone corretto con la stricnina, e al banchiere Michele Sindona, al quale nel carcere di Voghera fu servito un “lungo” al cianuro.
Ed è proprio per scongiurare rovesci economici che in alcuni bar ai clienti, da diversi anni, è vietato offrire. Si legge proprio così sugli avvisi esposti: “vietato”. Ma può esistere niente di più arrogante e offensivo? Perché levare anche il piacere di offrire a un amico un caffè o una bibita qualsiasi? Ogni volta che si invade il terreno della discrezionalità altrui, imponendo o vietando un comportamento, si compie una violazione della libertà. E violare la libertà, anche quella di offrire un caffè, è cosa molto grave.
Conosco l’obiezione: si tratta di un provvedimento necessario per contrastare gli scrocconi seriali. Quelli sempre in agguato nelle vicinanze del bar, pronti a lanciarsi dentro appena vi fa ingresso la vittima di turno. Quelli che ci rimettono due euro di benzina e un set di gomme dell’auto nell’attesa del momento propizio. Quelli che si spingono addirittura nella sala gioco, sperando che qualcuno alzi lo sguardo dalla biglia del biliardo o da una mano di carte strepitosa: “hai preso il caffè?”.
L’introduzione del divieto ha quindi fondate ragioni. Economiche, perché entri per un caffè e alla fine scopri che ti è costato dieci euro, dato che in certi posti offrire è quasi un obbligo (anche molto ipocrita, certo; ma tant’è). Morali, perché ti evita di pagare per qualcuno anche quando l’unico tuo desiderio sarebbe che la bevanda si trasformasse in un potentissimo lassativo.
E qui si arriva al nocciolo della questione. A pensarci bene, il divieto ha la stessa ratio dell’obbligo di utilizzare la cintura di sicurezza, non perché può salvarci la vita, ma perché altrimenti ci becchiamo la multa. Di indossare il casco sulla moto; utilizzare paletta e sacchetto per raccogliere gli escrementi dei nostri amici a quattro zampe (ma dalle nostre parti ancora ce n’è strada da fare); non lasciare per ore il tubo dell’acqua aperto ad allagare i balconi delle case; compiere o non compiere azioni per le quali basterebbe regolarsi seguendo elementari norme di educazione o di buon senso, senza ricorrere alla minaccia della sanzione o dell’imposizione arbitraria. È, in fondo, la stessa filosofia del “ce lo chiede l’Europa”. Ché se certe cose le decidessero “i nostri” gliela faremmo vedere. Ma l’Europa è l’Europa. E quindi, forse, non ci resta che confidare in una moratoria di Bruxelles, per avere di nuovo il piacere di pronunciare: “trasiti cumpari, u cafè l’aviti pagatu”.

lunedì 23 dicembre 2013

Il 2013 nel resoconto dell'amministrazione comunale

 
Da qualche giorno è in distribuzione, a cura dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia, un opuscolo divulgativo in cui viene presentato alla cittadinanza il resoconto di un anno di attività. Clicca qui per aprire il collegamento con il sito istituzionale, leggere e scaricare il formato in pdf.

venerdì 20 dicembre 2013

Natale eufemiese 2013

 
Calendario delle manifestazioni:

22 dicembre: “A Natale puoi…” Canti, balli, crespellata e… l’arrivo di Babbo Natale!
A cura dell’Associazione “Terzo Millennio” – Piazza Municipio, ore 16.00

28 dicembre: “Pagine d’Avvento tra musiche e parole”
Concerto dell’Orchestra Giovanile di fiati “Paolo Ragone” di Laureana di Borrello – Lettura di poesie natalizie e di tradizione popolare
A cura dell’Amministrazione Comunale e della Residenza Sanitaria per Anziani “Mons. Prof. Antonino Messina” – Sala del Consiglio Comunale, ore 18.00

29 dicembre: “Una donna per le donne e per la vita”
Sala del Consiglio Comunale, ore 17.30

30 dicembre: “Tombolata di solidarietà”
Raccolta fondi per sostenere le spese mediche di una famiglia in difficoltà
A cura dell’Associazione di Volontariato Cristiano “Agape” – Ristorante “Le Macine”, ore 21.00

04 gennaio: “Cuntandu e Cantandu u Natali”
Concerto del Coro Polifonico Parrocchiale “Cosma Passalacqua”
Chiesa Parrocchiale di Sant’Eufemia V.M., ore 18.30

06 gennaio: “Befana in piazza” Musica, giochi, divertimento e… l’arrivo della Befana!
A cura dell’Amministrazione Comunale
Piazza Municipio, ore 16.30

Queste le manifestazioni di cui si ha notizia “ufficiale”. Però è molto probabile che vi sia anche altro.
Ad esempio, è certo che sabato 21 dicembre alle 9.30 i volontari dell’Agape effettueranno le visite domiciliari agli anziani per fare gli auguri e consegnare un ricordino, mentre nel pomeriggio (ore 16.00) si recheranno presso la Residenza Sanitaria per Anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”.
Il blog è a disposizione di tutti per eventuali integrazioni.
   

giovedì 19 dicembre 2013

Il Sud è niente

“Se di una cosa non ne parli, non esiste”. Non sempre è così, ci sono assenze ingombranti e silenzi assordanti. D’altronde, per il Poeta “assenza” è “più acuta presenza”: lo sa bene Fabio Mollo, regista reggino all’esordio con Il Sud è niente, romanzo di formazione dell’introversa Grazia, interpretata dalla bravissima Miriam Karlkvist alla sua prima apparizione sul grande schermo.
L’assenza è quella di Pietro (Giorgio Musumeci), che nella versione familiare e ufficiale muore in Germania, dove si trasferisce per lavoro quando la sorella ha 12 anni. Grazia, che “incontra” il fratello sotto l’acqua del mare dello Stretto, si convince che Pietro è vivo. Di sicuro, sente che il padre – Cristiano, pescivendolo rassegnato cui presta il volto Vinicio Marchioni, noto al grande pubblico come “il freddo” della serie televisiva “Romanzo criminale” – non le ha raccontato la verità. “Con la verità ti puoi pulire il culo”, a Reggio Calabria. Perché la verità spesso non la puoi raccontare. Neanche se ti hanno ammazzato un figlio. Neanche se ti prendono la casa e ti costringono a chiudere l’attività commerciale, facendo ricorso ai noti ed efficaci metodi del sabotaggio sistematico. Neanche se ti “suggeriscono” di andare via, scappare lontano, al Nord.
Grazia attraversa la città in rabbiosa e ricercata solitudine, appena violata dal mormorio di dialoghi smozzicati, essenziali come il cast stesso del film: oltre a Grazia e Cristiano, Carmelo (Andrea Bellisario), figlio di giostrai che nell’incontro/scontro con Grazia offre una via d’uscita all’incomprensione; la nonna (Alessandra Costanzo), che racchiude nell’espressione hiatu meu l’essenza millenaria delle famiglie del Sud; Bianca (Valentina Lodovini), presenza per la verità quasi impalpabile, sulla quale forse si poteva osare di più.
Un silenzio carico di sguardi, pause, gesti, pronto a esplodere nella ribellione di Grazia, che indica la via stretta e accidentata del riscatto nello squarcio del velo di una incomunicabilità che è anche generazionale. Se speranza c’è (e il finale uno spiraglio esilissimo lo offre), ha volto di donna e urla capaci di spezzare le catene dell’omertà.
Scena più bella: il ballo sfrenato e liberatorio di Carmelo e Grazia nella pista dell’autoscontro.

martedì 17 dicembre 2013

Sud e legalità, il nervo scoperto della storia italiana

Aldo Varano ha “approfittato” della nomina di Pina Picierno nella segreteria del Pd, con delega alla legalità e al Mezzogiorno, per toccare uno dei nervi scoperti della storia d’Italia, forse il suo peccato originale: “Al Sud non manca solo la legalità” (L’Ora della Calabria, 15 febbraio). Come non essere d’accordo? Eppure, centocinquanta e passa anni dopo l’Unità si continua a trattare la questione meridionale come questione criminale, a lottare contro l’illusione che, sbattuto in galera il delinquente di turno, non ve ne siano altri dieci in agguato. Se così fosse, per risvegliarsi nel migliore dei mondi possibili, in Calabria basterebbe commissariare tutti i Comuni (e siamo sulla strada buona), quindi passare alle Province e infine concludere il lavoro di bonifica con la Regione.
È l’idea che animava la Destra storica e i prefetti dell’unificazione investiti della “missione” di guadagnare alla causa nazionale le lontane e recalcitranti regioni meridionali attraverso le questure, il controllo asfissiante sull’attività degli enti locali, lo scioglimento delle amministrazioni per motivi di ordine pubblico, la manipolazione delle elezioni. È l’ispirazione della legge sulla repressione del brigantaggio, la famigerata “legge Pica”, che ignorava la considerazione “sorprendente” contenuta nella relazione (3 maggio 1863) del deputato pugliese Giuseppe Massari, segretario della Commissione d’inchiesta parlamentare sul brigantaggio meridionale: “Il brigantaggio è stato considerato come questione di forza, e quindi per combatterlo non si è saputo far altro di meglio se non contrapporre forza a forza. Ma in cosiffatta questione la parte militare è accessoria, è secondaria”.
Da allora, poco sembra essere cambiato. Se si escludono i laureati sfornati, che scappano o non vedono l’ora di scappare (o restano, conficcando a forza nei cassetti pergamene e sogni), il gap con il Nord è sempre materiale e culturale. Mancano infrastrutture per spezzare l’isolamento fisico e favorire la liberazione in loco delle tante energie e progettualità autoctone; manca la determinazione necessaria per riuscire a scacciare, in settori non marginali della società, la sensazione che l’antistato possa offrire più opportunità dello Stato.
Scopriamo l’acqua calda, ma servono politiche di sviluppo che non si risolvano nello sperpero di denaro per progetti senza prospettiva, l’affermazione del principio meritocratico sulla prassi clientelare e nepotista, la fine della confusione del diritto col favore. Ma soprattutto serve una collettiva assunzione di responsabilità, perché spesso le insufficienze dello Stato diventano l’alibi di complicità quotidiane, più o meno consapevoli, con il malaffare e con la cattiva amministrazione.

Su ZoomSud: http://www.zoomsud.it/index.php/politica/61362-l-intervento-sud-e-legalita-il-nervo-scoperto-della-storia-italiana.html 

lunedì 9 dicembre 2013

E Renzi sia

Prima di ogni analisi, consentitemi di esprimere un ringraziamento particolare. Anzi, 102 volte grazie. Che poi sarebbero di più, perché ai 102 votanti bisogna aggiungere chi ha espresso simpatia per quello che stiamo facendo, pur non potendo o non volendo ancora aderire. Va bene anche l’appoggio morale, il riconoscimento che si è fatto qualcosa di diverso rispetto al passato.
Ci eravamo posti come obiettivo 100 partecipanti alle primarie. La risposta c’è stata e ci induce all’ottimismo. È un punto di partenza, attorno al quale speriamo di riuscire a creare ulteriore consenso. Il seme piantato che, se annaffiato con cura, diventerà pianta. Era importante ripartire, dato che da anni a Sant’Eufemia – di fatto – non ci sono più partiti, ma soltanto comitati elettorali a sostegno di questo o quel candidato che scompaiono il giorno dopo le votazioni. Nel farlo, circa un mese fa, avevamo fatto riferimento proprio alla gestione delle primarie per spiegare quella che è la nostra idea di partito e di politica: “Noi sentiamo il dovere di testimoniare la possibilità di un’altra strada: forse non ci sarà un’affluenza di 300, 400 o 500 elettori. Ma chi verrà, l’avrà fatto consapevolmente. E se nessuno dei candidati dovesse prendere il 100% dei voti, per noi sarà un motivo di soddisfazione” (qui l’articolo completo). Questo ci premeva maggiormente, ancor più dell’esito delle primarie.
Personalmente, non ho votato Renzi, che è stato il primatista anche a Sant’Eufemia con 79 preferenze. Ho scelto Civati, che considero più vicino alla mia idea di sinistra, al quale sono andati 15 voti (insomma, come segretario sono già in minoranza!). Ultimo classificato Cuperlo (8).
La chiave di lettura è molto semplice. L’uomo d’apparato (Cuperlo) per quanto persona seria e credibile aveva poche possibilità di affermazione. Per ciò che rappresenta, più che per quello che è. Intuisco facilmente che tra i sostenitori di Renzi c’è gente che forse non ha mai votato Pd e una buona fetta di vecchia nomenclatura saltata tempestivamente sul carro del vincitore, nel momento in cui si è capito da che parte tirava il vento. Ma non credo sia un buon esercizio per la democrazia snobbare i circa tre milioni di elettori che si sono recati ai seggi.
Il tiro al Pd è uno sport nazionale, anche perché i suoi dirigenti posseggono una notoria propensione alla rissa e al tafazzismo spinto. Però, nel panorama nazionale, è il partito con il più alto grado di democrazia interna. Per cui, non si affannino i facili e interessati censori di destra e di sinistra: quelli per cui prima il Pd era un partito di comunisti e ora è diventato un convento di democristiani; quelli che parlano di democrazia dei partiti e da due decenni stanno al guinzaglio del padrone di Arcore; quelli che non trovano nulla da eccepire nelle “purghe” di Grillo.
Non ho votato Renzi, ma da ieri sera Renzi è il mio segretario, la guida di un partito che mi auguro faccia della pluralità il suo punto di forza. Senza lacerazioni, né scissioni. Un partito inclusivo, nel quale vi sia spazio per Cuperlo, Civati e per la sinistra dei movimenti. Poiché sarebbe esiziale disperdere questo patrimonio, non posso che sottoscrivere l’appello di Romano Prodi, il quale con generosità e senso di responsabilità ha rivisto la decisione di non partecipare alle primarie (e ne avrebbe avuto tutto il diritto, dopo le 101 coltellate dell’aprile scorso): “Le primarie sono il momento dello scontro democratico, ma dopo lo scontro un partito deve mettersi insieme. Quello che io raccomando è che sia il vincitore sia quelli che perderanno abbiano l’obiettivo di fare una squadra, ovviamente diretta da chi ha vinto, ma con gli equilibri e le mediazioni che rendono forte un partito politico”.

mercoledì 4 dicembre 2013

Le primarie del partito democratico a Sant'Eufemia d'Aspromonte


Domenica 8 dicembre, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, si vota per scegliere il segretario e i componenti dell’Assemblea nazionale del Partito Democratico.
Il circolo “Sandro Pertini” di Sant’Eufemia d’Aspromonte allestirà il seggio elettorale all’interno del Palazzo Municipale.
Per partecipare al voto occorre presentarsi al seggio muniti di un documento d’identità valido e della tessera elettorale.
Votano sia gli iscritti che i non iscritti al partito: ai secondi, come partecipazione alle spese organizzative, verrà chiesto un contributo di 2 euro.
Previa registrazione, da effettuare online entro le ore 12.00 del 6 dicembre, possono inoltre votare: cittadini/e di età compresa tra 16 e 18 anni, cittadini/e fuori sede per motivi di lavoro o di studio, immigrati/e in possesso del permesso di soggiorno.

sabato 30 novembre 2013

Calabria d'autore - Incontro con Fabio Cuzzola

La mia seconda partecipazione a uno degli appuntamenti della manifestazione ideata da Antonio Calabrò ha confermato l’impressione suscitata la settimana scorsa, quando era toccato a Katia Colica accomodarsi sul divano del salotto ricavato all’interno di una sala della stazione ferroviaria di Santa Caterina. Senza trionfalismi, qua si sta scrivendo una pagina culturale importante per Reggio Calabria, che potrebbe aprire strade nuove, tutte da esplorare, sul rapporto tra territorio e cultura, luoghi e forme di fruizione.
Non è mia intenzione fare una recensione dell’evento che ha visto protagonista Fabio Cuzzola (Lou Palanca 2), anche perché ha già provveduto ottimamente Letizia Cuzzola per il sito di informazione locale ZoomSud.
Cuzzola è la mia prima conoscenza fatta sul web circa quattro anni fa, anche se ci eravamo già sfiorati nella “vita reale”, in occasione di un’iniziativa culturale poi non andata in porto. Siamo “fratelli di blog” e mi conforta verificare che su molte cose condividiamo lo stesso sguardo. Da questo punto di vista, mi sono sentito a casa nell’ascoltare ieri canzoni che fanno parte anche della mia “costellazione musicale”. Così come, senza scomodare Popper o Sartori, sottoscrivo in toto le considerazioni sui contenuti e sulle dinamiche che governano la televisione.
Ciò che colpisce, leggendo o ascoltando Cuzzola, è l’impegno civile che impregna ogni sua parola. Una storia che viene da lontano, dallo scoutismo, e si riflette nella sua missione di docente attento alla lezione di don Milani (il libro-documentario Soli e insieme. Viaggio nel mondo della scuola andrebbe fatto leggere e vedere ai detrattori della scuola pubblica e agli arraffatori di stipendi statali imboscati in certe aule).
Una storia che vive nel presente nutrendosi di due ideali potentissimi: rivoluzione e pacifismo. Apparente contraddizione che si scioglie nell’unica sintesi possibile, la strada indicata da Gandhi e Capitini: quella della rivoluzione pacifica.
Sembra quasi di sentirgli ripetere “vigiliamo”, verbo al quale Cuzzola spesso ricorre sul suo blog “Terra è Libertà”, che ci dà la cifra di un intellettuale non certo confinato in biblioteche e archivi. E poi l’umiltà, quel suo ritrarsi per lasciare spazio a uomini e fatti che solo grazie a lui vengono tirati fuori dagli scantinati della storia. Siano i cinque anarchici del Sud, sui quali si è appuntata l’attenzione di Carlo Lucarelli e del suo “Blu Notte”, i testimoni della rivolta di Reggio, o Luigi Silipo. “Da questo momento queste storie sono vostre”, ci dice senza falsa modestia e facendo un passo indietro – che è un po’ il senso della scrittura collettiva e dello pseudonimo Lou Palanca – per lasciare il campo a quelle vite, a quei sogni infranti, a quel messaggio di speranza in un futuro migliore.

*Per chi fosse interessato, la mia recensione dell’anno scorso al libro di Lou Palanca, Blocco 52

giovedì 28 novembre 2013

Decadenza sì, ma senza ola

Non sono tra quelli che stanno facendo il trenino per la decadenza di Silvio Berlusconi da senatore della Repubblica. E non perché il leader della rinata Forza Italia mi ispiri alcuna simpatia. In quasi quattro anni di blog, non ho mai perso occasione per manifestare la mia avversione politica, oltre che la condanna etica del berlusconismo, il virus che ha infestato la società italiana nell’ultimo ventennio.
Non esulto perché le macerie sono evidenti ovunque e occorreranno parecchio olio di gomito e pazienza infinita per ricostruire il tessuto morale di questo Paese.
Non esulto perché la contrapposizione tra tifoserie ci ha portato al lutto esibito da rappresentanti delle istituzioni privi di alcun pudore. Come se il Senato fosse stato chiamato a giudicare sulla colpevolezza o sull’innocenza di Berlusconi, un pregiudicato condannato in via definitiva, e non ad applicare una legge, la Monti-Severino, che gli stessi parlamentari forzisti avevano sollecitato e approvato. Feroce contrappasso per chi ha utilizzato il potere per sfornare leggi ad personam senza ritegno, certo. Ma tant’è: la legge, questa volta, è stata uguale per tutti.
Non esulto perché stamattina, da Londra, Mario mi ha inviato un articolo apparso su “Metro”, giornale che viene distribuito gratuitamente su metropolitana, tram e bus, dal titolo eloquente: “Nonostante l’espulsione dal Senato Silvio continua a lottare, senza vergogna”. Nel solco di ciò che prima delle elezioni del 2001 l’Economist sparò in copertina: “Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy”.
Non esulto perché in qualsiasi parte del mondo un Berlusconi sarebbe stato incandidabile sin dal 1994 e perché la sinistra non ha mai fatto nulla di concreto per risolvere il nodo del conflitto d’interessi, pur avendone avuta la possibilità già nel 1996. Anche se, in effetti, ci sarebbe finalmente da rallegrarsi, considerato che in questi due decenni Berlusconi, prima ancora che avversario politico, è stato il formidabile alibi di una sinistra spesso inconcludente, a volte complice (più o meno volontaria), di certo deludente.
Non esulto perché il mio pensiero va anche agli amici che hanno creduto sinceramente alla “rivoluzione liberale” promessa da Berlusconi nel 1994, a chi ha compromesso relazioni personali nell’assurda guerra tra il bene e il male che ci hanno fatto combattere, per poi ritrovarci, tutti, con le pezze al culo. Più poveri e più sfiduciati.
Non esulto perché ripenso alla profezia di Indro Montanelli: “Tutto finirà male, malissimo, nella vergogna e nella corruzione. E sarà stato inutile avere ragione”.
E quindi, rimbocchiamoci tutti le maniche e ripartiamo. Senza più giustificazioni, né capri espiatori. Da qui. Dal disastro di questi venti anni.

sabato 23 novembre 2013

Calabria d'autore - Incontro con Katia Colica

Il bello bisogna andare a cercarlo. Può così capitare di trovarlo in un posto impensabile come una stanza della stazione ferroviaria di Santa Caterina che i soci dell’associazione “Incontriamoci sempre” hanno trasformato in un piccolo gioiello.
Grazie alla felice intuizione di Antonio Calabrò, dall’8 novembre e fino al 20 dicembre ogni venerdì è un evento imperdibile, l’occasione per conoscere da vicino scrittori, giornalisti e artisti calabresi che onorano questa nostra regione.
Ieri è toccato a Katia Colica, scrittrice reggina che presta penna e sensibilità agli ultimi della terra, dando voce e dignità a chi, questa società, la dignità spesso non riconosce o calpesta.
Antonio Calabrò è a suo agio e scandisce con sapienza e leggerezza i ritmi dell’intervista: cambia registro di frequente, riuscendo così a tenere viva l’attenzione di un pubblico comunque concentratissimo. Si passa dai brani musicali alle citazioni cinematografiche, ai riferimenti letterari che Letizia Cuzzola utilizza come un passe-partout dell’anima. La formula è convincente, Katia Colica è gentile e generosa.
Novanta minuti volano in un soffio, aggrappati a “una scusa” da trovare ogni giorno “per restare” e continuare a lottare, tra i ricordi e le speranze di una confessione che ci ha fatto sorridere, riflettere, commuovere.

giovedì 21 novembre 2013

“Avremmo voluto fare come in Francia”: in ricordo di Pippo Fiore

Aveva una gran voglia di parlare, Pippo Fiore. A dispetto dei molti “guarda che è meglio se lasci perdere: da tempo ha tagliato ogni tipo di rapporto con tutti quelli che gli eravamo amici”. Inutile dire che l’avvertimento, invece di scoraggiarmi, esaltò il mio desiderio di conoscerlo per sottoporgli la mia richiesta. Stavo lavorando alla tesi di laurea Il ’68 a Messina, argomento sul quale ancora non esisteva uno studio specifico. L’idea, poi realizzata, era quella di intrecciare le testimonianze provenienti da fonti diverse e vagliarle per tentare una ricostruzione quanto più oggettiva, lontana dal mito e dalla nostalgia: i ciclostilati del “giornale dell’occupazione” e i documenti del movimento studentesco messinese, i resoconti della stampa locale, le interviste ai protagonisti, quelli che l’avevano fatto e quelli che l’avevano subito. Ciò che si sperava che fosse, ciò che era stato, ciò che era rimasto a distanza di trent’anni. Il bilancio di una generazione attraverso le risposte alle quaranta domande di un questionario che avevo preparato insieme al mio correlatore, Marcello Saija, anch’egli protagonista di quegli avvenimenti.
Tra i soggetti da intervistare, il comunista Pippo Fiore, all’epoca studente della Facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche, che proveniva – come tanti altri – dall’esperienza delle associazioni (Ugi, Agi, Intesa, Fuan) e degli organismi rappresentativi studenteschi pre-sessantotto: a Messina, il parlamentino dell’Orum, composto da 35 rappresentanti degli studenti. Sconfitto, solo e azzannato dal male che nel giro di un anno lo avrebbe messo al tappeto. “A fargli compagnia, è rimasta soltanto la bottiglia”, la chiosa finale, amara, anche un po’ cattiva, di chi mi suggeriva di non provarci nemmeno.
L’intervista non ci fu. Ci furono due settimane di incontri, tra giugno e luglio del 1997, necessari perché un intervento chirurgico alla lingua gli impediva di esprimersi bene e per più di 20-30 minuti. Già al primo appuntamento, davanti alla trattoria “La Capanna”, mi sommerse di osservazioni e suggerimenti sul percorso che avrei dovuto seguire per scrivere una buona tesi. Dopo le presentazioni, mi strappò letteralmente dalle mani il questionario e cominciò a leggerlo, mentre io gli camminavo a fianco. Finimmo con il percorrere per due volte il perimetro dell’isolato. Finì anche per beccarmi un “sei un figlio di puttana”, quando arrivò alla domanda su cosa significasse essere comunista mentre i carrarmati sovietici occupavano Praga: “è vero che il burocraticismo staliniano e brezneviano ebbe la meglio sulla spinta riformatrice di Dubcek, però non bisogna fare semplificazioni. Ci sono anche, ad esempio, la lotta e la lezione di Che Guevara. Il valore della libertà è l’elemento fondante dell’essere comunista. Altrimenti sei un’altra cosa”.
Con Pippo Fiore, il questionario non servì. Scendeva con un’andatura incerta e leggera da via Dei Vespri, attraversava l’incrocio di via Cesare Battisti ed entrava al “Bar Università”, dove l’attendevo, registratore, bloc-notes e penna sul tavolino. Era un fiume in piena, spaziava da considerazioni politiche, sociali e di costume sulla storia di Messina all’introspezione, per cui a me non restava che tentare di inserirmi con qualche domanda per indirizzarlo sulle questioni attinenti alla mia ricerca.
Come in un nastro, i fotogrammi di un’epoca. L’operazione Mussolini-monsignor Paino, dopo il 1908, che spinge l’Università a rinchiudersi nel proprio recinto culturale. La città succube di una borghesia qualunquista cui dà fastidio il jazz dei ragazzini del “Maurolico”. Il Cut (centro universitario teatrale) e le contrapposizioni ideologiche su Picasso e Dalì, “senza spesso sapere chi c…. fosse Picasso e chi c…. fosse Dalì!”. Il Sessantotto stesso come movimento piccolo-borghese, per il quale – in definitiva – valse la metafora dell’orologio contenuta nella commedia Addio giovinezza! di Nino Oxilia: la storia d’amore tra due studenti universitari a inizio Novecento, bruscamente interrotta quando il padre di lui manda al figlio appena laureato una “cipolla” da tasca che sottintende il richiamo a casa. A Messina e altrove il tentativo di disinnescare la contestazione con la cooptazione (“hai fatto il ’68, con tutte le tue idee… bene, ora puoi tornare a casa”), era riuscito. Quando invece sarebbe stato auspicabile un altro modello di riferimento culturale: lo studente universitario Luca Marano, protagonista del romanzo di Francesco Jovine Le terre del Sacramento, che paga con la vita la scelta di schierarsi al fianco dei contadini molisani in lotta contro il fascismo agrario.
Il grande dolore di Pippo Fiore, nonostante le molte soddisfazioni raccolte da sindacalista Cgil, credo sia stata l’Università: “sono stato per anni assistente universitario, poi mi hanno fatto fuori”. E l’amarezza impregnava l’invito che mi rivolse, affinché studiassi anche i percorsi professionali, in particolare accademici, di molti sessantottini, lasciando così intuire il perché del suo ritiro in sdegnosa solitudine.
Alla domanda “che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?”, risolta da Bertold Brecht nella poesia A chi esita con “non aspettarti nessuna risposta oltre la tua”, Pippo Fiore non ebbe tentennamento alcuno: “L’autocritica la farei su tutto. Ma alla mia età e con la cosa [il cancro] che ho addosso, fare autocritica sarebbe patetico. L’autocritica è di essere messinese. È stato che avevamo tutti i difetti e che non avevamo alcune cose; è stato che, in fondo, avremmo voluto fare come in Francia”.
Non riesco a non pensare a Pippo Fiore quando su Rai 3, a notte fonda, scorre la sigla di “Fuori Orario”. Anni fa mi è capitato di parlare di lui mentre Patty Smith realizzava il prodigio di Because the night. Altri rimpianti, nella notte che confonde i sogni.

giovedì 14 novembre 2013

Costituito a Sant’Eufemia il circolo Pd “Sandro Pertini”

Di recente (qui) ho anticipato, seppure non esplicitamente, un’ipotesi sulla quale stavo da tempo meditando. La cautela era dettata dall’esperienza del passato, dagli avvenimenti che per ben due volte (al tempo dei Ds prima e del Pd dopo) avevano portato alla mia repentina fuoruscita dal partito. Ho riflettuto su quelle vicende, sulla politica in generale, sui suoi valori calpestati dall’esercizio quotidiano del potere. Ho sempre condiviso le mie considerazioni sul mio blog, per cui tutto è scritto, nero su bianco; e scritto resterà. Non ritengo infatti che la decisione di impegnarmi nuovamente nel partito democratico contraddica le critiche durissime che ho negli ultimi due anni espresso e che tutt’ora reputo valide.
Perché, dunque, questa svolta? E perché proprio ora, nel momento in cui l’antipolitica sembra vincere a mani basse e i partiti tradizionali pagano lo scotto di una montante quanto comprensibile impopolarità? Per un paio di semplici motivi.
Perché credo nella validità dell’articolo 49 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”), nonostante l’importanza e l’indispensabilità dei movimenti e delle associazioni impegnate anch’esse sul piano concreto dell’azione politica. Anzi, è proprio a quelle esperienze (che ben conosco per una frequentazione ultraventennale) che bisogna rifarsi, per coinvolgere “la meglio gioventù” nella gigantesca opera di distruzione di un modus operandi che non ci soddisfa affatto. Con un gruppo di amici abbiamo deciso di aderire al partito democratico per trasformarlo radicalmente, perché esso non sia più ciò che è stato fino ad ora. Nel nostro piccolo, ovviamente. Non siamo così presuntuosi o sprovveduti da pensare che a Sant’Eufemia possa avere inizio una rivoluzione. Anche perché non è più tempo di rivoluzioni che si concludono con la conquista del Palazzo d’Inverno. La vera rivoluzione è lottare giorno per giorno per cambiare le cose nel luogo in cui viviamo, lavoriamo, studiamo, ci incazziamo, sorridiamo, sogniamo. Si realizza nell’esempio che si riesce a dare agli altri e nel contributo al miglioramento di quel posto, fedeli all’insegnamento della cofondatrice di Emergency, Teresa Sarti: “se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene”.
Stare fuori, guardare, indignarsi e imprecare non porta a niente. Soltanto all’irrilevanza. Mentre si finisce per lasciare campo libero a coloro che nella palude ci sguazzano da sempre. Tanto per fare un esempio: l’8 dicembre si terranno le primarie per eleggere il segretario nazionale. Ogni volta che il partito democratico ha utilizzato lo straordinario strumento delle primarie ne sono successe e se ne sono sentite di tutti i colori. Ora, può darsi che da qualche parte i signori delle tessere abbiano già predisposto la farsa e che in alcuni comuni accadrà che i votanti alle primarie siano superiori al numero di coloro che alle prossime elezioni voteranno Pd. È già successo, anche a Sant’Eufemia.
Noi sentiamo il dovere di testimoniare la possibilità di un’altra strada: forse non ci sarà un’affluenza di 300, 400 o 500 elettori. Ma chi verrà, l’avrà fatto consapevolmente. E se nessuno dei candidati dovesse prendere il 100% dei voti, per noi sarà un motivo di soddisfazione. I plebisciti sono propri delle dittature, o delle elezioni taroccate.
Bisogna cominciare a proporre modelli positivi dal basso, senza perdersi in sterili discussioni sui massimi sistemi. Il resto verrà da sé. In questa fase era importante ripartire. Proprio per non offrire il destro a possibili illazioni, si è deciso di rimandare il tesseramento vero e proprio alla prossima riapertura delle iscrizioni. In quella circostanza verrà inoltre rieletto il direttivo del circolo, del quale in via provvisoria sono segretario, con Giuseppe Gentiluomo vicesegretario e Enzo Fedele tesoriere.
L’elezione di Seby Romeo a segretario provinciale del Pd ci fa ben sperare sulla possibilità di trovare a Reggio Calabria una sponda credibile e un reale interesse per l’avvio di un nuovo, trasparente e partecipato percorso politico.
Abbiamo voluto dedicare il circolo a Sandro Pertini. Al socialista e all’antifascista, all’esule e al recluso politico, al partigiano e al combattente per la libertà, al primo presidente della Repubblica veramente popolare, non più semplice notaio e grigio custode delle regole del gioco. Per avere chiara la strada che si intende imboccare, occorre sapere da dove si proviene: le nostre radici e i valori che professiamo. Noi non crediamo al qualunquismo di chi sostiene che i politici “sono tutti uguali” e che niente distingue la destra dalla sinistra. Per noi, la lezione di Norberto Bobbio è ancora valida: inclusione, integrazione, riduzione dei fattori di diseguaglianza, uguaglianza delle opportunità. I governi delle larghe intese costituiscono un’eccezione, soluzioni d’emergenza che non sbiadiscono la nostra identità, fondata sull’antifascismo, sulla Resistenza e sulla Costituzione repubblicana. Da qui bisogna partire e dalla lezione di don Lorenzo Milani: “Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.

lunedì 11 novembre 2013

Via Roma (u Carvariu)



Mi sono ritrovato nella casella di posta elettronica una email che mi ha molto gratificato. Mi ha scritto Cosimo Oliverio, un nostro concittadino (che non conosco personalmente) emigrato in Germania a quattordici anni, nel 1969. Poche righe per ringraziarmi e per dirmi che aspetta “sempre con ansia” qualche articolo su “Sant’Eufemia D’Aspromonte e dintorni”: “Quando leggo il suo blog mi sembra di essere di nuovo ragazzino e correre per le vie del paese vecchio. Abitavo a Via Roma e a via Telesio”.
Gli attestati di stima fanno sempre piacere, soprattutto quando sono inaspettati ed espressi con la semplicità di chi quasi chiede comprensione perché, “dopo 44 anni di emigrazione”, ha “dimenticato purtroppo la nostra bella lingua”. In questo caso, ciò che conta sono i sentimenti, non la perfezione stilistica delle frasi.
Complimenti del genere danno davvero un senso alle cose che scrivo. E quindi sono io a sentirmi in dovere di ringraziare il signor Oliverio e, con lui, tutti gli amici che vivono fuori Sant’Eufemia.
Riporto dal mio libro Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (p. 136) un brano della voce “via Roma”, donandolo idealmente al signor Oliverio, che là ha trascorso la sua infanzia:

“Via Roma è anche conosciuta come “Il Calvario”, per via del monumento raffigurante la scena delle tre croci collocato quasi in cima alla ripidissima salita che dal Vecchio Abitato porta al Petto. Dalla relazione dell’ingegnere Gaetano Oliverio, autore nel 1846 del progetto originale su incarico dell’allora sindaco Paolo Capoferro, si apprende che un’opera simile, preesistente, era andata distrutta nel corso degli anni […]”.

Al numero uno della via, in alto, si trovava la residenza di Michele Fimmanò, uno degli amministratori più longevi e influenti della storia comunale. Ma altre famiglie eufemiesi importanti avevano in via Roma le proprie dimore, ridotte oggi a ruderi irriconoscibili. Come Palazzo Greco, in origine proprietà dei Capoferro che Rosaria portò in dote a Saverio Greco e che fu ereditato dal figlio Domenico, nato a Delianuova e podestà di Sant’Eufemia nella metà degli anni Trenta, prima di essere assassinato il 19 settembre 1936.
A questa strada, che collega il “Paese Vecchio” con il rione “Petto”, sorto dopo il terremoto del 1783, il poeta Domenico Cutrì (al quale è intitolata la biblioteca comunale) ha dedicato due poesie, la prima in lingua dialettale.

“Lu Carvariu” è contenuta nella raccolta Cascami (1965):

Quantu voti passandu di sta via
m’indinucchiai vicinu a stu carvariu
sgranandu cu la menti nu rusariu
’nsuffraggiu di la morta mamma mia.

E mentri ch’iu pregava cu fervuri,
ogni divotu chi di ccà passava
cu fidi na candila ci ddumava
sutta li pedi di nostru Signuri.

St’artari misu ’mmenzu a ddù paisi
d’ogni fidili canusci li peni,
pari ca dici: «vulitivi beni
senz’odiu, senza chianti, ma surrisi».

O vecchiaredda cu la testa janca
chi ’nchiani pe la strata purvirusa,
avvicinati, o matri dulurusa,
dammi la manu si ti senti stanca…

… e quandu simu ni lu crucivia
ogn’unu pigghia pe lu so’ caminu,
s’abbrazza lu so’ pallidu Destinu,
lu bagagghiu pisanti e… Cusì sia!


“Sulla strada del Calvario” è invece tratta da L’eterno sentire (1974):

Lasciatemi salire,
arrancare ancora una volta
per questa pietraia.

Lasciatemi baciare ancora
la croce arrugginita dell’icona.

Sarà l’ultima volta.

domenica 3 novembre 2013

Addio, Roberto

Caro Roberto,
avevamo capito tutto quando a maggio non ti vedemmo svoltare l’angolo della piazza per venirci incontro con la tua inseparabile sigaretta accesa. Avevamo saputo che non stavi bene, per cui quest’anno non ti era stato possibile trascorrere i tuoi “soliti” cinque mesi a Sant’Eufemia.
Ci piaceva la tua vita da pensionato: sette mesi a New York e cinque a Sant’Eufemia. La tua simpatia, il tuo affetto e la tua educazione: sentimenti antichi che ti rendevano giovane tra i giovani. E noi a cercarti, contendendoti ad altre comitive, per proporti qualcosa di interessante. Una gara per avere la tua presenza: “Roberto, stasera non prendere impegni: si va per un gelato”. Oppure, improvvisamente, tutti sulle macchine e via verso l’Aspromonte, per una spaghettata alle due di notte in una casetta di campagna, bibite e companatico vario racimolati nelle dispense delle nostre cucine.
Dei tanti momenti trascorsi insieme ricordo quella volta che Salvatore organizzò una serata per salutarti prima della tua partenza, un paio di anni fa: eravamo una ventina e alla fine saltò fuori una torta in tuo onore che ti fece commuovere.
Ora sei tu a farci commuovere, con la notizia di oggi, che ci ha spiazzato nonostante fosse attesa. Non ci abitueremo mai alla morte, al suo mistero e ai crateri che lascia nell’anima.
Voglio ricordarti così, a capotavola col bicchiere alzato.
Addio, amico mio.


lunedì 28 ottobre 2013

Più politica, meno antipolitica

È l’eterno conflitto tra impegno e disimpegno, in uno scenario per niente incoraggiante e con le spie dell’antipolitica che lampeggiano impietosamente. Da troppi anni ormai. Percentuali dell’astensionismo in crescita, movimenti di protesta come Cinque Stelle capaci di exploit imprevedibili. Anche se l’impressione è che Grillo e Casaleggio abbiano “scartato” la chiusura. Un po’ ciò che successe a Mariotto Segni dopo il trionfo nel referendum per l’abolizione della preferenza plurima alla Camera, in barba a Bettino Craxi e al suo “andate al mare”, rivolto agli elettori nel giugno del 1991.
Ci siamo passati in molti dalla scelta della diserzione dalle urne. Nell’attesa di segnali che non sono arrivati e con l’unico risultato di esserci ritrovati con un governo che non voleva nessuno e che, dicono, non ha alternative. Intanto, i morsi della crisi economica si fanno ogni giorno più laceranti sul corpo martoriato di un Paese che ha da tempo smesso di camminare. Impallato come un vecchio computer che non riesce a caricare nemmeno una foto. E la foto è sempre la stessa, quella di una transizione infinita, dalla Prima Repubblica a non si sa bene cosa: sullo sfondo, l’ombra ingombrante e decadente di Silvio Berlusconi. Ferito e braccato, incerto tra il “tanto peggio, tanto meglio” e un’uscita di scena non troppo umiliante.
E poi una crisi morale drammatica, della quale i “rimborsopoli” che si susseguono a scadenza regolare quasi ovunque rappresentano soltanto la punta dell’iceberg. Una vergogna infinita e insopportabile, al pensiero di quanti perdono la dignità rovistando nei cassonetti della spazzatura, alla ricerca di un pomodoro o di una patata, marci ma ancora commestibili.
Viene voglia di riprovarci. Forse per l’ultima volta. E non perché non ci siano al di fuori della politica energie e opportunità per incidere concretamente sui drammi quotidiani. Il meglio questo Paese lo dà nel no-profit, nell’impegno taciturno di cittadini privati, associazioni, organizzazioni di volontariato. Si tratta quindi di trasferire dalla casa, dalla scuola, dal posto di lavoro e dai luoghi di aggregazione al “livello” della politica l’impegno profuso quotidianamente per rendere migliore la società in cui viviamo.
Non è semplice e la storia insegna che i fallimenti sono in prevalenza. Ma abbaiare alla luna è fatica sprecata e l’antipolitica non riuscirà mai a risolvere i guasti della politica, che va redenta dal suo interno. Ecco perché c’è bisogno di più politica, nel suo significato più nobile di strumento volto alla realizzazione del bene comune.

mercoledì 23 ottobre 2013

Lucky, il cane che non conobbe catena

Chi ha superato i trenta se lo ricorda. Lucky era un “personaggio” noto in paese perché potevi incontrarlo ovunque. Nel parcheggio del bar di mio padre, a fare strada abbaiando davanti alla vecchia 500 di mia mamma, in piazza a giocare con noi ragazzini. Tutte le mattine ci accompagnava a scuola e poi, quasi conoscesse gli orari, ci attendeva all’uscita. Un dolce ricordo della mia adolescenza, che mio fratello Luis ha rispolverato con questo suo simpatico articolo. A Lucky ho dedicato persino una poesia, quand’ero poeta (perché tutti, tra i 18 e 25 anni, abbiamo coltivato ambizioni da poeta).
Nella foto, il ritratto di Lucky realizzato da Luis.
D.F.

Antefatto: sognavo un boxer. Ne ero rimasto folgorato ammirandolo in foto: mai visto niente di paragonabile, una testa scolpita nel granito, caratterizzata ed espressiva, avvitata su un corpo talmente asciutto e muscoloso da sembrare irreale. Un giorno di settembre ’87 nella nostra vita avrebbe finalmente fatto irruzione il boxer Eros, amatissimo e unico, ma questa è un’altra storia.

Eravamo seduti a pranzo, una calda giornata di giugno ’86. Improvvisamente mia madre nota un’ombra fuori dalla porta: “Focu meu, nu cani! Cacciatilu!!!”. Esco e invece di urlargli dietro lo “chiamo”. Non scappa impaurito, mi viene sotto facendo le feste. Un meticcio di circa tre mesi, chiare ascendenze da terrier. Con i miei fratelli scongiuriamo papà, io sono disposto a non asfissiarlo più un giorno sì e l’altro pure con la storia del boxer pur di potercelo tenere. Inizia la leggenda di Lucky, il re di Sant’Eufemia. Ancora non potevamo immaginarlo, ma in venti chili per quarantatré centimetri al garrese (misure da adulto), Madre Natura ci aveva recapitato il gradino più alto dell’evoluzione canina. Esagerazioni tipiche di ogni proprietario di cani?
Fu battezzato Lucky, in inglese “Fortunato”, per due motivi: primo, perché altri magari non l’avrebbero accolto; secondo, perché con Mick e Mario stravedevamo per Lucky Luke, tanto da aver chiamato un pesciolino rosso, vinto a una festa di paese, “Busciuegg” (vai a capire come si scrive, in originale si chiama Ran-tan-plan), come il cane che lo accompagna insieme al fido cavallo parlante Jolly Jumper. Gli avventori del “Bar Mario” (mio padre dovrebbe farsi pagare le royalties dal Liga…), oltre ad adorarlo a loro volta, negli anni lo avrebbero soprannominato “Lucky Luciano” o “Vallanzasca”, a seconda delle imprese cui si riferivano. Quali imprese? Jack London ci avrebbe chiuso la trilogia con Buck e Zanna Bianca.
Forse l’unico cane al mondo ad avere due abitazioni (all’epoca non c’era l’IMU…), una al bar e una a casa nostra, accanto alla legnaia. Questo perché tenerlo legato alla catena equivaleva a torturarlo, e noi comunque non lo volevamo. Macinava chilometri su chilometri in lungo e in largo per il paese, un allenamento che lo aveva reso resistentissimo e duro come il legno. Tutte le macellerie e i negozi di alimentari gli davano qualcosa da mangiare. Particolare degno di nota, non “implorava” il cibo come fanno tutti i cani: se gliene davano bene, altrimenti a lui bastava essere salutato con sorriso e una carezza. Beniamino di tutti i bambini della “Piazza”, ci seguiva in tutte le nostre infinite scorribande di “simpatiche canaglie”. Anzi, ci precedeva. Sì, perché era un ante litteram GPS a quattro zampe, con in testa la mappa completa e dettagliata di strade, viuzze, vicoli, sentieri, scorciatoie di un’area che, tenendo il paese come punto di partenza, si estendeva dai “Piani della Corona” ai Piani dell’Aspromonte nella direttrice mare-montagna (leggenda vuole fino a Gambarie). Una mattina, in terzo liceo, il mio complice di scempiaggini studentesche ‘Ntoni Romano mi chiede di Lucky: “Non lo vedo da ieri”, rispondo. “Non ti preoccupare, quando ho preso l’autobus era in piazza”. Intendeva in piazza davanti a casa sua, a Cosoleto. Fate voi il conto dei chilometri: presidiava un territorio tanto esteso da far invidia a un branco di lupi. E uso il termine presidiare perché ne era veramente il padrone incontrastato. All’epoca, la piaga del randagismo era molto più diffusa di oggi e in paese vagavano parecchi cani, che specie nel periodo della riproduzione giravano riuniti in piccoli gruppi dietro le femmine in calore. Be’, l’avvento di Lucky versione “Luciano” li costrinse a stare sempre in branco. Vedete, il nostro eroe aveva un’agenda fittissima di impegni: quando non era con noi oppure ad oziare al bar, passava il tempo a scappare inseguito dagli altri cani, buscandole se veniva raggiunto fuori dalle zone franche rappresentate appunto dal bar, da casa, dalla Piazza. Il resto della giornata lo passava intento a sorprenderne qualcuno isolato, al massimo in coppia, e massacrarli. Mai più visto un cane così letale in combattimento, una furia devastante. Un solo esempio: dal rione Petto scendeva tutti i giorni un pastore con le pecore, passando davanti al bar per portarle a pascolare nella zona della stazione. I due cani, pastori tedeschi, se non erano lesti a scappare e aspettare il gregge più avanti venivano letteralmente infilati sotto le auto parcheggiate a forza di morsi. Più pericoloso del gangster americano…
Ok, direte voi, abbiamo capito: ma perché “Vallanzasca”? Apro una parentesi per chi ha meno di trent’anni. Renato Vallanzasca, detto “il bel René”: bello e spietato, capo della “banda della Comasina”, condannato complessivamente a 4 ergastoli e 295 anni di carcere, autore negli anni Settanta di rapine, sequestri, omicidi, evasioni rocambolesche. Ecco, l’aspetto che ci interessa riguarda le evasioni. Più volte, soprattutto quando l’accalappiacani comunale veniva incaricato di ripulire le strade dai randagi, Lucky è stato recluso dove aveva la cuccia al bar, in “soggiorno obbligato”. Immancabilmente, evadeva di notte col favore delle tenebre. Reti metalliche, ostacoli di varia natura (mai la catena: ci piangeva il cuore sentirlo guaire senza sosta), niente lo bloccava più di un pomeriggio. Un giorno “zio Pino” mi fa: “Lo vedi com’è tranquillo? Sicuro sta studiando il modo di scappare stanotte!”. La mattina dopo non c’era… Il record massimo di detenzione è stato tre giorni. Avevo curato tutto fin nei minimi dettagli, scappare stavolta era impossibile. Appoggiata alla fine del muro del bar, sul retro, c’era una baracca di legno abbandonata: al mattino del terzo giorno, in un angolo trovammo due assi rosicchiate quanto bastava per passare. Aveva lavorato tutta la notte. Togliemmo le reti e non provammo più a rinchiuderlo. Per finire, come qualunque malvivente che si rispetti odiava ferocemente le forze dell’ordine, abbaiava contro i carabinieri e mordeva le ruote della Campagnola quando si fermavano al bar per il caffè!
Ovviamente, il nostro era un inguaribile tombeur de femmes. E siccome era un possidente, non si limitava a volgari, riprovevoli ingroppate per strada; no, Lucky, se mi passate il termine, era un “gentilcane”, astuto e calcolatore, e le sue conquiste se le portava nottetempo nel loft a casa, meglio ancora in quello al bar per un particolare affatto trascurabile: la cuccia era sotto la pergola di uva fragola all’interno di un cancello, e quasi tutti i rivali in amore erano troppo grossi per attraversarne le sbarre!
Poi, all’età di sei anni, in punta di zampe così come era arrivato, sparì. Era divenuto epilettico in seguito ad un incidente. Stando ai “si dice”, fu attaccato da una torma di cani sopra la pineta comunale durante una crisi. Sempre stando a notizie di seconda e terza mano, fu poi caricato dai netturbini nel camion dei rifiuti, dilaniato dai morsi. A domanda, nessuno seppe allora rispondere con certezza se la carcassa caricata fosse veramente Lucky, non era facile capirlo. Vi sembrerà strano ma nessuno a casa ha pianto. Per noi, ancora adesso, non è morto: da spirito libero qual era, ha preferito andare via senza salutare, evitando così lacrime e tristezze del caso. Quando ne parliamo, mia madre azzarda che fosse letteralmente uno “spirito”, magari di un parente trapassato (in questo caso, basandoci sul suo carattere, un sospetto su chi fosse lo nutriamo…!) che ci ha voluti vegliare ed accompagnare per un tratto di strada. Quale che sia la verità, tonnellate di aneddoti al limite del misterioso ci fanno dire che abbiamo avuto la fortuna di possedere (vocabolo brutto oltreché improprio) Lucky, “il” Cane.

lunedì 21 ottobre 2013

In alto a sinistra


I libri insegnano ai ricordi, li fanno camminare. Li ho letti per intero, non ne ho lasciato nessuno a mezzo, per quanto fosse deludente o presuntuoso l’ho seguito fino all’ultima linea. Perché è stato bello per me girare la pagina letta e portare lo sguardo in alto a sinistra, dove la storia continuava. Ho girato il foglio sempre alla svelta, per proseguire da quel primo rigo, in alto a sinistra. Questo mi mancherà del mondo…
(Erri De Luca, In alto a sinistra)


In alto a sinistra. Come la pagina di un libro ancora da leggere.
Per fare visita alla tomba del professore Rosario Monterosso, all’interno del cimitero di Bagnara Calabra, occorre dirigersi verso l’area destinata ai defunti della frazione di Pellegrina e percorrere il vialetto che porta alla cappella dell’Annunziata. Proprio in fondo alla stradina, in alto a sinistra, la sua immagine scruta il viandante, con quello sguardo ben noto a chi gli fu amico, allievo o semplice conoscente.
È volato un anno dalla sua ultima lezione.
Un anno di conversazioni mancate: sull’esecutivo delle larghe intese, sul masochismo del partito democratico, sul governo della regione o sulle amministrazioni comunali dei nostri paesi.
Un anno senza i suoi consigli su quel libro di recente pubblicazione o sul saggio storico che avrei dovuto leggere, perché mi sarebbe stato utile per qualche mia ricerca. Recensioni “volanti”, improvvisate appoggiati alla sua macchina, nel cofano qualche piantina per il suo orto acquistata di passaggio da Sant’Eufemia.
Un anno senza il conforto di parole e di idee candide, sorrette dalla sua onestà intellettuale e dall’esempio fulgido della rettitudine.
Un anno di scoperte non condivise, non commentate. Lou Palanca e Katia Colica, gli ultimi lavori di Carmine Abate e Mimmo Gangemi, l’incoraggiante fermento culturale che la nostra martoriata terra riesce ad esprimere.
Sarei andato a trovarlo per portargli il mio libro e per chiedergli di presentarlo. La moglie Anna, aprendo la porta, mi avrebbe indirizzato da lui: “vedi che è qua dietro, nell’orto. Vai”. L’avrei sorpreso nel suo angolo di paradiso, mi avrebbe accolto col suo “sorriso rugoso” e avrebbe accettato.
Come l’altra volta.
È stato un anno così. Un anno senza Rosario Monterosso.

mercoledì 16 ottobre 2013

Memoria e buon senso


Dieci italiani per ogni tedesco rimasto ucciso nell’attentato eseguito il 23 marzo 1944 dai Gap romani contro le truppe di occupazione in transito da via Rasella. Un ordine giunto direttamente dalla Germania, che rivedeva al ribasso l’iniziale proporzione suggerita da Hitler in persona: cinquanta a uno.
Bisogna tenere a mente questo, quando si guardano le fotografie di Erich Priebke anziano. Quindi accostare le immagini dell’ex capitano delle SS a quelle dei corpi ammassati nelle Fosse Ardeatine: 335 vittime (civili, militari, detenuti comuni e partigiani, ebrei) giustiziate con un colpo di pistola alla nuca. Infine collegare fatti e responsabilità, vittime e carnefici. I martiri dell’eccidio e la pietà umana, da un lato; Herbert Kappler, Kurt Malzer, Erich Priebke, Karl Hass e il questore Pietro Caruso, dall’altra. Né vale la giustificazione “eseguivo degli ordini”, se nei settant’anni successivi all’orribile massacro non ci sono mai stati una dichiarazione di condanna o un barlume di resipiscenza.
Nessun tentennamento, quindi, nella condanna storica e morale di quanto accaduto. Ma veniamo alla cronaca di ieri. Un funerale non funerale, una salma sballottata di qua e di là, gli scontri attorno al feretro. Questa la sintesi di una pagina non esaltante, per nessuno. Per il prefetto di Roma, per l’autore della fuga di notizie, per alcune teste vuote e rasate, per chi si è prodotto nello sport italico dello sputo al cadavere, disciplina che ha una tradizione antica e consolidata.
Per quanto mi riguarda, non è in discussione il sentimento di pietà verso i defunti, che vale per tutti. Anche per Priebke. Quello stesso Priebke che per molti anni si è peraltro mosso per le strade di Roma senza destare parecchia indignazione.
Però chi ha responsabilità nella gestione dell’ordine pubblico doveva prevedere che il funerale facilmente si sarebbe trasformato in un vergognoso raduno di naziskin e che sarebbe bastato un niente per fare scoccare la scintilla della violenza.
Sarebbe stato sufficiente un minimo di buon senso: niente di più, come ha fatto notare anche Massimo Gramellini su LaStampa.it. Ma il buonsenso, si sa, è merce rarissima. Eppure le cronache sono piene di funerali svolti all’alba, in gran segreto e in località sconosciute. Questo bisognava fare. Dare comunicazione della morte del criminale Priebke a esequie officiate: non offrirgli un’ulteriore, postuma e ignobile notorietà.

*Nella foto: “Fosse Ardeatine” (Renato Guttuso, 1950)

venerdì 11 ottobre 2013

Inoccupabili e in fuga

Non trovo offensivo il commento del ministro del Lavoro Enrico Giovannini ai dati diffusi dall’Ocse, che confinano gli italiani tra le ultime posizioni nel mondo per competenze necessarie a collocarsi e a muoversi nel mondo del lavoro. “Inoccupabili”, nella versione strong delle sintesi giornalistiche; “poco occupabili”, in quella ufficiale. Ad ogni modo, cambia poco.
Sbagliano coloro che tentano di metterla sul piano della rissa, come se fossimo al “bamboccioni” di Tommaso Padoa-Schioppa: “quelli che non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”, gentaglia che il ministro dell’Economia del secondo governo Prodi suggeriva di mandare “fuori di casa”. Non si tratta neanche dei giovani “choosy” (schizzinosi), incapaci di accontentarsi di un posto di lavoro qualsiasi, secondo l’accusa di Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti in gara con il vice Michel Martone (quello dei fuoricorso “sfigati”) nella particolare competizione tra coloro che dai salotti di esclusivissimi circoli guardano i comuni mortali con schifato senso di superiorità. La “monotonia” del posto fisso (Mario Monti); i ragazzi da fare uscire di casa a diciotto anni, “per legge” (Renato Brunetta); i lavoratori precari “Italia peggiore” (ancora l’attuale capogruppo Pdl alla camera dei deputati). In questi casi sì che c’era l’offesa, perché chi ha pronunciato quelle frasi fa parte di un sistema fondato sulla disparità delle opportunità. Non a caso, si trattava di fustigatori da cattedra universitaria. Non bisogna essere dei segugi per fiutare l’odore di casta: basta scorrere gli elenchi di associati, ordinari, ricercatori, ma anche amministrativi delle università italiane per scoprire (si fa per dire) la frequenza di certi cognomi. Alla Sapienza di Roma, tanto per ripetere una celebre battuta, c’è un vero e proprio “convento di Frati”: e non sono monaci. D’altronde, qualche “figlio di” ha dato anche una interpretazione genetica: “i figli dei professori universitari vincono i concorsi perché sono più portati a quel tipo di lavoro”. Così come, completerei il concetto, i figli dei generali sono più portati ad avere una carriera nell’esercito e i figli dei medici o dei notai seguono quasi naturalmente le orme dei genitori. Sono più portati. Facciamocene una ragione.
Ecco, queste avventate dichiarazioni al tempo sollevarono, a ragione, un vespaio di polemiche per l’arroganza che trasudavano. Ma sul rapporto dell’Ocse c’è poco da argomentare. La verità non è mai offensiva. E la verità è che, in Italia, istruzione, università e formazione non facilitano per niente l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Perché istruzione e lavoro, da noi, sono due mondi che non si parlano. Scuola e università sono per lo più parcheggi che alla fine rilasciano un inutile pezzo di carta. Non spendibile, perché il mercato del lavoro non sa che farsene (tanto per dirne una) di un esercito di laureati in discipline umanistiche. L’Italia è ormai un paese di laureati, addottorati, pluripossessori di attestati di corsi di formazione professionale. E di disoccupati incazzati.
Il sistema è bloccato e chiuso dall’interno, dove pochi privilegiati cercano di resistere all’assalto congiunto del padronato e delle orde di disoccupati o lavoratori senza alcuna tutela che premono dall’esterno. Per entrarvi bisogna conoscere chi detiene la chiave. Avere un gancio all’interno, fare la fila dietro la porta del politico giusto, scendere a compromessi con la criminalità organizzata. Di certo, la chiave, non ce l’hanno i centri per l’impiego: gli ultimi dati disponibili (relativi al 2011) assegnano infatti ai Cpi la miseria del 3,9% delle intermediazioni tra domande e offerte di lavoro. Né regge la mezza balla del “bisogna osare”: trovate una banca disposta a sostenere l’iniziativa di chi non ha garanzie da offrire in cambio di un mutuo o di un prestito, e poi ne riparliamo.
La disputa sugli “inoccupabili” è fuorviante, sposta l’attenzione dai fatti alle parole. Parole come un disco rotto. Quando condannano, quando giustificano, quando interpretano, quando addirittura esaltano. Soprattutto al Sud. Soprattutto da noi. Gli spot sul paradiso calabrese lasciamoli agli uffici stampa. Un paradiso talmente accattivante da provocare un esodo biblico, un’emorragia di freschezza e competenze ogni giorno più drammatica. Riscattata appena dalla lotta quotidiana di chi si ostina a cercare un motivo qualsiasi per non scappare. Una battaglia sempre più dura, sempre più amara. Fino a quando la misura non sarà colma. Fino a quando non si alzeranno le vele.
Allora saranno lacrime di dispetto. Asciutte. E orecchie tappate per respingere il canto delle sirene: “non partire, resta qua”. Sarà strapparsi il cuore e interrarlo in qualche sperduto rittano dell’Aspromonte.
Questo sarà.

domenica 6 ottobre 2013

Nei loro occhi, la nostra storia

 
Cosa resterà di queste giornate di dolore, rabbia e parole? Quando le luci si abbasseranno e il sipario calerà sul sangue di Lampedusa, cosa avremo imparato da questa immane tragedia? Che è una “vergogna”, come tutti – ma proprio tutti, anche quelli che forse avrebbero fatto meglio a tacere – si sono affannati a concordare con papa Francesco? E che sì, è una vergogna: un po’ di indignazione e lacrime che presto asciugheranno, il tanto che basta per salvare le nostre coscienze di occidentali distratti?
Certo, molto è stato detto. L’Europa che pensa di scaricare sull’Italia il dramma dei migranti, la Bossi-Fini, il reato di clandestinità, il diritto di asilo e le regole sull’accoglienza dei naufraghi. L’assurdità di norme che condannano per favoreggiamento i pescatori in soccorso ai barconi abbandonati al largo con il loro carico di disperazione. L’atroce beffa toccata ai sopravvissuti, denunciati (“atto dovuto”) per immigrazione clandestina. Le condizioni drammatiche dei centri di accoglienza a Lampedusa e altrove, sovraffollati e invivibili nonostante l’umanità di operatori, volontari, cittadinanza, forze dell’ordine.
Tutto vero, tutto giusto. Tutto inutile se la questione dei migranti, da emergenza sociale e culturale, sarà sempre derubricata a problema di ordine pubblico. Perché, in quel caso, basterà stringere un patto con i paesi da cui salpano i pescherecci e il problema sarà risolto a monte. E pazienza se le violazioni su migranti e rifugiati politici in alcuni paesi sono all’ordine del giorno. Pazienza se la soluzione trasforma in cimiteri le strade che dal centro-Africa portano al Mediterraneo, come documentò qualche anno fa il giornalista Fabrizio Gatti in un reportage sulla fine che facevano gli immigrati respinti e restituiti alla Libia sulla base dell’accordo stretto tra Berlusconi e Gheddafi nel 2008.
Lampedusa è la punta dell’iceberg. Il trailer di un dramma dalle proporzioni inimmaginabili, con protagonista un’umanità dolente e in fuga da guerre e carestie che muore mentre lotta per attraversare il deserto del Sahara, o mentre sfida le onde del mare su legni di fortuna. Stragi di cui niente si sa, fino a quando non accadono a poche centinaia di metri dalle nostre coste. Cifre di una macabra contabilità da aggiornare quotidianamente.
Numeri che hanno un volto. Lo stesso volto dei nostri nonni e bisnonni affondati sul “Sirio” nel 1906; morti di colera, febbre gialla o tubercolosi nel girone dantesco di Ellis Island; assiderati sul confine francese, mentre tentavano di valicare clandestinamente le Alpi: “quando gli albanesi eravamo noi”, per dirla con il sottotitolo di L’orda, il libro che nel 2002 Gian Antonio Stella dedicò al nonno “Toni ‘Cajo’, che mangiò pane e disprezzo in Prussia e in Ungheria e sarebbe schifato dagli smemorati che sputano oggi su quelli come lui”. Dagos da linciare e impiccare ai lampioni delle strade, come successe nel 1891 a undici siciliani ingiustamente accusati di avere ucciso un poliziotto a New Orleans.
Pagine che andrebbero distribuite nelle scuole, con invito ai ragazzi di portarle a casa e farle leggere a quei genitori che non ne possono più di “tutti questi stranieri che vengono in Italia a rubare, spacciare e stuprare”. Affinché negli occhi impauriti dei naufraghi sopravvissuti riescano finalmente a scorgere un volto familiare; nella loro odissea, la nostra storia; nella negazione dei loro diritti, le nostre lotte per avere riconosciuta dignità di uomini.

martedì 1 ottobre 2013

Finale di partita

Quando, mille anni fa, Gianfranco Fini (chi era costui?) pronunciò il memorabile “siamo alle comiche finali”, lo fece da inguaribile ottimista. E per la sua vicenda personale, marchiata dalla condanna all’irrilevanza politica che si abbatte su chiunque nel centrodestra entra in rotta di collisione con Berlusconi; e per la situazione politica generale, slittata pericolosamente in uno scenario da tragedia greca.
Non per i morsi della crisi economica, ogni giorno più forti, come attesta il drammatico dato della disoccupazione giovanile, che ad agosto per la prima volta ha sfondato il muro del 40%. La tragedia cui si fa riferimento è quella di un uomo asserragliato nel bunker di Arcore, ostaggio dei falchi del partito, costretto nel vicolo cieco della logica del “tanto peggio, tanto meglio”, o del “muoia Sansone con tutti i filistei”. Attorno, soltanto nemici: l’ultimo, in ordine di tempo, il presidente della Repubblica, al quale non più tardi di cinque mesi fa il centrodestra chiese in ginocchio di restare al Quirinale per un secondo mandato. O traditori, secondo l’antico schema applicato a Casini, Follini e Fini. Un vestito che oggi a fatica e soltanto ricorrendo a una buona dose di fantasia si riesce a fare indossare a un Cicchitto o ad un Alfano.
Ma tant’è: risultato scontato se a passare è la linea dura di Verdini, Bondi, Santanchè e Ghedini, sposata e imposta senza alcun dibattito a un esercito di nominati. E fa sorridere l’uscita di Cicchitto sulla mancanza di democrazia interna in Forza Italia (“Berlusconi avrebbe bisogno di un partito democratico nella sua vita interna”), come se in vent’anni, da quelle parti, vi sia mai stata collegialità nelle decisioni e non, piuttosto, un pedissequo allineamento ai desiderata del capo. Un gioco al massacro, quindi, per spingere il Paese nel gorgo e che non inciderà per niente sull’epilogo – ormai segnato – della vicenda giudiziaria di Berlusconi. Chi può mai credere alla favoletta del governo caduto sui provvedimenti economici, nonostante il refrain intonato dalle televisioni e dai giornali di Berlusconi? Al solito, sono i guai con la giustizia il vero problema. La questione della decadenza da parlamentare, non appena diventerà esecutiva la sentenza che ridefinirà i termini dell’interdizione dai pubblici uffici. E che Berlusconi vorrebbe scongiurare facendo saltare il banco per portare gli italiani ad elezioni entro la fine di novembre. Con tempi talmente stretti da fare indovinare una strada difficilmente percorribile.
Ma a destare ulteriore preoccupazione sono le nubi minacciose in arrivo dagli altri fronti giudiziari, con condanne e richieste di arresto che Ghedini dà per scontate e che sarebbero all’origine della disperata e istintiva reazione dell’ex premier.
Indro Montanelli, che lo conosceva bene, predisse che l’Italia di Berlusconi sarebbe finita “male, malissimo: nella vergogna e nella corruzione”, aggiungendo che, a quel punto, sarebbe stato “inutile avere ragione”. La sensazione è che andrà a finire proprio così.

martedì 24 settembre 2013

L'epigrafe di Visalli, lo stupore di Mico



Lì per lì Mico non capì cos’era quello strano oggetto che si intravedeva tra i calcinacci depositati dalla benna della ruspa dentro al cassone del suo vecchio OM Leoncino. Spense il motore, saltò a terra e con uno scatto fu tra i resti ammucchiati di quello che era stato un bel palazzo municipale, in seguito rimpiazzato con l’attuale freddo, insignificante edificio.
Un tubo d’acciaio lungo non più di quaranta centimetri, chiuso con un tappo metallico a una delle estremità. Svitò con cura e appoggiò l’occhio destro sul foro, tenendo il sinistro chiuso come quando si punta un cannocchiale verso il cielo, per sbirciare dentro. Quindi estrasse un foglio arrotolato, che aprì con entrambe le mani e tenne davanti al viso per pochi lunghi, interminabili secondi. L’orgasmo era quello del cacciatore di tesori alle prese con la decodificazione di una mappa.
Quel foglio “era” un tesoro. Ma nessuno tra i suoi concittadini lo sapeva, né ricordava l’esistenza di quella miniatura. Amministratori comunali per primi. Erano passati più di settant’anni da quando (luglio 1914) il notaio Pietro Pentimalli, sindaco di Sant’Eufemia, aveva fatto murare nelle fondamenta del palazzo in costruzione l’epigrafe composta dall’illustre concittadino Vittorio Visalli, il maggiore storico del Risorgimento in Calabria:

Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire.
V Luglio MCMXIV

Al termine di una polemica durata cinque anni, il paese distrutto dal terremoto del 28 dicembre 1908 stava infatti riprendendo a vivere, un po’ più a ovest rispetto al “Vecchio Abitato”, nella zona denominata “Pezza Grande”. Conciliare la posizione dei nostalgici del “Paese Vecchio” con quella dei fautori del traslocamento nei nuovi terreni da edificare non fu facile, tanto che più volte rischiò di scapparci il morto. Ma alla fine una soluzione si trovò. Merito del deputato reggino Giuseppe De Nava, che riuscì a mettere tutti d’accordo facendo approvare dal Parlamento un provvedimento che di fatto comportò l’abolizione del divieto di ricostruire nelle aree devastate dal terremoto. E che pertanto si guadagnò il diritto di apporre la prima firma sull’epigrafe di Visalli, in cima a destra, alla quale seguirono quelle del vescovo di Mileto, monsignor Giuseppe Morabito, di personalità di primo piano e degli amministratori eufemiesi, sindaco in testa. Il municipio fu però costruito al centro della “Pezza Grande”, in quella piazza “Garibaldi” (oggi piazza “Libertà”) che ben presto, a celebrazione della “marcia” su Roma, assunse – e mantenne per tutta la durata del Ventennio fascista – la denominazione di piazza “XXVIII ottobre”.
Dodici anni più tardi sarebbe toccato al deputato di origine paolana Maurizio Maraviglia, eletto nel “listone” nazionale del 1924 per la circoscrizione Calabria-Lucania, inaugurare il palazzo costruito dalla locale società cooperativa di produzione e di lavoro, presieduta da Pasquale Pisano. Una giornata memorabile, iniziata con l’arrivo a Sant’Eufemia del corteo delle macchine al seguito del gerarca fascista, giunto in treno alla stazione di Villa San Giovanni alle 9.30 del 7 marzo 1926. In compagnia del prefetto di Reggio Calabria Francesco Benigni, Maraviglia – nominato cittadino onorario di Sant’Eufemia – brindò con “vermouth d’onore” all’inaugurazione del palazzo municipale e dell’acquedotto comunale, prima di fare visita, nel pomeriggio, al cantiere della ditta del commendatore Giacomo Chiuminatto, che stava allora ultimando i lavori per la realizzazione della galleria e del ponte sulla ferrovia nel tratto eufemiese della linea “taurense”.
Per il pranzo dell’illustre ospite e del suo nutrito seguito aveva provveduto il podestà Diego Fedele: antipasto assortito, “consumato” alla regina, manzo e pollo con contorno di patate lesse, pesce bollito con salsa alla maionese o salsa verde, dessert, caffè, liquori, champagne. Da bere, vino locale. Al momento del brindisi risuonò stentorea la voce di Bruno Gioffrè, medico condotto, ma anche poeta e brillante oratore in occasione di nozze, commemorazioni di defunti, celebrazioni storiche.
Una storia sopravvissuta in rare fotografie dell’epoca. E in quel tubo d’acciaio, sepolto sotto le rovine del vecchio palazzo municipale, da Mico salvato per caso.

lunedì 16 settembre 2013

Quella volta che i pettoti "rubarono" la statua di Sant'Eufemia



“Sa rrobbaru. Sa tinniru e non cia tornaru”. Quante volte l’abbiamo ascoltata (credendoci o scherzandoci su) la storia della statua di Sant’Eufemia “sottratta” dagli abitanti del rione Petto ai “legittimi” proprietari del Vecchio Abitato (o Paese Vecchio)?
Una leggenda metropolitana che affonda le radici nella notte dei tempi, ma che – come tutte le leggende – ha un fondo di verità.
In tanti sosterranno che si tratta di realtà, non di leggenda. Come un mantra ripeteranno antichissimi racconti, tramandati da padre in figlio e giunti freschi ai nostri giorni, carburante ancora buono per alimentare il sacro fuoco dei campanilismi. Che sono almeno tre, coincidente ognuno con un momento cruciale della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Snodi storici che videro protagonista la furia degli elementi più che la volontà degli uomini. Perché spesso soltanto gli eventi naturali sono in grado di deviare il corso di una storia che altrimenti scivolerebbe su prevedibilissime rotaie.
Per ogni rione, una campana e un migliaio di campanari. Com’è giusto che sia nella patria di Guicciardini.
Il primo campanile lo troviamo al Paese Vecchio, che fino al diciannovesimo secolo costituì il centro abitato di Sant’Eufemia. Proprio nell’area occupata dall’attuale piazza Concordia, anticamente, sorgeva il monastero di Sant’Eufemia, sui cui resti in seguito fu edificata la chiesa di Sant’Eufemia o chiesa Matrice, che viene segnalata – insieme ad altre tre chiese: San Rocco, San Giovanni, Santa Maria delle Grazie – nel resoconto della visita pastorale del 1586, il più antico a noi pervenuto.
Il terremoto del 5 febbraio 1783 (“u fracellu”), che provocò un migliaio di vittime e la distruzione di gran parte del paese, rappresenta la prima cesura storica significativa. Il progetto di ricostruzione realizzò un nuovo insediamento urbano nel pianoro del “Petto del Principe”, posto più in alto rispetto al vecchio centro. E proprio nell’attigua “Vigna di Belvedere”, che era grangia (per semplificazione, azienda agricola) del monastero di San Bartolomeo di Trigona, si trovava il baraccone nel quale si ritirarono i monaci sopravvissuti al terribile sisma. Lì sorse una chiesa dedicata alla protettrice (mentre la vecchia chiesa Matrice assunse l’attuale denominazione di chiesa del SS. Rosario), che nel 1856 fu riconosciuta come seconda chiesa parrocchiale di Sant’Eufemia, la prima essendo quella dedicata a Santa Maria delle Grazie.
Ma una ulteriore “mutilazione” gli abitanti del Paese Vecchio l’avrebbero subita in seguito al terremoto del 28 dicembre 1908. Poco meno di seicento vittime e duemila persone costrette a trasferirsi nella Pezza Grande (o Pezzagrande), dopo che finalmente fu raggiunto un compromesso tra i fautori della riedificazione nel Paese Vecchio e i propugnatori di una ricostruzione nel nuovo sito, fino ad allora aperta campagna. Protagonista dell’accordo fu il deputato reggino Giuseppe De Nava, il quale si fece garante della revisione della legge sulla definizione delle aree edificabili: ciò comportò l’edificazione del paese nell’area della Pezzagrande, ma anche la deroga al divieto di ricostruire nell’area del Vecchio Abitato.
Sono i due terremoti a cambiare il volto di Sant’Eufemia. E con esso, lentamente, la sua stessa natura e ragione d’essere. Due nuovi rioni, due nuovi campanili. E rivalità che attraversano la storia cittadina come un fiume carsico, presentando – periodicamente – la caratteristica di una inutile e anacronistica contrapposizione: a volte simpatica, certo; ma il più delle volte insopportabile.
La storiella del “furto” della statua di Sant’Eufemia fa parte di questo armamentario campanilistico. Proprio per questo viene raccontata con “dovizia” di particolari: il 16 settembre di un anno imprecisato, la processione partita dal Paese Vecchio sarebbe stata interrotta da un violento temporale che costrinse i fedeli a trovare riparo all’interno della chiesa al Petto, la quale – trascorse ventiquattro ore e sulla base di una legge non meglio specificata – sarebbe diventata ipso facto la nuova dimora della sacra effigie.
Un racconto incredibile, eppure creduto. È evidente, invece, che il trasferimento del culto nella nuova chiesa, dopo il 1783, dovette comportare anche il traslocamento della statua. Come peraltro afferma Vincenzo Francesco Luzzi nel suo contribuito (La comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna) al convegno storico su Sant’Eufemia d’Aspromonte organizzato dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio” nel 1990, i cui atti furono pubblicati a cura di Sandro Leanza, sette anni dopo.
È evidente, dicevamo. Ma non per tutti, se ancora una quindicina d’anni fa non pochi “fedeli” avrebbero voluto custodire la statua di Sant’Eufemia in un’abitazione privata invece di trasferirla temporaneamente presso la chiesa di Sant’Ambrogio, nella Pezzagrande, per la durata dei lavori di restauro che interessarono la chiesa al Petto. Perché poi, passate le ventiquattro ore, poteva accadere di tutto.
E invece non successe nulla.

*Nella foto, tratta dal profilo Facebook di Antonio Saccà, la spettacolare “entrata” di Sant’Eufemia sotto un tunnel di fuochi pirotecnici

giovedì 5 settembre 2013

La grande fuga di Mario

In questi giorni, su L’Ora della Calabria, si è sviluppato un dibattito innescato dal corsivo di Francesco Ferro, pubblicato il 31 agosto: “Una terra senza futuro. Non resta che scappare”. Il quotidiano diretto da Piero Sansonetti ha poi ospitato le testimonianze di alcuni calabresi emigrati, mentre Aldo Varano, direttore di Zoomsud.it, è intervenuto con l’editoriale “Calabria. La grande fuga di chi può alla ricerca di un’altra vita”.
Avendo in casa la possibilità di una testimonianza diretta, ho chiesto a mio fratello Mario (che vive a Londra da sedici anni) di raccontare la sua esperienza. Ciò che salta agli occhi è il confronto tra una realtà che offre delle opportunità, beninteso senza regalare niente (si pensi alle periodiche valutazioni alle quali è sottoposto il lavoratore), e un’altra che non dà a tutti le stesse possibilità. Per cui l’ingresso nel mondo del lavoro è un sei al superenalotto o un umiliante questuare davanti alla porta di chi può fare il miracolo. Senza girarci troppo attorno, dalle nostre parti politica o criminalità organizzata.
(D. F.)


Da bambino, la mia materia preferita era la geografia, e l’Atlante Mondadori il volume al quale ero più legato. Mi affascinavano le mappe e le foto di quei luoghi lontani e sconosciuti. Sognavo di andarci in quei posti, visitarli tutti per poi poter dire – alla fine dei miei giorni – che sì, il mondo è stato veramente la mia ostrica.
Col senno di poi, penso che la voglia di viaggiare ed evadere, scoprire, capire e vivere a contatto con diverse culture mi abbia salvato da un’esistenza grigia e da una realtà, quella calabrese (che poi è un riflesso di quella italiana), che a me è stata sempre stretta.
Ricordo che mentre i miei compagni di liceo si chiedevano che facoltà universitaria scegliere una volta raggiunta la maturità, io pianificavo la fuga, una fuga a tutti i costi. Ero incoraggiato dalla mia professoressa di italiano, la quale spesso – dopo avermi dato del fetente e del lavativo – mi diceva che avevo il potenziale ed il cervello per riuscire in qualsiasi cosa avessi deciso di fare.
La mia prima esperienza lavorativa in Italia sono stati quindici mesi nell’esercito italiano: sottotenente ufficiale di complemento. Mi ero arruolato per denaro. Avevo 20 anni e lo stipendio mi procurò quella indipendenza economica alla quale, in seguito, non avrei saputo più rinunciare. Oltre ad essere valsa il titolo di Nobiluomo a vita (e che mio fratello il dottore schiatti di invidia!), quell’esperienza mi convinse che chiedere favori e raccomandazioni non fa per me. Inizialmente ero stato infatti scartato alla visita medica ma poi, con una telefonata, il mio torace si sviluppò magicamente di 5 centimetri! Superai la visita, ma mi sentì sporco.
Una volta congedato, spesi otto mesi a Palermo, giusto il tempo per verificare che l’Università non era il mio forte. All’insaputa dei miei, dopo aver risposto all’annuncio letto su un giornale, mi trasferii a Milano, dove trascorsi tre mesi facendo il porta a porta per i prodotti più impensabili.
Un giorno lessi un articolo sull’Inghilterra. Il pezzo parlava di come fosse facile trovarvi lavoro ed anche imparare la lingua. Con gli ultimi risparmi, due giorni dopo comprai un biglietto per Londra. Avevo 22 anni. Non avevo mai preso un aereo in vita mia, a parte quello che mi aveva portato dall’Australia in Italia, a neanche tre anni. Ricordo che a bordo non chiesi nemmeno un bicchiere d’acqua e rifiutai il cibo che mi offrirono. Avevo paura che mi chiedessero il conto. Arrivai a Londra il 16 giugno 1997, con in tasca i soldi per pagare la stanza di un ostello per due settimane (da dividere con tre estranei), quattro sterline e TANTA fame. Trovai lavoro in un McDonalds due giorni dopo. Una manna: mangiavo gratis per 8 ore al giorno!
Londra non l’ho più lasciata. Ho cambiato occupazione mano a mano che il mio inglese è migliorato. Negli anni ho lavorato in vari bar, ottenendo promozioni e arrivando persino a dirigerne uno. Per tre anni sono stato consulente bancario per una multinazionale del calibro di HSBC, per altri due agente della Polizia metropolitana londinese. Ora lavoro come steward di volo per la Virgin Atlantic, un’occupazione che settimanalmente mi porta in giro per il mondo, facendomi rivivere i miei sogni di bambino.
Mi ritengo fortunato, perché so che ogni volta tutto dipende dalle mie forze. Questo vuol dire vivere in una realtà meritocratica. Qui non si chiedono favori, a nessuno. Ci si prepara e ci si presenta ai colloqui. Punto. Il lavoro te lo offrono se sei qualificato, o se individuano in te del potenziale.
In banca ero stato assunto nonostante i miei stiracchiati 42/60 di maturità scientifica, dopo tre settimane di training retribuite (!): alla fine del periodo di formazione mi fu offerto un posto in prova e, dopo sei mesi di valutazioni mensili, un contratto a tempo indeterminato. Quando ho realizzato che avrei voluto fare altro, ho lasciato quel lavoro: chi, in Italia, abbandonerebbe un posto in banca?
Negli anni mi sono lasciato alle spalle tre contratti a tempo indeterminato, e non ho mai avuto paura di non riuscire a trovarne un altro. Londra mi ha insegnato che il lavoro attuale serve per migliorarsi e creare delle opportunità per il lavoro successivo, e poi per il prossimo ancora. Così ci si costruisce un curriculum ed una carriera, e magari un giorno ci si sveglia con la sensazione di stare vivendo, e non soltanto sopravvivendo.
A distanza di sedici anni e dopo aver acquistato un appartamento, Londra è diventata la mia casa e Sant’Eufemia il paese in cui sono cresciuto. Va bene così.
Talvolta mi mancano i sapori e gli affetti, ma non ho rimpianti. Se fossi rimasto in Calabria sarei vissuto solo a metà, o forse neanche.
Sono contento per chi è in pace. Soprattutto ammiro e rispetto chi ha avuto il coraggio di rimanere e lottare in una realtà che offre poco o niente. Chissà, anche se non sembra, forse io ho scelto la strada in discesa. Ho solo un’amara certezza: la tristezza che provo per chi è rimasto ed ha lasciato che la nostra terra divorasse tutto, non solo talento ed ambizioni, ma con il tempo anche i sogni.
Mario Forgione