mercoledì 29 febbraio 2012

Blogging Day per Rossella Urru

Il "blogging day" è un giorno in cui un gruppo di blogger decide di parlare di un unico argomento. Allo scopo di sensibilizzare quante più persone possibili e di far parlare anche i media del rapimento di Rossella Urru, nella giornata di oggi i blogger che aderiscono all'iniziativa dedicheranno il proprio post a questo argomento. Per contribuire alla conversazione su Twitter social network usiamo gli hastag #freerossella e #freerossellaurru


L'appello di Donne Viola:

Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre Rossella Urru ed altri due cooperanti spagnoli (Ainhoa Fernandez de Rincon, dell’Associazione amici del popolo saharawi, e Enric Gonyalons, dell’organizzazione spagnola Mundobat) sono stati rapiti da uomini armati, arrivati a bordo di diversi pick-up. Originaria della provincia di Oristano, Rossella Urru, 29 anni, e’ rappresentante della ONG Comitato Italiano Sviluppo dei Popoli (Cisp) e lavora da due anni nel campo profughi Saharawi di Rabuni, nel sud ovest dell’Algeria, coordinando un progetto finanziato dalla Comunità europea.
Rossella si occupava di rifornimenti alimentari, predisponeva la distribuzione con particolare riguardo alle necessità di donne e bambini. Rossella Urru e’ laureata in Cooperazione Internazionale presso la facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna, proprio con una tesi sul popolo Saharawi.
Dalla notte del sequestro non si hanno avuto notizie di Rossella Urru fino al mese di dicembre quando un gruppo dissidente dell’Aqmi (Jamat Tawhid Wal Jihad Fi Garbi Afriqqiya ) ha rivendicato il rapimento.
Grazie a rapporti personali col popolo tuareg da parte del consigliere regionale Claudia Zuncheddu, sappiamo che Rossella è viva e che si trova in un territorio desertico quasi inaccessibile, crocevia di interessi contrastanti fra governi e movimenti, dove ovviamente assume rilevante importanza l’intreccio delle funzione di mediazione di soggetti diversi. I sequestratori mirano ad un riscatto per acquistare armi necessarie alla loro lotta per l’indipendenza. Il governo algerino, che conosce il territorio desertico a palmi, tuttavia non e’ favorevole alla mediazione con riscatto visto che sarebbe il destinatario di una insurrezione armata da parte del fronte del Polisario armato. In aggiunta il governo francese, spinto da mire neocolonialiste, e’ fortemente interessato alla liberazione forzata dei ragazzi sequestrati, mettendo così a rischio la loro incolumità.
Sono passati 117 giorni dal suo sequestro e rivendichiamo la sua liberazione, il silenzio che la circonda e’ assordante.
Lasciamo ai servizi ed alle ambasciate rispettivi ruoli e rispettiamo il desiderio dei familiari di mantenere basso il profilo sulle trattative tuttavia dobbiamo fare in modo che si parli di questo sequestro per spingere le nostre amministrazioni, i nostri governi e quanti piu’ Stati possibile ad intraprendere azioni diplomatiche per la liberazione di Rossella.
Forse i suoi sequestratori fanno paura ai diplomatici.
Forse il sequestro e’ capitato in un momento storico in cui tutte le attenzioni dei governi sono rivolte allo spread, ai bund, alle borse, ai mercati ed alle finanze.
Forse e’ capitato proprio quando in Italia si e’ verificato un cambio traumatico di governo e si affronta una crisi economica gravissima.
Ma non si puo’ perdere altro tempo e tutti noi dobbiamo chiedere a gran voce che le autorità competenti rivolgano la massima attenzione al problema della liberazione di Rossella.
Il nostro appello e’ rivolto alle organizzazioni, alle ambasciate, ai mediatori, ai servizi ed ai governi, centrale e regionale, perchè utilizzino tutti i mezzi e tutte le strategie possibili per riportare Rossella a casa quanto prima.
Il fratello di Rossella dice : “le parole cedono di fronte a tanto assurdo, si sgonfiano e sembrano afone. Eppure, in questa vibrante impotenza in cui ci troviamo, sono quel poco che ci è concesso, un nonnulla che tenta di colmare un abisso e una distanza insospettati; che riescono appena a tenerci in piedi, a farci avanzare”.
Parliamo di Rossella fino a diventare afoni anche noi, parliamo di lei e di questo popolo abbandonato nel mondo che lei ha voluto aiutare nonostante i troppi rischi.

martedì 28 febbraio 2012

Passeggiando in bicicletta


In due giorni ha superato le 30.000 visualizzazioni il video lanciato dal sito online di Repubblica che spiega come negli anni Settanta un vasto movimento di opinione pubblica riuscì a cambiare le politiche urbanistiche e dei trasporti dell’Olanda. L’onda emotiva degli “omicidi da traffico” (3.300 vittime nel 1971, tra cui 400 bambini) causati dalla motorizzazione di massa del decennio precedente e la crisi petrolifera del 1973 favorirono le politiche a sostegno dell’uso della bicicletta e proprio grazie all’impulso della società civile furono realizzate le prime piste ciclabili.
Il mini-documentario rientra tra gli strumenti di propaganda dei promotori della campagna di sensibilizzazione per avere città a misura di bici (“Cities fit for cycling”) iniziata una ventina di giorni fa a Londra, dopo l’incidente che ha mandato in coma una giornalista del Times, travolta da un camion mentre pedalava. Dall’Inghilterra, che ha pianto 1.275 ciclisti negli ultimi dieci anni, l’iniziativa si è rapidamente diffusa nel continente e, rilanciata da un gruppo di blogger, ha raccolto in Italia già oltre 20.000 adesioni. Alcuni punti del manifesto del movimento “Salva i ciclisti” – sottoscritto anche da qualche sindaco, tra cui Giuliano Pisapia – sono stati ora incardinati in un disegno di legge (“Interventi per lo sviluppo e la tutela della mobilità ciclistica”) presentato dal senatore del Pd Francesco Ferrante e sottoscritto da altri sessanta parlamentari, appartenenti trasversalmente a tutti gli schieramenti politici, ad esclusione della Lega.
La finalità della legge, fissata nell’articolo 1, è quella di “favorire la cultura del rispetto delle regole della circolazione stradale, dando maggiore tutela a chi utilizza la mobilità ciclistica, nonché ad incentivare e sviluppare l’uso della mobilità ciclistica”. Per raggiungere lo scopo, la legge prevede, tra l’altro, “la destinazione della quota del 2% del budget delle società dei gestori stradali e autostradali per la realizzazione di piste ciclabili” (art. 5), “l’obbligo del limite di 30 km/h di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili” (art. 7), la possibilità, per le aziende private o pubbliche e per le persone fisiche, di sponsorizzare “la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili anche attraverso l’attività di gestione di noleggi biciclette nelle suddette aree” (art. 8). Viene così riconosciuto il valore sociale della mobilità ciclistica, “parte integrante della moderna mobilità quotidiana”, ma anche “soluzione efficace e a impatto zero per gli spostamenti cittadini personali su mezzo privato”, da tutelare con provvedimenti che garantiscano una crescente sicurezza stradale.

[Un recente manifesto affisso a Londra e segnalatomi da Mario]

venerdì 24 febbraio 2012

Come cambierà il prossimo consiglio comunale


Le prossime elezioni amministrative vedranno abbattersi sugli enti locali la scure del taglio delle poltrone imposto dalla manovra di Ferragosto (DL 13 agosto 2011, n. 138), che si somma alla sforbiciata già impressa dalla legge n. 42 del 26 marzo 2010. In virtù di questi due provvedimenti, nello spazio di una legislatura il consiglio comunale di Sant’Eufemia passerà da sedici a sette membri (più il sindaco). La legge 42/2010 aveva infatti ridotto a dodici il numero dei consiglieri per i comuni con popolazione compresa tra 3.001 e 10.000 abitanti e da sei a quattro (più il sindaco) quello dei componenti della giunta. Il DL 138/2011 prevede una diversa suddivisione delle classi di comuni, introducendo quelli con popolazione compresa tra 3.001 e 5.000 abitanti, per i quali sono previsti, appunto, un consiglio comunale composto da sette membri e una giunta di 3 assessori (più il sindaco).
Personalmente, non apprezzo questi provvedimenti. Il sale della democrazia è la partecipazione: ridurre il consiglio comunale a una riunione condominiale non porterà benefici alle comunità locali. Farà anzi aumentare il distacco e la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica. Le istanze della popolazione hanno bisogno di rappresentanti istituzionali che possano sostenerle. E sette mi sembrano pochi in un paese di quasi 5.000 abitanti: uno ogni 700 circa. Durante la Prima Repubblica, il rapporto era molto più equo: uno ogni 250 (venti consiglieri comunali, compreso il sindaco). Bisognava risparmiare? D’accordo. Ma senza comprimere la democrazia. Poiché 100-150 euro annui non cambiano la posizione economica di nessuno, si poteva benissimo abolire il gettone di presenza e mantenere inalterato il numero dei consiglieri. O riportarlo di nuovo a venti.
La circolare del ministero dell’interno n. 2379 del 16 febbraio 2012 ha chiarito definitivamente i contenuti della manovra di Ferragosto. Le prossime elezioni, oltre al sindaco, eleggeranno cinque consiglieri di maggioranza, quelli che otterranno più preferenze all’interno della lista vincente. Per l’attribuzione dei due seggi di minoranza, potrebbero invece verificarsi diversi scenari. Se gareggeranno soltanto due liste, quella perdente manderà in consiglio il candidato a sindaco e il candidato a consigliere più votato. Se le liste saranno più di due, si procederà con il metodo D’Hondt, dividendo successivamente per 1 e per 2 (essendo due i seggi da assegnare) la cifra elettorale di ogni lista al fine di ottenere una graduatoria decrescente, all’interno della quale verranno scelti i quozienti più alti. In termini pratici, dovrebbero risultare eletti i candidati a sindaco delle liste classificate seconda e terza. A meno che la seconda non raccolga più del doppio dei voti della terza, nel qual caso si aggiudicherà anche l’altro seggio. Si può esprimere una sola preferenza e, trattandosi di elezione diretta del sindaco, il voto dato ad un candidato a consigliere va automaticamente al candidato a sindaco della stessa lista. In altre parole, non è concesso il voto disgiunto.

mercoledì 22 febbraio 2012

E le abitudini cambiano


Due settimane fa sono state sessanta primavere per Vasco Rossi, l’unica vera leggenda rock italiana. E con questo incipit mi gioco la simpatia dei fans di Ligabue, anche se sinceramente ho sempre pensato che la rivalità tra i due sia un’invenzione giornalistica. Comunque sia, rispetto per il lavoro del Liga, ma Blasco è Blasco. Ho avuto modo di assistere a concerti di entrambi. Non c’è partita. L’adrenalina che trasmette l’artista di Zocca ti rimane in corpo per una settimana. L’unica similitudine possibile riguarda semmai la rispettiva recente produzione, che non mi sembra all’altezza degli anni d’oro. Ma questa è un’impressione personale, alimentata forse anche dall’età, che non è più quella in cui Ogni volta e Canzone (la mia preferita) accompagnavano le mie giornate. Non so dire se sono io ad essere invecchiato, se Vasco si è imbolsito, o se siamo tutti e due da rottamare. Fatto sta che mi sono fermato all’album Nessun pericolo per te (1996). Da lì in avanti, credo sia diventato un altro Vasco, un po’ monumento di se stesso, al quale non sono più riuscito a stare dietro. Nonostante diverse altre belle canzoni e una presenza scenica sempre in grado di suscitare intense emozioni.
L’ho “conosciuto” attorno ai 12 anni. Me lo “presentò” alla sala biliardi di mio padre un ventenne, tirando fuori dal taschino del giubbotto di jeans la musicassetta di Non siamo mica gli americani, album inciso almeno cinque anni prima e celebre per Albachiara. Aveva già fatto in tempo a classificarsi penultimo (!) al Festival di Sanremo con Vita spericolata (1983), ad essere arrestato per droga (1984) e ad accrescere a dismisura la fama di esempio da non imitare. Con Luis cominciammo a comprare le sue musicassette (Carosello, dalla caratteristica custodia arancione), ma poi acquistammo anche i dischi, perché il vinile è uno stile di vita. Nella nostra classifica “rossiana” del tempo, per me al primo posto c’era Albachiara; per mio fratello, che è sempre stato molto più rock di me, Siamo solo noi, compreso il dito medio sbattuto in faccia al mondo. In camera avevamo un poster che lo ritraeva nella sua classica posa, con una mano appoggiata sull’asta del microfono. Non chiedetevi quante locandine ci fossero nella nostra stanzetta. Tanti. Pink Floyd, James Dean, Rambo, Bruce Springsteen, Rummenigge, un boxer (che anticipò l’arrivo di Eros) e altre che “ruotavano”: Maradona, per esempio, che adoravo nonostante la mia fede nerazzurra. A differenza della Juve di Platini e Boniek (mamma) e del Milan di Sacchi (Mario), che pure ho dovuto tollerare, attaccati accanto allo sguardo triste di Ayrton Senna. E fortuna che avevamo la possibilità di dirottare nella sala biliardi tutto il resto: l’Italia Mundial ’82 (in cornice), l’Inter dei record, Ivan Lendl, Gianni Bugno e molti altri miti dello sport.
Vasco è stato la colonna sonora della nostra gioventù. Andava bene quando eravamo innamorati, delusi, incazzati (quante volte ho urlato Portatemi Dio); quando volevamo fare i pazzi (Sensazioni forti) o gli strafottenti, perché la vita è questa e bisogna viverla andando “al massimo”; quando tutto sembrava congiurare contro di noi (Lunedì) e cedevamo al fatalismo (Anima fragile). Sotto la “nostra” panchina in piazza, uno di quei giorni in cui un adolescente vorrebbe soltanto sprofondare, scrissi con un colore a spirito nero le strofe finali di Canzone: “e intanto i giorni passano/ ed i ricordi sbiadiscono/ e le abitudini cambiano”. Quella scritta non c’è più, come la panchina e la pavimentazione, sostituite quando la piazza fu ampliata e completamente rifatta. E come quel ragazzo, che ogni tanto riaffiora dal passato e si lascia abbracciare dalla struggente nostalgia di Vivere.

domenica 19 febbraio 2012

Per chi non voterò


Qualche settimana fa mi è stato chiesto: “come mai ancora non hai scritto niente sulle prossime elezioni comunali?”. Il 6 e il 7 maggio saremo infatti chiamati a rinnovare il consiglio comunale e dalle facce dei soliti noti si è capito che siamo già nel pieno delle consultazioni, degli abboccamenti, delle annusate per capire se si può o non si può fare. Cosa? Una lista, ovviamente. Perché, notoriamente, c’è sempre una pletora di auto-candidati a sindaco, ma non tutti hanno fiato e gambe per arrivare fino alla fine del percorso accidentato che porta all’assemblaggio di uno schieramento competitivo. I veti incrociati sono una brutta bestia. E anche la mancanza di senso della misura. Le elezioni passate l’hanno dimostrato a sufficienza: sette-otto aspiranti alla poltrona di primo cittadino, ma alla fine le liste sono state soltanto due. Quest’anno, chissà, potremmo ritrovarci con più alternative. Accanto al capolista, ci sono poi i candidati alla carica di consigliere. Come al supermercato, puoi trovarci di tutto. Perfino candidati “veri”, convinti e consapevoli di quello che fanno. Ma è necessaria un’accurata selezione.
In sintonia con il Poeta (“Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”), ho difficoltà ad esprimere delle preferenze. Pertanto, mi limito a segnalare l’ideale di candidato che NON voterò, sulla scorta di un personalissimo decalogo (integrabile ad libitum), spero utile per districarsi nel caos che i prossimi mesi ci riserveranno.
Non voterò per:

1) Un/a parente, per il solo motivo che è un/a parente, se non ha un minimo di capacità.
2) Un/a candidato/a che da un po’ di tempo mi saluta, mentre prima faceva finta di non vedermi.
3) Un/a candidato/a dal/la quale non comprerei mai un’auto usata.
4) Un/a candidato/a che non si è mai speso per il paese. Se fino ad ora non l’ha fatto da privato/a cittadino/a, è improbabile che cominci a farlo una volta ascesi i gradini del Palazzo municipale.
5) Un/a candidato/a che non è in grado di dire cosa ha intenzione di fare una volta eletto/a e con quali strumenti.
6) Un/a candidato/a che offre posti di lavoro a due mesi dalle elezioni.
7) Un/a candidato/a che non sia capace di operare in sinergia con le associazioni presenti sul territorio.
8) Un/a candidato/a che ripropone il cavallo di battaglia delle ultime due campagne elettorali: la sistemazione del ponte Pendano. Basta. Se ci riuscite, aggiustatelo in silenzio e comunicatecelo soltanto quando sarà transitabile.
9) Un/a candidato/a che prima di adesso non è mai entrato/a nella mia attività commerciale e comincia a passarci con una frequenza sospetta.
10) Un/a candidato/a che mi cerca il voto ogni volta che mi incontra.

E ricordate: “si può ingannare tutti una volta, qualcuno qualche volta, mai tutti per sempre” (John Fitzgerald Kennedy).

venerdì 17 febbraio 2012

Perché Sanremo "era" Sanremo


Scrivo ora qualche riga sul festival di Sanremo perché penso che la conclusione della manifestazione sia ininfluente ai fini della mia valutazione. D’altronde, su tre serate, avrò visto non più di mezzora di spettacolo, per cui il mio commento è, in realtà, una considerazione sull’evento. Da tempo, nella kermesse canora, la canzone ha smesso di essere protagonista. Tanto da risultare effimeri il successo e la notorietà dati dalla vittoria. Chi è in grado di ricordare nomi e volti di tantissimi tra i vincitori più recenti? Nel giro di un anno, fenomeni musicali lanciati dai talent show e catapultati sul palcoscenico dell’Ariston scompaiono con una regolarità ormai inquietante: Marco Carta, chi era costui?
Sanremo è attesa, gossip, polemica cercata e montata ad arte perché se ne parli. Perché per una settimana non si discuta d’altro. Sanremo è una zona franca, capace di ascolti alti perché la controprogrammazione, in quei giorni, non esiste. Sanremo è l’ipocrisia di chi invita Celentano, alle condizioni imposte dal Molleggiato, e poi innesca la polemica perché nel suo monologo ne ha avute per tutti. Come se non fosse quello il vero motivo della sua presenza. Non ho ascoltato il suo pippone, ma ho letto le reazioni. La migliore è stata la battuta di Rocco Papaleo: “Adriano è stato geniale ad ospitare Sanremo nel suo show”. Il punto è questo: può un ospite monopolizzare l’intera serata e ridurre gli ospiti a contorno del suo personalissimo show? No, non può. Non potrebbe. Ma è un gioco delle parti. Prima, il tormentone “Celentano sì/ Celentano no”, poi la carta bianca chiesta e ottenuta, infine le lacrime da coccodrillo e l’incazzatura dei vertici Rai. Asciugate con i bigliettoni degli introiti pubblicitari. Nel merito, non è il massimo dell’eleganza chiedere la chiusura di due giornali perché non se ne condivide la linea. Basta non comprarli. E anche se c’era molto da sottoscrivere (la parole su don Gallo, per esempio), il teatro Ariston non è il pulpito ideale per simili comizi.
Boccio in toto il turpiloquio dell’intervento iniziale di Luca e Paolo e, nella seconda serata, la volgarità di due comici a me sconosciuti (I soliti idioti), che ho ascoltato giusto un paio di minuti senza riuscire per niente a ridere. Sorvoliamo sulla farfalla di Belen e sulle mutande che c’erano-non c’erano-e se c’erano non si sono viste. Ma si può sacrificare tutto sull’altare degli ascolti e degli incassi? Domanda retorica, alla quale si può rispondere riproponendo la terza serata, dedicata finalmente alla musica, con ospiti di livello mondiale. Su tutti, Brian May e l’immensa Patti Smith. Ma è già tempo di tornare alla normalità distorta di Sanremo. E allora, che spettacolo (penoso) sia.

martedì 14 febbraio 2012

Alzheimer Cafè


Chi ha o ha avuto casi di demenza senile in famiglia sa quanto male faccia non essere riconosciuto da un proprio congiunto, conosce l’esasperazione e il senso di impotenza suscitati dai sintomi della malattia. In Italia, gli anziani colpiti dal morbo di Alzheimer, la forma più diffusa di demenza senile, sono 800.000 e nell’80% dei casi sono le famiglie a sobbarcarsi il fardello – che non è soltanto economico – della loro assistenza.
Si comincia con il dimenticare le cose e con l’accusare difficoltà a compiere azioni quotidiane; si finisce con il perdere completamente la memoria e ogni tipo di funzione cognitiva. Le stesse domande ripetute in continuazione, la perdita della percezione del pericolo, la mancanza di orientamento spazio-temporale, la difficoltà a svolgere le attività più elementari: mangiare, badare alla propria igiene personale. Una tragedia familiare, che cessa soltanto con la morte del malato e che proprio per questo alimenta sensi di colpa.
Nel 1997 un medico olandese ideò un approccio alternativo alla malattia. La demenza senile è infatti una patologia irreversibile, progressiva e incurabile. Per cui non esistono farmaci in grado di bloccare il suo incedere inesorabile. Si può però fare molto per migliorare la qualità della vita dei pazienti e dei loro familiari. La denominazione del progetto sperimentato per la prima volta a Leida (Olanda) è “Alzheimer Cafè”: “uno spazio informale dove vengono forniti insieme momenti di incontro, svago, formazione” che rappresentano “un approccio alternativo per affrontare, attraverso interventi riabilitativi, le problematiche psicologiche e comportamentali che caratterizzano questi pazienti, in un’atmosfera serena, armonica, davanti a una tazza di caffè o di the”.
A Sant’Eufemia d’Aspromonte, un primo incontro “a porte chiuse” si era tenuto il 21 settembre 2011 presso la Residenza sanitaria assistenziale “Monsignor Messina” (diretta dall’avvocato Rossana Panarello), in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer. Per il secondo appuntamento (13 febbraio), la Rsa è stata invece aperta al pubblico, che ha assistito con attenzione alla proiezione di un filmato di animazione e di un cortometraggio sulla malattia, sui comportamenti da tenere e su quelli da evitare. Pazientare, assecondare e distrarre possono considerarsi tre verbi chiave. La geriatra Maria Grazia Richichi, che guida l’equipe composta da tre educatrici professionali, una psicologa, un’assistente sociale e una fisioterapista, ha posto infine l’accento sull’importanza delle terapie non farmacologiche (terapia del sorriso, pet therapy, laboratorio manuale) per migliorare la qualità della vita dei pazienti, ricercando un minimo di socializzazione e affermando il valore universale della dignità umana.

sabato 11 febbraio 2012

Il tweet è mio e me lo gestisco io


Da martedì sera, non si cinguetta (quasi) d’altro. Sulla copertina di Ballarò era da poco calato il sipario e già le tricoteuses avevano preso posto nella piazza più affollata del mondo per assistere all’esecuzione di Maurizio Crozza, reo di avere pescato dal social network più trendy del momento le battute per il suo monologo. Al grido di #crozzaeincolla e #copiaeincrozza, “il popolo della rete” è immediatamente partito all’attacco del popolare comico genovese, accusato dal deputato del Pd Andrea Sarubbi di avere “fatto spesa proletaria su twitter”. A ruota, l’indignazione è montata, raggiungendo vette inimmaginabili. Si è capita soltanto una cosa: il sogno recondito di gran parte degli utenti di twitter è quello di diventare autore. Altrimenti risulta difficile comprendere una reazione talmente sproporzionata. Uno soffia all’amico sui capelli, quello si gira e lo atterra con un diretto in pieno viso.
Delle battute “incriminate”, quella sulle Olimpiadi invernali a Roma e l’altra sulla neve nella capitale “ogni morte di Papa”, la seconda è più vecchia di Matusalemme. Il quesito sollevato dai pasdaran del web è: può un comico utilizzare una battuta twittata da altri, senza citare la casa originale? Dalla notte dei tempi, i comici hanno sempre tratto ispirazione e, evidentemente, anche altro dalle persone della strada. Poi è l’arte che fa sì che la stessa frase, detta da me o pronunciata dal grande Totò, sortisca effetti differenti. È facile capire come la vita del battutista sarebbe impossibile se dovesse citare le sue fonti. Non siamo di fronte a un giornalista o a uno storico. Forse non sarebbe male se tutti ci prendessimo meno sul serio. Il fatto di twittare qualsiasi cosa ci passi per la testa non fa di ciascuno di noi un maître à penser, un editorialista, un ghost writer o un autore.
Meglio quelli che sul social network l’hanno presa con filosofia, come Antonio De Leo (prevedibile): “Crozza copia per risparmiare, da buon genovese”; o come Mino Tarantino: “Sono davvero depresso. Crozza copia. E non da me”. Che nasconde dietro l’ironia un’amara verità, svelata dal caustico Fabrizio Carosella: “gente che si venderebbe mamma per un RT punta il dito contro Crozza. Ridicoli”.
Nella replica apparsa su Corriere.it, il comico l’ha messa sul ridere: “è tutto vero. Sono trent’anni che io lavoro copiando dalla rete. Anche quando la rete non esisteva, io la copiavo”; ma non ha risparmiato una velenosa frecciatina al parlamentare democratico: “mi ha sgamato. Io confesso. Anzi, trattandosi di Sarubbi: io con fesso”.
E torniamo alla questione centrale. Non c’è giorno in cui, spesso a ragione, non si metta in guardia dai tentativi di imbavagliare la rete attraverso restrizioni alla libertà della circolazione delle idee e del pensiero, anche se spesso il fine è quello di potere accedere gratuitamente a tutti i contenuti presenti sul web (libri, canzoni, film). E il problema sarebbe Crozza? È una polemica pretestuosa, puerile, lievemente rosicona. Una permalosità irritante, da gente con il ditino sempre alzato, inflessibile nel censurare il prossimo e indulgente verso se stessa. La pagliuzza e la trave.

giovedì 9 febbraio 2012

Morire di bici? No, grazie


Qui l'articolo originale

Questo blog aderisce all’iniziativa, partita da un gruppo di blogger italiani e rivolta ai principali quotidiani italiani per sensibilizzare l’opinione pubblica, i comuni, le amministrazioni locali sul tema della sicurezza in bicicletta. Chi pedala sa che sceglie, consciamente o non, di accettare una serie di rischi molto elevati per la propria incolumità. In città, sulle strade provinciali, sui tornanti dello Stelvio. La bicicletta è una sola.
Settimana scorsa, sulle strade di Londra, una giornalista del Times, mentre pedalava, è stata travolta da un camion. Ora è in coma. Bene, il Times ha deciso di promuovere una campagna massiccia sulle proprie pagine per chiedere una Londra a misura di ciclista. È ora di farlo anche in Italia.
Non è utopia, è aprire gli occhi e alzare, se occorre, la voce: la bicicletta è il futuro, che lo si voglia o meno. Ce ne saranno sempre di più. Pedalare sicuri è destinato a diventare un diritto sempre più imprescindibile.
Sotto, la lettera, condivisa, e diffusa dai blog. Prendetene e diffondetene tutti.

Gentili direttori del Corriere della Sera, Repubblica, La Stampa, Gazzetta dello Sport, Corriere dello Sport, Il Messaggero, Il Resto del Carlino, il Sole 24 Ore, Tuttosport, La Nazione, Il Mattino, Il Gazzettino, La Gazzetta del Mezzogiorno, Il Giornale, Il Secolo XIX, Il Fatto quotidiano, Il Tirreno, Il giornale di Sicilia, Libero, La Sicilia, Avvenire.

La scorsa settimana il Times di Londra ha lanciato una campagna a sostegno delle sicurezza dei ciclisti che sta riscuotendo un notevole successo (oltre 20.000 adesioni in soli 5 giorni).
In Gran Bretagna hanno deciso di correre ai ripari e di chiedere un impegno alla politica per far fronte agli oltre 1.275 ciclisti uccisi sulle strade britanniche negli ultimi 10 anni. In 10 anni in Italia sono state 2.556 le vittime su due ruote, più del doppio di quelle del Regno Unito. Questa è una cifra vergognosa per un paese che più di ogni altro ha storicamente dato allo sviluppo della bicicletta e del ciclismo ed è per questo motivo chiediamo che anche in Italia vengano adottati gli 8 punti del manifesto del Times:

1.Gli autoarticolati che entrano in un centro urbano devono, per legge, essere dotati di sensori, allarmi sonori che segnalino la svolta, specchi supplementari e barre di sicurezza che evitino ai ciclisti di finire sotto le ruote.
2.I 500 incroci più pericolosi del paese devono essere individuati , ripensati e dotati di semafori preferenziali per i ciclisti e di specchi che permettano ai camionisti di vedere eventuali ciclisti presenti sul lato.
3.Dovrà essere condotto un audit nazionale per determinare quante persone vanno in bicicletta in Italia e quanti ciclisti vengono uccisi o feriti.
4.Il 2% del budget dell’ANAS dovrà essere destinato alla creazione di piste ciclabili di nuova generazione.
5.La formazione di ciclisti e autisti deve essere migliorata e la sicurezza dei ciclisti deve diventare una parte fondamentale dei test di guida.
6.30 km/h deve essere il limite di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili.
7.I privati devono essere invitati a sponsorizzare la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili prendendo ad esempio lo schema di noleggio bici londinese sponsorizzato dalla Barclays
8.Ogni città deve nominare un commissario ala ciclabilità per promuovere le riforme.

Cari direttori, il manifesto del Times è stato dettato dal buon senso e da una forte dose di senso civico. È proprio perché queste tematiche non hanno colore politico che chiediamo un contributo da tutti voi affinché anche in Italia il senso civico e il buon senso prendano finalmente il sopravvento.
Vi chiediamo di essere promotori di quel cambiamento di cui il paese ha bisogno e di aiutarci a salvare molte vite umane.

Chiunque volesse contribuire al buon esito di questa campagna può condividere questa lettera attraverso Facebook, attraverso il proprio blog o sito, attraverso Twitter utilizzando l’hashtag #salvaiciclisti e, ovviamente, inviandola via mail ai principali quotidiani italiani.
Tutti gli aderenti all’iniziativa saranno visibili sulla pagina Facebook: salviamo i ciclisti

martedì 7 febbraio 2012

Dai ricordi di un ex fumatore


“Nel pacchetto ci sono due sigarette, una per te e una per me. Io da domani non fumo”. Con queste parole, due anni fa attaccai la sigaretta al chiodo, dopo quindici anni di onorata carriera. Qualcosa in più se contiamo anche le esperienze “giovanili”. Una terrificante N80 a quindici anni, di ritorno da Palmi sulla Littorina; un pacchetto di Merit divorato in tre alla Pineta, in non più di venti minuti; quelle scroccate a mio fratello e a Nino. Ma il “vizio” (lo spartiacque è dato dall’acquisto personale) risale al terzo anno di università. Quando ormai stavo per passare indenne dal periodo statisticamente più rischioso. L’università, si diventa grandi, si vive lontano da casa. E si fuma. Per darsi un tono, perché lo fanno gli altri, per sentirsi figo, per assumere la posa da “maledetto”.
Come James Dean nel poster alla parete della mia cameretta. O il tenebroso Humphrey Bogart che in Casablanca avrà fumato minimo due stecche di “bionde”. Gli esempi negativi, da questo punto di vista, sono infiniti.
Ho fumato Lucky Strike, per sentirmi un po’ Vasco. Avrei voluto essere De André, bellissimo con la sigaretta tra le dita. Me lo immaginavo pensoso, ubriaco e incazzatissimo, una-boccata-un-bicchiere-un-verso, una-boccata-un-bicchiere-un-verso: “evaporato in una nuvola rossa”.
Oppure Guccini: “E ho ancora la forza di guardarmi attorno/ mischiando le parole con due pacchetti al giorno”.
Non un fumatore incallito, però le mie dieci-quindici sigarette al giorno le fumavo. Anche se non sono mai stato riconosciuto come un top smoker, soprattutto in famiglia. Quando offrii a mio padre (un fuoriclasse) una Marlboro “light”, l’unica volta in cui era rimasto senza le sue “rosse”, quasi mi umiliò: “come fai a fumare questa roba? Puzza!”. Per non dire di mio fratello Luis, definitivo: “o fumi Marlboro rosse, o è meglio lasciare stare”.
Avevo provato altre volte a smettere, con scarsi risultati. Al massimo, un paio di mesi. Dopo ho sempre ripreso. Come fare, d’altronde? Metti che hai un problema che non ti fa dormire la notte. Ci vuole la sigaretta. Se devi prendere una decisione importante, ci vogliono un paio di boccate vigorose per non fare la scelta sbagliata.
“Ora ho troppe preoccupazioni” è il più comodo e infantile degli alibi. Perché motivi per non essere sereni, purtroppo, se ne presentano tutti i giorni. E poi, chi non fuma, allora come fa a sopravvivere ai propri guai? Smettere è una questione di testa. Perché, spesso, la sigaretta è un gesto istintivo. Un riflesso pavloviano. Subito dopo il caffè, appena metti in moto la macchina, all’uscita dal cinema. Proprio per questo, i primi giorni sono davvero duri. Corsi online, prodotti omeopatici, agopuntura, ipnosi, psicoterapia comportamentale, sostituti nicotinici (cerotti, gomme e pastiglie, sigarette elettroniche o senza tabacco, inalatori) sono però una perdita di tempo e di soldi. Addirittura, esistono “centri antifumo”, suppongo strutture simili alla clinica per dimagrire del dottor Birkenmayer (Il secondo tragico Fantozzi).
Questione di testa. Altrimenti si finisce come lo studente universitario che durante uno sciopero dei tabaccai, dopo avere esaurito le scorte racimolate al mercato nero, acquistò in farmacia una sigaretta senza tabacco pur di fumare qualcosa. Un mito.

sabato 4 febbraio 2012

Per favore, risparmiateci la spocchia


Le ultime settimane sono state monopolizzate da due dichiarazioni infelici e dalle successive polemiche. Il tema dell’occupazione è un nervo scopertissimo. Forse sarebbe il caso che chi ricopre incarichi di governo maneggiasse con più cura una materia talmente esplosiva. Ha iniziato il viceministro del lavoro e delle politiche sociali, Michel Martone: “chi si laurea dopo i 28 anni è uno sfigato”. Anche chi si laurea in tempo e poi invecchia cercando un lavoro non scherza. Martone ha successivamente rettificato il senso della sua affermazione, ma l’irritazione non passa. E non va via perché pure Martone dovrebbe sapere che la questione, innanzitutto, è di “opportunità”. Che non sono uguali per tutti. Senza ricorrere alla vis polemica di Travaglio, se sei figlio di un magistrato della Cassazione (o comunque “figlio di”), hai possibilità che altri nemmeno si sognano. Fai esperienze, maturi un curriculum eccellente e vai avanti. Incarichi su incarichi, una pubblicazione dopo l’altra e può capitare di ritrovarsi professore ordinario a 30 anni e viceministro a 38.
Commentando la mia lettera al ministro Profumo, in poche battute Mario ha spiegato dove sta la vera differenza tra l’Inghilterra e l’Italia:

In Inghilterra c’è un’etica del lavoro cristallina. Non hai bisogno di conoscere nessuno e nei colloqui sei valutato “semplicemente” per i tuoi meriti. Non solo, anche se non hai le qualifiche richieste, se reputano tu abbia il potenziale, il training te lo danno loro, pagato, perché investono nella persona. È il valore della persona che conta, non chi conosci. Negli anni, con uno straccio di diploma di maturità scientifica (42/60) ho lavorato in una banca multinazionale (HSBC), per la polizia metropolitana londinese, ed ora per una compagnia aerea, che è anche un’altra multinazionale, in un percorso lavorativo di cui vado fiero. Dubito in Italia avrei avuto le stesse possibilità. In banca ci entri con le raccomandazioni, così come in Polizia o all’Alitalia.

Sei valutato per le tue qualità. Se ti giudicano idoneo, investono su di te. Una visione copernicana. Quanti corsi di formazione vengono tenuti in Calabria, senza che si riesca ad ottenere neanche un posto di lavoro? Gli unici a trarre un profitto sono coloro che li organizzano. Non i partecipanti, che collezionano l’ennesimo inutile pezzo di carta. A quanti curriculum inviati non segue alcun colloquio di lavoro e neppure l’educazione di una risposta?
Per entrare all’HSBC, una delle più grandi banche europee, Mario non ha fatto un concorso. Ha superato un colloquio di lavoro, durante i mesi di prova ha seguito un corso di formazione, infine è stato assunto. Lineare. In Italia una cosa del genere è impensabile. Fare per tutta la vita lo stesso lavoro non rientra nella sua filosofia di vita. Altrimenti sarebbe rimasto in banca. Ma lui ha la possibilità di smettere e fare altro con una relativa semplicità. Se invece il presidente del consiglio se ne esce con “il posto fisso è monotono”, in una realtà caratterizzata dal 30% di disoccupazione giovanile (senza contare inoccupati, cassintegrati, lavoratori a 5-600 euro al mese), è scontata la selva di fischi. Il problema è il lavoro, un lavoro qualsiasi. Altro che posto fisso. Le parole sono importanti, ma anche chi le pronuncia.

giovedì 2 febbraio 2012

Casta calabra


L’aveva detto in tempi non sospetti: “Ci rivedremo presto. E sempre con la schiena dritta”. Era la chiusura dell’editoriale sofferto, ma orgoglioso, con il quale Paolo Pollichieni, il 20 luglio 2010, annunciava le dimissioni da direttore di CALABRIA ORA, il quotidiano che aveva guidato per più di tre anni. In tanti tirarono un sospiro di sollievo. “Chissà cosa uscirà stamattina” era diventato l’incubo ricorrente per gli amici degli amici, per i compari dei compari, per tutta quella gente dotata della dose di pelo sullo stomaco indispensabile per coltivare amicizie “pericolose” e per essere “qualcuno” in Calabria. I rapporti tra politica e ’ndrangheta sono stati spesso al centro delle inchieste portate avanti da Pollichieni e dai suoi collaboratori, una pattuglia giovane, agguerrita, coraggiosa, che non ha esitato a seguire l’esempio del direttore di fronte alle pressioni della proprietà del giornale.
Casta Calabra (sottotitolo: La politica? Sempre meglio che lavorare…), edito da Falco (Cosenza, dicembre 2011), è lo sbocco naturale di vicende personali e professionali vissute in prima linea. La sistemazione organica del discorso interrotto bruscamente quell’estate e ripreso un anno dopo, dalle colonne del CORRIERE DELLA CALABRIA, settimanale di inchieste e approfondimenti che ogni venerdì provoca parecchi bruciori di stomaco a Palazzo Campanella e a Palazzo Alemanni.
“C’è di tutto nel libro. Per cominciare, la denuncia del degrado culturale”, il giudizio del giornalista del CORRIERE DELLA SERA Gian Antonio Stella, al quale va il merito (da dividere con il collega Sergio Rizzo) di avere per primo scoperchiato il malcostume della classe politica italiana con La casta, exploit editoriale datato 2007, che ha aperto la strada ad un filone giornalistico di successo.
Pollichieni, Eugenio Furia, Giampaolo Latella, Pablo Petrasso e Antonio Ricchio accompagnano i lettori girone dopo girone, in un abisso popolato da politici e politicanti, faccendieri, mafia e antimafia, massondrangheta e borghesia mafiosa, quella “zona grigia” già definita dal direttore del CORRIERE DELLA CALABRIA “il vero capitale sociale della ’ndrangheta”. E che è diventata classe dirigente in una realtà dominata dal “familismo amorale”, modello di comportamento sociale fondato sul perseguimento dell’interesse “familiare” a scapito del bene della collettività. Nella notte della politica calabrese, le differenze tra gli schieramenti sono impercettibili. Anche perché la cronaca è un inciucio continuo, sublimato nella legge sul “concorsone” (2001), ma riscontrabile in un modus operandi che non distingue tra gli schieramenti politici. Leggi sul taglio dei costi della politica che si rivelano fonti di ulteriori sprechi. Consulenze inutili e incarichi esterni assegnati a politici trombati alle elezioni, tra gli sbadigli annoiati del personale interno. Carrozzoni come l’Afor e l’Arssa, aboliti per legge da cinque anni, che continuano ad assumere personale. Società partecipate perennemente in rosso: emblematico il caso della Sogas, la società che gestisce l’Aeroporto dello Stretto e che dalla data della sua costituzione (1986) non ha mai chiuso un bilancio in attivo. Nelle pagine di Casta calabra sfilano politici e burocrati, con il relativo codazzo di parenti attaccati alla mammella pubblica, tutti accomunati dal longanesiano “tengo famiglia”. Tutti sorridenti dietro al vip di turno portato a sfilare sul corso Garibaldi per promuovere l’immagine di Reggio, mentre nelle periferie manca l’acqua e le buche nelle strade sono voragini. Il tanto sbandierato “modello Reggio”, assurto prima a modello da esportare a livello regionale, quindi declassato a “modello peggio”: scandali, debiti, misteri, il suicidio di Orsola Fallara, la nomina prefettizia della commissione d’accesso antimafia. E nuvoloni neri all’orizzonte.