giovedì 29 gennaio 2015

“U Burgu” in fiamme

Ninuzzo è un dodicenne vivace, che non sta fermo un secondo neanche a tenerlo legato. Sempre in giro ad armari chiacchi per le lucertole che, una volta catturate, si diverte a portare al guinzaglio. Un paio di scarpe con le ttacce che spesso toglie perché gli sono d’impaccio quando deve correre veloce per portare in salvo la frutta rubata negli orti che fanno da corona al centro abitato. Pantaloni di tarpa e maglie grosse anche d’estate: è importante essere preparati ad affrontare il freddo, quando arriverà; alla calura si può sempre ovviare rinfrescandosi con l’acqua del gurnali a Crasta tra rane, bisce, trote.
Gli piacciono gli animali, nel 1902 ce ne sono ovunque a Sant’Eufemia. Cani e gatti per strada, galline, capre da mungere ogni mattina per la colazione e le famiglie più fortunate anche il mulo nel pianterreno; in quello di sopra ci si stringe alla meglio, sei-sette ma anche di più tra adulti, bambini e anziani. L’acqua viene versata dalle bumbule riempite nelle fontane pubbliche, per il bucato si utilizzano i lavatoi di Diambra o della Nucarabella.
La sua passione sono i gatti, se ne trovano in quasi tutte le case. Vivono tra il fieno del basso e fanno da guardia alle scorte alimentari esposte alla costante minaccia dei topi. Da un po’ di tempo un pensiero occupa la sua mente dalla mattina alla sera: controllare se i gattini nati da qualche giorno stanno bene. Ogni paio d’ore afferra la lampada a petrolio e va a scovare il rifugio che mamma gatta ha rimediato in un angolo del deposito dell’abitazione in cui vive, nel rione “Borgo”.
Sono appena trascorse le tredici del 18 settembre, due giorni prima ci sono stati i festeggiamenti in onore della santa patrona: Ninuzzo appoggia a terra il lume e accade l’irreparabile. Una favilla schizza sul fieno, che prende fuoco. Quando il ragazzino se ne accorge è troppo tardi, o forse non fa neanche in tempo a comprendere quello che sta accadendo. Può darsi che la scintilla abbia portato a termine il suo tragico lavoro in un secondo momento. Con Ninuzzo già lontano. Il rapporto trasmesso al prefetto di Reggio Calabria su questo punto non è chiaro. Fatto sta che l’incendio si sviluppa rapido e le fiamme, alimentate dallo scirocco, si propagano nelle case vicine, “costituite da quattro muri perimetrali in muratura e da vari tramezzi ed impalcature in legname”. La maggior parte sono vuote perché i proprietari sono contadini impegnati nel lavoro dei campi. Proprio per questo non ci saranno vittime, ma proprio per questo l’incendio divamperà violentissimo. Due donne lanciano l’allarme, subito dopo accorrono sul posto il brigadiere e due carabinieri. Quindi si precipitano tra le viuzze del “Borgo” le autorità locali, le guardie municipali e quelle campestri, volontari giunti d’un fiato persino dalla vicina Sinopoli, allarmati dallo spettacolo drammatico delle lingue di fuoco altissime contro il cielo cobalto. Nel volgere di quattro interminabili ore l’incendio viene circoscritto, alle 21.10 al prefetto viene comunicato che le fiamme sono state finalmente domate. I soccorritori riprendono a respirare, si passano stracci bagnati a togliere cenere e fumo incrostati dai visi stanchi, si lasciano cadere a terra come in una liberazione, vinti dall’emozione e dalla fatica.
Il bollettino finale è da guerra: 7.500 metri quadrati di area urbana devastati dalle fiamme, 126 case distrutte completamente e 11 parzialmente, quasi 500 cittadini senza un tetto sotto il quale ripararsi, 141 nominativi inseriti nell’elenco delle persone danneggiate. Il presidente del consiglio provinciale, l’eufemiese Michele Fimmanò, denuncia danni per duecentomila lire, anche se il sottoprefetto di Palmi dimezza la stima della somma necessaria per coprire i costi di ricostruzione delle abitazioni e risarcire il danno per la perdita delle derrate.
Le vittime trovano ospitalità nei locali delle scuole e nelle chiese, dalla seconda notte nelle tende da campo montate dai militari dell’esercito, infine in abitazioni messe a disposizione dall’amministrazione comunale, che provvede al pagamento dell’affitto e alla distribuzione di buoni spesa per pane e pasta. Nell’immediato servono almeno 5.000 lire. Il ministero dell’Interno stanzia 1.600 lire di sussidi (più ulteriori 900 a distanza di poco tempo), altre 2.000 le invia il re d’Italia Vittorio Emanuele III affinché siano distribuite “fra gli abitanti più bisognosi”, circa 1.000 vengono invece raccolte grazie alle sottoscrizioni del “Comitato provinciale di soccorso”, composto dalle personalità più rappresentative della provincia: il consigliere di prefettura Alfredo Pacetti (delegato del prefetto), il deputato nazionale Giuseppe De Nava, il presidente del consiglio provinciale Michele Fimmanò, il presidente della deputazione provinciale Francesco Carlizzi, il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Carbone, il sindaco di Sant’Eufemia Francesco Capoferro, il presidente della Camera di Commercio Giuseppe Spinelli, il direttore della succursale della Banca d’Italia Tranquillino Squillace, il direttore del Banco di Napoli.
Come spesso accade quando la sventura si accanisce contro una comunità, si mette in moto una gara di solidarietà che tuttavia non riesce ad alleviare i disagi della popolazione colpita dal disastro. A un anno di distanza il sindaco di Sant’Eufemia è infatti costretto a richiedere al ministero dei Lavori Pubblici l’invio di un ingegnere del genio civile, affinché accerti definitivamente il danno patito dalle vittime dell’incendio e proceda alla redazione del progetto di ricostruzione di circa ottanta case, mentre ancora nell’estate del 1904 definisce insufficiente la raccolta di fondi per la ricostruzione del quartiere raso al suolo dal fuoco.

giovedì 22 gennaio 2015

Don Beniamino

Mi vuole bene don Beniamino. Mi vuole bene perché sono la cassaforte dei suoi piccoli peccati. Cose veniali, niente a che vedere con le pallottole calibro 38 che ogni tanto vende a chi non dovrebbe. Per quieto vivere, perché non smania di mettersi contro certi pezzi di malacarne del paese. Avrebbe solo da rimetterci: la vetrata dell’armeria o le gomme della sua Vespa. Chi glielo fa fare? Tanto lo sa che quelli sparano solo per uccidere l’anno vecchio – che mai si comporta bene, mai – e per presentarsi com’e cristiani a quello che inizia. Affinché il nuovo si sappia regolare. E poi, di questi tempi la modernità di giovani senza educazione consiglia la riserva di una buona scorta di munizioni: per ribadire le gerarchie del rispetto, se necessario. Ma qua siamo a posto, non abbiamo di questi problemi. Ognuno fa il suo e non disturba gli altri.
Mi sono inventato il lavoro investendo qualche soldo di famiglia per acquistare la macchina dei miei sogni, una Fiat 1100 solida come un carrarmato. Mi chiamano piede amaro proprio per lei, l’auto che al cinema di Mico “il vichingo” ho visto guidata da Nino Manfredi. Resto parcheggiato tutto il giorno in piazza, scambio con gli amici parole, risate, imprecazioni per la Sisal sfuggita d’un soffio – ma la prossima volta non mi frega – e aspetto che qualcuno mi chieda di essere portato a Palmi, Bagnara o Reggio. Perlopiù faccende di ospedali e medici, avvocati e tribunali.
La piazza ha la vivacità lenta dei paesini di montagna. Di domenica diventa però un formicaio umano che rimbalza da una bancarella all’altra, occhi clandestini che dal muretto accarezzano morbidi fianchi distanti, apparentemente rapiti dai fichi d’india che le mani esperte della vagnarota sfilano dai còfani del mulo, sbucciano e porgono a ragazzi voraci, dieci lire ogni quattro frutti, fino a vuotarli.
Don Beniamino spunta dall’angolo del bar, saluta gli amici alle prese col tressette tra i tavoli che attraversa allegro, una pacca qua e una là, apre il sorriso e mi dà appuntamento per il pomeriggio: «Più tardi andiamo a bere un buon caffè».
Il caffè di don Beniamino “dura” almeno cinque ore. Un tempo sospeso tra i tornanti che lenti scivolano fino a Bagnara, alle spalle la mano protettiva dell’Aspromonte ad accarezzare il nostro cammino, di fronte lo Stromboli piantato sull’orlo del mare, nel punto in cui l’acqua si confonde con il cielo. Quindi di corsa verso Scilla, da superare a tutto gas come per sfuggire al latrato dei sei cani del mostro; infine Villa San Giovanni con i suoi fazzoletti di saluto per le fughe di vite dal finale altrimenti prevedibile, che sarà invece riscritto nelle Americhe o in Australia.
Al rientro, sul traghetto, don Beniamino si fa sempre incartare per la moglie un paio di arancini. Non le “arancine” della tradizione palermitana: l’aranciu è maschio, non femmina. E pazienza se nella “scuola” messinese hanno la forma conica della pera, non quella rotonda dell’arancia.
All’andata non consuma niente, concentrato com’è a pregustare con la mente l’aroma che inebrierà le sue narici al tavolino del bar “Irrera”, non appena sarà svanita l’estasi di un cannolo gigante. Vada a farsi fottere la glicemia alta: l’avrebbe detto pure Seneca duemila anni fa, che però giustificava un solo colpo di pazzia all’anno, non la puntualità settimanale di don Beniamino.
Peccati dolci come la crema di ricotta e le ciliegine candite che il mare di mezzo assolve, collocandoli in una realtà parallela, foderata con la carta da parati delle stanze dell’albergo “Monza” o “Del Sole”, dove don Beniamino s’intrattiene per placare bollori non ancora attenuati dall’incedere dell’età, mentre io inganno l’attesa davanti alle vetrine del viale San Martino.

martedì 6 gennaio 2015

Giancarlo e Antonia, o dell’opportunità di diffondere immagini che commuovono il web

Un ragazzo che tiene sulle ginocchia la nonna ottantasettenne affetta da Alzheimer, abbracciandola come se la stesse cullando, un commento postato da Gioia Tauro un’ora dopo la mezzanotte di capodanno: “Anche questo è amore… non è stato il 31 dicembre migliore della mia vita forse… ma anche questo fa parte della vita... una volta mi tenevi tu sulle tue gambe adesso lo faccio io nonnina, senza vergogna e senza timore… per ricordare a tutti che la vita va vissuta e va combattuta… è facile scrivere parole su Facebook o altro... nella vita si deve essere presenti sempre e comunque… questo è il mio augurio per il 2015, la presenza di qualcuno accanto che ci possa proteggere e confortare ma anche essere felice e sorridente con noi”.
Sono loro i protagonisti della prima fotografia virale del 2015: “l’immagine che fa commuovere il web”. Ne parlano i giornali nazionali e la stampa straniera, in pochi giorni il post sfiora i 500.000 “mi piace”, ottiene più di 50.000 condivisioni e quasi 1.500 commenti. Commozione, dolcezza, amore in un mondo che fatica a difendere i valori autentici, semplici, che dovrebbero regolare le azioni quotidiane di ognuno di noi. I commenti parlano di buoni sentimenti e danno una spruzzata di ottimismo a questo inizio d’anno: non tutto è perduto se ancora ci sono giovani capaci di gesti d’amore come quello di Giancarlo Murisciano nei confronti della nonna Antonia.
Lo so che rischio l’impopolarità, ma la mia prima impressione non è stata questa. Riflettendo più a mente fredda ho poi pensato che forse qualche efficacia la diffusione dell’immagine potrà pure averla, che certamente il messaggio veicolato è positivo. So anche che l’impatto mediatico di una fotografia è superiore, e di molto, a quello di uno “stato” privo di immagine, contenente solo parole. Chiunque possieda un profilo Facebook può facilmente verificarlo.
Eppure non mi convince questo bisogno di rendere tutto pubblico, anche i sentimenti privati. Ha un retrogusto amaro. E non perché ciò debba per forza nascondere una forma di esibizionismo. Giancarlo ha fatto tutto con amore, non lo metto in dubbio. Però i soggetti deboli, si tratti di bambini, anziani, malati, vanno trattati con prudenza, delicatezza, pudore. Abbiamo assistito a campagne con protagonisti uomini e donne affetti da gravi patologie, volte alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’importanza di raccogliere fondi o per pretendere dalle istituzioni l’attivazione di politiche adeguate. Ma sono stati gli stessi soggetti in questione ad autorizzarne la diffusione. Nel caso di Antonia manca invece la volontà dell’anziana donna.
Sia chiaro: la preferenza per la strada della discrezione, quando si incrocia il dolore delle persone, non sottintende in me alcuno spirito polemico nei confronti di questa specifica vicenda. Nel caso dovesse un giorno capitare a me, so però che non avrei piacere a subire una decisione assunta da altri e lesiva, seppure in buona fede, del mio probabile desiderio di non mostrarmi in una condizione non rispettosa della mia dignità di uomo, quale un’immagine che rivelasse la mia incapacità di intendere e di volere.