giovedì 29 ottobre 2020

Parole

Parole come in un sogno ora vivace ora dai contorni sfumati, dimenticate all’alba, quando si rintanano nella cuccia onirica dei fantasmi della mente.

Parole da appuntare sul bloc notes del comodino sforzando la vista, disegnando nel buio il gancio al quale rimanere sospesi per non precipitare nel gorgo.

Parole di un matto, intrappolate nel cuore.

Parole dure come il silenzio, come le urla.

Parole altre, osservate dal molo mentre scivolano nella tasca dell’orizzonte, come le stagioni.

Parole come sirene che violentano la notte.

Parole a tutta pagina, definitive come fede incrollabile.

Parole impastate dalla frana che va a valle.

Parole conficcate come chiodi sulla bara.

Parole da tenere in tasca per farsi compagnia.

Parole come la carezza di un’eco lontana.

Parole incastonate negli occhi.

Parole come unguento per medicare l’anima.

Parole come un diritto per il quale vivere e morire.

Parole come una liberazione.

Parole da affidare al vento, come il bacio di Pablo Neruda.    


mercoledì 21 ottobre 2020

Antonio Manucra, il geriatra eufemiese in trincea contro il Covid


Tutti ricorderanno la bella storia di Emma e Adriano (79 anni lei, 86 lui), i coniugi sposati da 60 anni che guarirono dal Covid-19 a due mesi dal contagio. Le immagini della loro uscita dall’ospedale di Bobbio, comune della Val Trebbia (Piacenza) eletto Borgo dei Borghi nel 2019, fecero il giro dei telegiornali e guadagnarono le prime pagine dei giornali. Accanto a loro il medico che li aveva seguiti sin dall’ingresso in ospedale, Antonio Manucra, sottolineava quanto quella vicenda fosse un segnale di speranza, “una piccola lucina nel buio degli ultimi due mesi”, pur non nascondendo “i momenti brutti e pesanti”, per superare i quali “è stato fondamentale l’aiuto di tutti, il conforto di tutti, le carezze e i sorrisi di ciascuno di noi”. 
Diploma al liceo “Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte, una specializzazione e un master in geriatria dopo il conseguimento della laurea in medicina presso l’Università di Messina, da quindici anni Manucra è dirigente medico presso l’AUSL di Piacenza, in forze al presidio ospedaliero di Bobbio, dove svolge attività di reparto: responsabile del centro demenze e disturbi cognitivi, referente aziendale del centro Terapia Anticoagulante Orale e Nuovi Anticoagulanti Orali, referente delegato ambulatorio di angiologia, attualmente è inoltre facente funzioni di Direttore del nosocomio bobbiese. L’Emilia Romagna (42.000 contagi) è seconda solo alla Lombardia per numero di decessi: 4.500, dei quali circa 1.000 nella sola provincia di Piacenza, la più colpita. 
Per questo motivo crediamo possa essere utile ascoltare la voce di chi combatte sul campo il nemico subdolo che sta cambiando la vita di noi tutti. La voce di chi, mentre affrontava quel buio, scriveva per sé stesso una sorta di vademecum: «Una nuova maschera da indossare, una nuova giornata da affrontare. Solidi, sicuri, sempre... L’uomo prima di tutto, la dignità da preservare, sempre... Parole che confortano, sorrisi che riscaldano il cuore, carezze che allontanano la solitudine imposta. Gesti da ripetere, tornare, per ripartire. Il cuore che si riempie di emozioni, di tristezza di senso di impotenza. La pioggia dirompe e tutto vacilla, ma solo per un attimo, è umano! Poi la forza di reagire e di proseguire su una via impervia e sconosciuta, ma con la consapevolezza di proseguire e non fermarsi». 

D – L’emergenza Covid ha messo a dura prova anche la tenuta emotiva del personale medico ed ospedaliero. Come si affronta un nemico “sconosciuto”? 
R – «Il sentimento prevalente, dominante, di quei tristi giorni (mi riferisco all’ultima settimana di febbraio e al mese di marzo e poi, in misura minore, di aprile) era di incertezza, di disorientamento. Ci siamo trovati, nel giro di pochi giorni, dal pensare al virus come a qualcosa di lontano ad avercelo in casa (Lodi e Codogno sono molto più vicini a Piacenza che non a Milano): è stato come assistere alla deflagrazione di una bomba con conseguenze che sembravano non dover finire mai. Avevamo di fronte un nemico invisibile, sconosciuto e molto insidioso. Non conoscevamo nulla di questa infezione da Covid-19 (coronarivirus desease 2019). Non sapevamo, oltre ai problemi respiratori, cos’altro potesse interessare e intaccare. Né quali potessero essere i “reliquati” (conseguenze di una malattia passata, n.d.r.). Soltanto in un secondo momento si è visto, da uno studio sulle microembolie condotto presso l’ospedale di Castel San Giovanni (altro ospedale della nostra rete, che è stato il primo ospedale Covid in tutta Europa) che l’eparina poteva essere utile; si è visto che veniva interessato il microcircolo; si è visto che veniva interessato il sistema nervoso centrale e periferico (ecco il perché del sintomo della perdita dell’olfatto e del gusto). Insomma, ci siamo trovati spiazzati». 

D – Detto in maniera un po’ brusca, il tuo lavoro e la “tipologia” dei tuoi pazienti ti porta ad avere una certa familiarità con i decessi. In che cosa il Covid è stato diverso? 
R – «Da medico, ma soprattutto da uomo, credo che non ci si abitui mai alla morte. Il nostro reparto (internistico), come tutte le medicine, ospita in prevalenza pazienti in età avanzata e per questo fragili per definizione. Ovviamente ci siamo trovati di fronte ad una situazione straordinaria. Il momento peggiore del maledetto mese di marzo sono state le ore tra le 11.10 circa del 21 e le 14.00 del 22: abbiamo avuto 5 decessi, in un reparto che conta 24 posti. Nei mesi di marzo e aprile abbiamo avuto il numero di decessi che in genere contiamo in un anno e mezzo. Ma l’aspetto più angosciante è stata la solitudine dei pazienti, nonostante la fascia oraria dedicata alla videochiamata con i familiari. Pensare anche alla mancanza del conforto dei propri cari… Qualcosa di tremendo». 

Un’esperienza professionale estrema, per le continue assenze di colleghi, infermieri ed operatori sanitari (a volte il 50% del personale), come ha successivamente sottolineato Manucra nel ringraziare il personale sanitario: «Siamo stati pronti a rivedere la nostra organizzazione interna, anche a causa delle numerose assenze tra il personale sanitario, e lo abbiamo fatto senza battere ciglio. Ognuno di noi ha rinunciato ai propri riposi per poter garantire l’assistenza ai nostri degenti, impedendo quindi che la “macchina” si fermasse. Molti di noi si sono ammalati, alcuni sono ad oggi ricoverati ed in serie condizioni cliniche e a loro va il nostro pensiero e le nostre quotidiane preghiere. Il tasso di mortalità, tra i degenti, di queste ultime settimane è stato spaventoso. Abbiamo visto morire molti anziani soli e senza il conforto dei propri cari. Tutti voi, infermieri e OSS, avete contribuito a mantenere operativo il nostro ospedale, sobbarcandovi di compiti difficili e pesanti. Avete saputo gestire con competenza e professionalità i ricoveri ed i decessi occorsi in questi giorni, anche in assenza del medico di reparto. A tutti voi, che avete accettato le “novità” organizzative, imposte dallo stato di necessità, a tutti voi dico GRAZIE!!!». 
Assenze che per 16 giorni, come ricorda un servizio giornalistico del quotidiano di Piacenza “Libertà” (21 aprile), hanno fatto del geriatra eufemiese l’unico medico presente in ospedale. Mentre il virus si portava via gli amici ed entrava nella sua abitazione di Rivergaro, contagiando la moglie Mariana Iofrida – anche lei medico in servizio presso l’ospedale di Bobbio – e causando il trasferimento dei tre figli (Francesco, Marco, Matteo) presso nonna Carmela: «Il virus era ovunque. Mi viene da pensare quanto fosse complicato anche solo abbozzare un sorriso, comunicare ai figli che avevo la situazione in mano quando invece non era sempre così. Per me il mese di marzo del 2020 è un brivido che ancora mi insegue». Le salme che non si potevano portare nella camera mortuaria e venivano sistemate nel primo piano dell’ospedale, con la mascherina e avvolte da un telo disinfettato. Scene atroci, difficili da dimenticare perché “non siamo delle macchine”. 

D – Cos’è cambiato rispetto a marzo, sotto il profilo organizzativo e nella capacità di dare risposte più efficaci e tempestive? 
R – Nella nostra realtà, mi riferisco all’AUSL di Piacenza, è cambiato molto rispetto alla routine lavorativa dell’era pre-covid. Sono stati creati protocolli che regolano il flusso dei pazienti dal Pronto soccorso ai reparti e tra reparti. Le visite ai degenti erano state contingentate, ma dal 15 ottobre sono state nuovamente sospese a causa dell’aumento dei casi di positività. Sono stati creati nuovi posti di terapia intensiva e subintensiva (questi ultimi, nel giro di poche ore possono essere trasformati in posti letto di terapia intensiva), sono stati assunti più infermieri (77) per il territorio. In Emilia sono nate le USCA (Unità speciali di continuità assistenziale) che fanno i tamponi casa per casa allo scopo di isolare e limitare la diffusione del virus: nella solo AUSL di Piacenza esistono, ad oggi, 18 squadre. Le attività ambulatoriali sono riprese, ma gli orari sono stati aumentati per evitare assembramenti. 

D – L’emergenza sanitaria ci ha insegnato qualcosa? 
R – L’emergenza sanitaria ci ha insegnato che deve essere la medicina a cercare i malati e non viceversa. Ci ha insegnato che la tendenza a centralizzare attorno agli ospedali “grandi” (i cosiddetti HUB), in una visione ospedalocentrica, non va bene. Occorre invece rafforzare il territorio. Ci ha insegnato che la sanità deve essere pubblica ed universale, in modo da consentire l’accesso alle cure a tutti. I tagli degli ultimi dieci anni sono stati pagati tutti e con gli interessi: tagli sugli ospedali (più di 200), riduzione dei posti letto inseguendo una media assurda, tagli agli investimenti… 

D – Torneremo alla vita di prima? “Andrà tutto bene”? 
R – Contrariamente a ciò che qualche incosciente sostiene, non siamo di fronte ad una “banale” influenza. Abbiamo a che fare con un virus insidioso, che purtroppo circola. Occorre comprendere che più aumentano i positivi e più aumenteranno gli ammalati; di conseguenza, crescerà il numero di coloro che avranno bisogno di cure e, anche, di cure intensive. Per questo è necessario un maggiore impegno delle istituzioni nel settore degli investimenti nella sanità pubblica. Ma per tornare alla vita di prima, per far sì che tutto vada bene, occorre uno sforzo di responsabilità e di senso civico. Dipende da noi. Ne usciremo, se riusciremo a superare individualismo; se, e solo, tutti insieme adotteremo le cautele del caso e ci adegueremo a indicazioni molto semplici: mascherina, distanziamento e igiene delle mani.



giovedì 15 ottobre 2020

Deve passare la nottata
















Niente sarà più come prima o tornerà tutto come prima? Me lo chiedo spesso in queste giornate a volte lunghe, a volte corte: in fondo uguali. Vuote. Ma è questa la domanda da porsi o, piuttosto, dovremmo chiederci cosa si potrebbe fare per soffiare lontano l’aria da Bisanzio che opprime i polmoni di noi che viviamo “sospesi tra due mondi e tra due ere”? 
Siamo soli, impauriti, smarriti. L’uomo è per definizione un animale sociale, tende naturalmente a rapportarsi con gli altri, a instaurare rapporti empatici. Si esprime con un linguaggio che non è soltanto verbale, ma è fatto di tanti altri strumenti di comunicazione, oggi dolorosamente compressi. Viviamo nel chiuso delle nostre case, abbiamo quasi azzerato le nostre uscite: ed è giusto così. Però ci manca “la vita di prima”: gli incontri, la spensieratezza di una partita a calcetto, gli abbracci per manifestare l’adesione alla gioia e al dolore altrui. Matrimoni e feste senza invitati, funerali senza partecipanti. Piccoli momenti di una vita quotidiana vissuta in maniera corale dalla comunità che oggi, per il forzato disimpegno dai propri doveri, per il distacco dalla propria natura, appare sfilacciata. 
Tutt’intorno si avverte un deprimente tanfo di decadenza, accompagnato dall’apatica rassegnazione ad una realtà che si immagina asfittica per chissà quanto ancora. In queste condizioni, serve molto coraggio per puntare una fiche sul tavolo verde del futuro, per fare progetti, per coltivare una visione di lungo periodo, per tirare fuori dai cassetti i sogni e farli volare. 
Siamo diventati fragili e precari, la paura del domani è un freno a mano tirato che pietrifica. Tutto sembra essere stato messo in pausa. Si vive ripiegati su sé stessi: in attesa di tempi migliori, si dice quasi giustificandosi. Ma i tempi migliori arriveranno mai, se non saremo noi a creare le condizioni affinché possano maturare, invece di restare inerti? La rassegnazione e la demotivazione sono patologie degenerative, che vanno combattute con forti dosi di passione e di creatività. Deve passare la nottata. Eppure l’alba arriva prima, o almeno se ne ha questa incoraggiante percezione, se si corre incontro al sole. Se si ricomincerà dalla bellezza della vita, che è sempre a portata di mano e che può dare un indirizzo anche a questo tempo in bilico.

domenica 4 ottobre 2020

Ciro Meravigliao

 


Mi chiamo Ciro e dei miei sessant’anni ho poco da salvare. Nel posto dove vivo da quattro anni c’è gente che va e gente che viene. Con i nuovi arrivati costruisco un fragile castello di amicizia, che crollerà quando andranno via. Ci ricorderemo per qualche tempo, poi i nostri cuori precari continueranno a battere ognuno per conto proprio, come se non ci fossimo mai conosciuti. E pensare che trascorriamo diverse ore insieme, quelle che ogni giorno ci vengono concesse al di fuori delle nostre celle, nel cortile o nella saletta. Un paio, quattro o anche cinque, in base all’umore. Ché a volte non hai tutta questa gran voglia di parlare, di ascoltare sempre le stesse parole. Già, le parole. Alla fine le dimentichi: a forza di discutere continuamente di processi e di procedure, i vocaboli della quotidianità familiare diventano un’immagine sfocata, che si fa fatica a recuperare dal pozzo scuro dell’anima. 
Per i miei compagni sono Ciro Meravigliao. Una vita fa, con il pallone me la cavavo bene. Anche oggi, nel giorno in cui ci portano nel campo di gioco, faccio la differenza. In quelle due ore, con la testa voliamo altrove: corriamo come ragazzini spensierati, sbattiamo le nostre ali ferite come farfalle gaie nello spazio libero. Poi, è andata male: cioè, non lo so se è andata male o se sono stato io a farla andare male. Fatto sta che, da questi posti, entro ed esco da quando avevo quindici anni. A Napoli diciamo “magnate o’ limone” ed io ne ho mangiati tanti nella mia vita. Ormai non mi fanno più effetto. Quel sapore aspro è parte di me, smorfia nascosta di una vita consumata, come gli occhi chiari o i capelli che mi ostino a tenere lunghi, nonostante siano diventati grigi e radi. 
Ho talmente tante cose da fare, che a volte il tempo non mi basta, anche se non rinuncio mai alla partita di Burraco e alla soap opera “Un posto al sole”. Sono infatti un lavorante, una figura che non ha il prestigio degli addetti alla cucina o dello spesino, ma che vale più del barbiere e del bibliotecario ed è pur sempre una spanna sopra il resto della massa indistinta. Lavo per terra, nella sezione e negli uffici; carico la lavatrice; faccio il “postino” da una cella all’altra quando ci si divide il cibo o il giornale. Insomma, mi sposto per la sezione con una certa libertà e resto fuori dalla mia cella più degli altri. Tutti mi vogliono bene e mi porgono un caffè o qualcosa da mangiare. Quando mi è possibile, ricambio con i guanti monouso che qua non si possono acquistare, anche se devo stare attento. Se vengo beccato da qualche guardia, mi tocca un rapporto disciplinare, quindici giorni di isolamento e la perdita del lavoro. Perché per loro è normale che si debba utilizzare la candeggina e lavare il cesso a mani nude. Per me, non lo è. Come tante altre cose, che accadono e sulle quali ho smesso di farmi domande dopo il consiglio di un anziano, decenni fa: «Non chiederti dov’è la logica, perché qua dentro niente ha una logica». Se ce l’ha, è sadica come le parole riportate sul quadrante dell’unico modello di orologio che ci è consentito tenere, dopo averlo acquistato dalla lista della spesa: “Libero” e “Tutto passa”. 
Da pochi giorni ho come dirimpettaio di cella un ingegnere che si è subito dimostrato molto gentile. Gli ho chiesto se era disposto a darmi ripetizioni di matematica ed ha accettato ben volentieri. Quando mia figlia frequentava la scuola elementare, spesso mi chiedeva di aiutarla a fare i compiti, ma io non ne ero capace perché non sapevo fare nemmeno una “O” con il bicchiere. Ora ho una nipotina che, quando finirò di scontare la pena, andrà a scuola: ecco, non vorrei ritrovarmi nella stessa situazione e credo che l’ingegnere potrà darmi una grossa mano. Imparo le tabelline e il giorno dopo le dimentico, ma lui ha molta pazienza. Ricominciamo daccapo e già riesco a svolgere benino qualche operazione, espressioni semplici. Lui stesso mi ha detto che c’è un suo amico bravo a scrivere e ne ho approfittato per prendere pure lezioni di grammatica, sintassi e ortografia. Vorrei essere in grado di mandare a mia moglie una lettera appena appena corretta, ma non so se mai ce la farò. Ho capito quando la “e” va accentata, quando mettere l’acca e quando no, però con il dettato ancora non ci siamo. I miei due professori stanno sempre insieme, nel cortile e nella saletta, dove per mezz’ora a testa si dedicano a me. Chi arriva per primo attende l’altro, come vecchi compagni di liceo naufragati e aggrappati allo stesso legno. Chissà se resteranno qua per tutto il tempo che mi sarà necessario.