martedì 30 luglio 2013

Lorenzo Genovese: il campione, l'esempio



“Il 5 maggio 1991 è una data per me indimenticabile. Quel giorno feci il mio esordio in una gara agonistica, su un tandem Masciarelli con il cambio a manettini, puntapiedi e cinturini”. Da allora sono trascorsi più di venti anni, ma Lorenzo Genovese è ancora in sella, a macinare chilometri in Italia e all’estero, a portare a casa trofei su trofei, ad essere il vero motore di un tandem spesso vincente, sempre protagonista di imprese fuori dal comune. Una sorta di “locomotiva umana”, se ci è consentito prendere a prestito lo pseudonimo che accompagnò la carriera del mitico Learco Guerra tra la fine degli anni Venti e i primi anni Quaranta del secolo scorso. “Non riesco a immaginare la mia vita senza il ciclismo. Non riesco ad immaginare che un giorno potrei non essere più capace di pedalare” – mi dice pesando le parole una ad una.
La bicicletta rappresenta molto per Lorenzo, non vedente assoluto dall’età di un anno a causa di una malformazione genetica, ma con alle spalle una famiglia forte e di sani principi che ne ha accompagnato la crescita con amore, consentendogli di frequentare istituti e centri specializzati. Anche oggi che ha 43 anni e lavora come centralinista presso il Tribunale di Palmi, dove è in grado di recarsi e spostarsi praticamente da solo: “il ciclismo per me è sempre stato uno strumento di socializzazione. I risultati vengono dopo, molto dopo. Quello che conta è la possibilità di coltivare amicizie tramite la condivisione di una passione. La bellezza di questo sport sta tutta qua. Nel tandem, poi, con la guida si crea un rapporto particolare, difficile da spiegare”.
È intuibile che sia così, che un’alchimia speciale governi quattro gambe e due ruote: “se non c’è amicizia, non si può andare in tandem” – assicura Lorenzo, al rientro da una gara a San Pietro in Gu (Padova) conclusa al secondo posto, a mezza ruota dal bis dello strepitoso trionfo ottenuto nel 2012.
Le vittorie di Lorenzo, che dal 1998 gareggia per il Gruppo Sportivo Non Vedenti di Vicenza, ormai non si contano. Più volte campione italiano della categoria “tandem agonistico per non vedenti”, campione italiano amatori su strada ininterrottamente dal 2001 al 2010, è salito sul gradino più alto di podi sparsi in tutta Italia: su strada, su pista, a cronometro, nelle granfondo.
Meno di dieci giorni prima della gara in Veneto, l’impresa realizzata con il taglio del traguardo della “Roma – Parigi. Sulle strade del Tour”, manifestazione organizzata dall’Associazione culturale “Pedalando nella storia – Maurice Garin” di Roma. Un sodalizio presieduto da Andrea Perugini e dedicato al primo vincitore del Tour de France (1903) che ha così voluto onorare la centesima edizione della Grande Boucle (undici edizioni sono saltate tra il 1915-18 e il 1940-46) e ricordare la prima pedalata da Roma a Parigi organizzata dai gruppi “Audax” italiani (ciclisti in grado di percorrere 200 chilometri in bicicletta in autosufficienza entro una sola giornata) proprio per celebrare quell’evento.
Partita dallo stadio dei Marmi il 12 luglio, la carovana delle biciclette – tra le quali spiccavano cinque tandem con atleti non vedenti: la manifestazione è stata patrocinata dall’Unione italiana ciechi e ipovedenti – è giunta al velodromo “Jacques Anquetil” giorno 20, per sfilare il giorno dopo lungo gli Champs Elysées e l’Arc de Triomphe. Un prologo di 73 chilometri e otto tappe (in totale, 1.626 chilometri e un dislivello di circa 16.000 metri) che sono state anche l’occasione per rievocare grandi campioni del passato, grazie agli incontri programmati con i figli di Bartali e Coppi, con il pronipote di Garin, con Franco Bitossi.

 
Alla guida del tandem, nel prologo da Roma a Vetralla (VT) e nella prima tappa (Vetralla – Empoli, 226 chilometri), Angelo “Sarino” Surace, architetto eufemiese trasferitosi a Fiuggi che dal 1999 si alterna (anche sui podi) con Marco Pisano: “Ho iniziato a pedalare con Lorenzo circa venti anni fa, quando per scherzo mi propose di fare un giro in tandem. Non avevo mai provato un tandem e poche volte la bici. La mia preoccupazione era di non farlo cadere (cosa che è successa due-tre volte), ma la sua forza mi ha sempre dato coraggio e convinto a superare ogni remora”.
Lorenzo e Sarino sono anzitutto grandi amici, a lungo vicini di casa quando Surace risiedeva a Sant’Eufemia. Uscire in bici con Lorenzo è qualcosa di emotivamente intenso, unico: “Lorenzo è una persona speciale, una di quelle persone che ti arricchiscono l’anima e ti aprono il cuore. Per me è stato un privilegio averlo conosciuto e poterlo frequentare. Da molti anni condividiamo le stesse pedalate ed è un’esperienza che mi rende più forte. Mi fa stare bene con me stesso e mi dà la carica per affrontare le difficoltà che sorgono quotidianamente, sui pedali come nella vita. All’inizio pensavo che fosse lui ad avere bisogno del mio aiuto. Ma non è per niente così. Lorenzo è un compagno unico per forza e determinazione. Dopo venti anni riesce ancora a sorprendermi, ogni volta!”.
Da più di un anno Lorenzo Genovese (presidente onorario) e Sarino Surace (vicepresidente, ideatore del logo e della divisa, curatore dell’omonimo profilo su Facebook) portano in giro per l’Italia i colori degli Eufemiesi Bikers, team nato su impulso di Surace, il cui direttivo è composto dal presidente Mimmo Fedele, dal segretario Enzo Fedele e dal tesoriere Rocco Luppino. In breve tempo le adesioni sono cresciute e oggi gli EB costituiscono un’importante realtà aggregativa che consente di mantenere un filo ideale con il paese d’origine agli emigrati eufemiesi amanti delle due ruote.

venerdì 26 luglio 2013

Nessuna sorpresa, sullo svincolo autostradale era tutto già scritto

Sono in corso e verranno ultimati entro l’anno tutti i lavori di rinaturalizzazione con i quali verrà ripristinata la morfologia del territorio ed in alcuni casi, in particolare tra i vecchi svincoli di S.Elia-Melicuccà e Bagnara, verranno recuperate le strutture preesistenti della vecchia autostrada che diventerà la bretella di approccio alla nuova autostrada per l’area dell’Aspromonte.

(dal comunicato ufficiale diramato oggi dall’Anas, dopo il completamento dei lavori del V macrolotto dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria, tra Gioia Tauro e Scilla: qui il testo completo)

La vecchia autostrada diventerà “bretella”.
Amen.
Se qualcuno a Sant’Eufemia ancora non l’avesse capito, è andata davvero a finire che bisogna battersi il petto perché almeno la bretella è stata mantenuta, altro che svincolo (ne avevamo già parlato qui).

*Foto di Antonio Lupoi

mercoledì 24 luglio 2013

Mussolini, penultimo atto


Ore 22.45 del 25 luglio 1943: “Attenzione, attenzione. Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro segretario di Stato, presentate da S.E. il cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato capo del governo, primo ministro segretario di Stato, S.E. il cavaliere maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”. Con queste parole Titta Arista, speaker ufficiale del Giornale Radio, annunciava la fine del Ventennio fascista. Da un paio d’ore Mussolini era stato scaricato in una caserma dei carabinieri di via Legnano, proveniente da Villa Savoia, dove alle 16.15 di quel pomeriggio aveva avuto un colloquio con Vittorio Emanuele III al termine del quale era stato fermato e fatto salire (per “motivi di sicurezza”) su un’autoambulanza della Croce Rossa.
Nel corso della precedente notte, alle 2.40, il gran consiglio del fascismo convocato alle 17 di giorno 24 nella sala del Pappagallo, dopo quasi dieci ore di riunione aveva approvato l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, con il quale si invitava “il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere, con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a lui attribuiscono, e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra augusta Dinastia di Savoia”.
Da tempo il re, con i vertici dell’esercito, spingeva per la soluzione traumatica. Un tentativo disperato di separare i destini dell’Italia (e della monarchia) da quelli politici e personali di Mussolini. L’esito della guerra era ormai compromesso. Nonostante l’eroismo dei militari italiani ad El-Alamein, il fronte nord-africano era in mano alleata da otto mesi; ai primi di luglio (dopo la “resa” di Pantelleria, 8-11 giugno), il successo dell’operazione “Husky” aveva prodotto lo sbarco dell’esercito anglo-americano in Sicilia; la crisi economica, la difficoltà dei trasporti e dei rifornimenti, la penuria dei generi razionati e i continui bombardamenti sulle città avevano ridotto allo stremo la popolazione, alimentandone il senso di sfiducia nei confronti del regime.
All’interno del partito nazionale fascista cominciava a tirare aria di fronda, anche se i gerarchi andavano in ordine sparso nei loro tentativi di agganciare personalità dell’esercito e membri della corte. L’iniziativa di Dino Grandi riuscì a mettere (quasi) tutti d’accordo, pochi giorni dopo il primo vero bombardamento di Roma, che creò notevole impressione tra i vertici del fascismo e i membri del governo. Tre gli ordini del giorno presentati alla riunione: quello di Grandi, quello di Roberto Farinacci (favorevole ad un rapporto ancora più stretto con la Germania nazista), quello del segretario del Pnf Carlo Scorza. Con 19 voti a favore, sette contrari e un astenuto, l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi costituiva finalmente il “mezzo costituzionale” che restituiva al sovrano le prerogative di capo politico supremo e di comandante delle forze armate e consentiva di ottenere “legalmente” le dimissioni di Mussolini.
In realtà, non mancò chi parlò di “colpo di Stato monarchico”. La legge del 9 novembre 1928 che costituzionalizzava il gran consiglio del fascismo, istituito sin dal dicembre del 1922 per fungere da “camera di compensazione” (Alberto Aquarone) necessaria a Mussolini per controllare il “rassismo” delle province e tracciare le linee guida riducendo a una le tendenze interne al partito, all’articolo 13 stabiliva infatti che la nomina del successore del duce spettava alla Corona, su proposta del gran consiglio: procedura che doveva così garantire la perpetuità del regime e che, in definitiva, incarnava la ratio stessa della costituzionalizzazione del gran consiglio.
D’altro canto, gli articoli 5 (“Al Re solo appartiene il potere esecutivo”) e 65 (“Il Re nomina e revoca i ministri”) dello Statuto albertino, di fatto, non erano mai stati abrogati, nonostante lo scempio delle prerogative costituzionali e delle libertà individuali e collettive. Così come l’intera Carta “concessa” ai piemontesi da Carlo Alberto il 4 marzo 1848 e adottata dallo Stato unitario il 17 marzo 1861.
Scempio consentito dal carattere “flessibile” della Carta costituzionale, che poteva essere modificata per via ordinaria, senza il ricorso cioè a un procedimento di revisione aggravato, quale quello previsto (non a caso) dall’art. 138 della Costituzione repubblicana. E che portò alla realizzazione del progetto di “abolizione delle garanzie statutarie, simulando il rispetto dello Statuto” (Piero Calamandrei). Ma anche a causa della prassi consolidatasi già in età liberale e alla base della teoria dei “germi patogeni”, elaborata negli ambienti azionisti e repubblicani, secondo la quale con il regime fascista ci fu un cambiamento nella quantità – non nella qualità – delle violazioni dei diritti sanciti dallo Statuto, che si erano verificati a partire dal 1848.
Per cui, se colpo di Stato vi fu, si trattò di un colpo di Stato tutto interno al regime fascista. “Signori, con questo voto avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta”, il lapidario commento finale del duce.
Si concludeva così l’esperienza storica del fascismo in Italia, che ebbe una coda dolorosa e tragica nei 600 giorni della Repubblica di Salò, Stato fantoccio a capo del quale Hitler collocò lo stesso Mussolini, ormai all’ultimo atto della sua esperienza politica e umana, dopo averne organizzato la fuga da Campo Imperatore, sul Gran Sasso.

domenica 21 luglio 2013

Addio all'uomo con l'armonica

Avrebbe compiuto 85 anni il prossimo 10 settembre Franco De Gemini, probabilmente il più celebre suonatore di armonica a bocca italiano, scomparso il 20 luglio.
Per tutti “Harmonica Man”, il suo strumento musicale ha risuonato in colonne sonore passate alla storia del cinema italiano: Per un pugno di dollari; Il buono, il brutto, il cattivo; Lo chiamavano Trinità, per citare le più note.
Raggiunse la consacrazione con le tre note che Ennio Morricone gli fece eseguire in C’era una volta il West di Sergio Leone (1968), film in cui De Gemini prestò il fiato al misterioso meticcio “Armonica”, interpretato da un grandissimo Charles Bronson.

L’intervista proposta nel video è tratta dalla rubrica del Tg3 “Persone. Ritratti di donne e uomini”, di Rita Cavallo e Ettore Cianchi, a cura di Massimo Angius, Filippo Nanni e Luciano Riotta.



giovedì 18 luglio 2013

Piccole faide giornalistiche

I fatti sono ormai noti. Il grugnito di Calderoli, che dà dell’orango al ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge, in seguito derubricato dall’esponente leghista a battuta da comizio, frasario indispensabile per sintonizzarsi con la pancia del proprio elettorato, ma da inquadrare “in un ben più articolato e politico intervento di critica” alla politica del governo sul tema dell’immigrazione e dei diritti degli immigrati.
La sollevazione del mondo politico, con la richiesta di dimissioni dalla carica di vicepresidente del Senato avanzata dallo stesso premier Enrico Letta.
La reazione della società civile, con la petizione per chiedere le dimissioni di Calderoli lanciata da Stefano Corradino e Beppe Giulietti di Articolo 21 su change.org, che in pochi giorni è già stata sottoscritta da 172.000 sostenitori.
Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Ognuno fa il suo gioco.
Compresi i giornalisti.
La violenza delle randellate scagliate contro Lidia Ravera da Luca Mastrantonio sul “Corriere della Sera” non l’ho capita, ad esempio. Vabbè che si vive anche di urla, ma ripescare un articolo di quasi nove anni fa per proporre un’inverosimile analogia tra l’attuale assessore alla Cultura e allo Sport della Regione Lazio e l’ex ministro leghista a me è sembrato scorretto e abnorme. Oltre che falso nel merito.
Cosa sostiene infatti Mastrantonio? Che nel 2004 Ravera avrebbe paragonato a una scimmia Condoleezza Rice, sottosegretario di Stato nella seconda amministrazione Bush jr. Se però si va a leggere l’articolo in questione, come invita a fare la scrittrice assurta alla notorietà con lo pseudonimo “Antonia”, coautrice insieme a Marco Lombardo Radice (“Rocco”) del libro cult Porci con le ali (1976), la forzatura interpretativa salta immediatamente agli occhi. Si concordi o meno con il tono molto aspro della critica all’esultanza delle femministe italiane per l’incarico affidato alla Rice (il tema era questo), di razzismo – a mio avviso – è difficile trovarne.
Lidia Ravera denuncia in sostanza la “manipolazione” e la “strumentalizzazione” operate da Mastrantonio grazie all’affiancamento delle “due paroline magiche” (donna e scimmia, quando invece la giornalista si riferiva a una donna che “scimmiotta”).
Alla replica di Ravera sul “Corriere”, Mastrantonio ha controreplicato: “Ammettere che la metafora, per lei lapalissiana, possa suonare anche ignobile avrebbe reso più credibile la sua denuncia di quanto ignobile sia l’uscita di Calderoli”. Un artificio antico e diffuso un po’ ovunque quello di riservarsi l’ultima parola.
Questi gli ingredienti della polemica, che è paradigmatica di un certo modo di fare giornalismo.
Non so a voi, ma a me l’intervento di Mastrantonio è sembrato un’entrata a gamba tesa con pallone lontano dal gioco.

venerdì 12 luglio 2013

Per qualche spicciolo in più

Comodo, per voi indivanados, saltare da un canale all’altro e sparare sentenze a destra e a manca brandendo il telecomando come un machete, lo sguardo schifato di chi non ne può più del letame che sale, una voglia irresistibile di Mojito per non pensarci. Non questa sera almeno, ché l’happening mi aspetta. Domani, forse.
Facile, anche per voi indignados, sventagliare a raffica sui social, o fare caciara davanti a parlamenti, sedi di partiti e sindacati, aziende che licenziano: per strada o sui tetti, incazzati bestia per il lavoro che non c’è, la benzina che aumenta, le bollette da rateizzare, lo Stato che s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità.
La fate semplice, voi col sopracciglio alzato e il ditino puntato, per quattro spiccioli spesi dai gruppi politici della Regione Calabria in attività istituzionali. Sono i costi della politica, bellezza. Perché la democrazia non è star sopra un albero, giusto? Bisogna darsi da fare, battere le strade, andare tra la gente: tutte attività che non sono a costo zero. Sono soldi spesi per la collettività: perché ciascuno di voi, rientrando a casa, possa rilassarsi, consapevole che qualcuno si sta occupando del bene comune.
Voi, invece, no: non riuscite a comprendere un’evidenza lapalissiana. Tutti a correre appresso alle rivelazioni a puntate di Giuseppe Baldessarro sul “Quotidiano della Calabria”. Tutti con la monetina in mano, come davanti al Raphael. O col cappio già pronto, roteante come un lazo della Pampa. Tricoteuses sferruzzanti sotto il palco della ghigliottina.
E giù con “Rimborsopoli” e l’ennesima vergogna dei nostri politici. Ogni nome uno scontrino, una fattura, un buono acquisto. Una solerzia che andrebbe premiata, altroché. Non c’è scandalo: venghino, signori venghino.
Viaggi, pernottamenti, pranzi al ristorante per 30, 40, 90 ospiti. Crepi l’avarizia. Set di valigie da mille e passa euro, perché partire è un po’ morire, se non ti porti appresso il necessario e se quel necessario non viene sistemato in trolley top class. Biglietti di auguri, argenteria varia e regalini perché – vivaddio – non siamo bifolchi cresciuti nelle caverne, ma persone a modo, che sanno fare “i doveri” come ogni cristiano degno di questo nome. Giornali, perché va bene la rassegna stampa, ma vuoi mettere l’odore dell’inchiostro delle rotative ancora fresco?
Prime colazioni. Certo. Anche i settanta centesimi di un caffè. Da quando in quando è diventato osceno tutto questo? Non so voi, ma io senza caffè al mattino non riesco a mettere a moto il cervello. Mentine e caramelle sono indispensabili: la gente ti perdona l’ignoranza della Costituzione; mai e poi mai ti perdonerebbe un alito agghiacciante tipo fogna di Calcutta.
Le multe per eccesso di velocità, cari i miei Savonarola, sono la prova inconfutabile del lavoro di un politico in favore dei cittadini che rappresenta. Si va di corsa per non perdere tempo nella soluzione dei tanti problemi che affliggono la nostra martoriata terra. Se non è attività politica e istituzionale questa, ditemi voi quale possa esserlo.
E per favore, basta con questa storia del gratta e vinci: bisogna rischiare qualche investimento se si vuole rilanciare l’economia. Vi ha dato fastidio anche l’acquisto di film o partite su Sky: ma avete idea della noia degli alberghi a cinque stelle? Suvvia, finiamola con questo grillismo a buon mercato; basta con la questione morale, buona soltanto per rimediare sul piano etico al fallimento di tante inchieste giudiziarie. La politica è l’arte del possibile, non la scala per il cielo.

lunedì 8 luglio 2013

Il citofono tascabile di Leo Sculli

Il postino suona sempre due volte. Ma anche i venditori porta a porta, i testimoni di Geova, l’ufficiale giudiziario, il lettore del contatore del metano e il vicino di casa – che ha sempre un buon motivo per rompere – in genere si prendono una seconda chance, per essere certi che in casa non ci sia nessuno. Come risolvere il problema quando l’inquilino è fuori, oppure nei casi in cui chi sta in casa non è nelle condizioni di rispondere? A questo ha pensato il team che ha realizzato Welco, “il citofono che sta in tasca”, secondo la calzante definizione de “Il Tirreno”. Una squadra composta da sette ragazzi, diventati sei in seguito all’abbandono di Alessio Pace: dottori, laureati triennali e studenti in Economia o in Ingegneria tra i venti e i trent’anni, che hanno sviluppato un’idea partorita dalla testa di Francesco Medda.
Tra questi, lo studente in Ingegneria gestionale Leo Sculli, partito da Sant’Eufemia qualche anno fa per inseguire un sogno e riuscire a dare sfogo alla propria creatività in una realtà meno asfittica di quella calabrese. Destinazione l’Università di Pisa, dove sta per completare il biennio di specializzazione.
La partecipazione di Leo alla Startup di Torino (marzo 2013), nel corso della quale Medda presentò la sua idea, fa scoppiare la scintilla e crea l’alchimia necessaria per fare sì che giovani provenienti da differenti esperienze e realtà si aggreghino attorno a un’ipotesi di lavoro fortemente innovativa.
Da allora, in silenzio, il gruppo – del quale fanno parte anche Marco Arrobbio, Gabriel Occhino, Guido Parissenti e Carlo Buccisano – si dà un gran da fare per sviluppare un progetto da presentare in diversi concorsi nazionali: Fiera delle Startup, K-Idea Giovane di Kilometro Rosso, Working Capital di Telecom Italia.
L’ultimo passo è quello decisivo. Warking Capital istituisce trenta “grant d’impresa” (25.000 euro ciascuno), che consistono in finanziamenti destinati a team di startupper in cerca di capitali per il completamento del MVP (Minimum Viable Project) o per la realizzazione di indagini di mercato sulle potenzialità commerciali di un’invenzione “in ambito internet, digital life, mobile evolution e green”: quindici destinate alle Startup selezionate per il programma di accelerazione e altrettante per tutte le altre.
Nei giorni scorsi, Welco si è aggiudicato uno dei primi quindici finanziamenti (per i rimanenti il bando scadrà il 30 settembre), riuscendo a superare la concorrenza di ben 1.200 progetti cassati al termine di una severissima selezione.
Ma in cosa consiste la scoperta di Leo e dei suoi amici/colleghi? Ce lo spiega il diretto interessato con parole semplici: “è bastato sostituire la cornetta interna del citofono con un dispositivo Welco che, oltre ad avere le classiche funzionalità di un tablet, consente di aprire il portone dal cellulare”. Cosa comporta? “Considera tutte le comodità che puoi avere rispondendo al citofono direttamente dal tuo cellulare, ovunque tu sia, nel momento in cui citofonano a casa tua. E poi rifletti anche sull’utilità sociale per chi ha difficoltà di deambulazione: disabili, soggetti anziani”.
Sul perché abbia lasciato l’Università di Reggio per quella di Pisa, Leo è altrettanto chiaro: “avevo deciso di cambiare corso di studi e passare da Ingegneria elettronica a Ingegneria gestionale, ma non ti nascondo che la considerazione decisiva è stata quella che Pisa (intesa sia come Università che come città) offre possibilità che Reggio Calabria purtroppo nemmeno si sogna”.
Il prossimo passo sarà la commercializzazione del prodotto – del quale al momento esiste soltanto un prototipo dimostrativo –, che il gruppo di ricerca conta di realizzare entro la primavera del 2014. Poco meno di un anno di tempo per sviluppare la ricerca, migliorare hardware, software e App, depositare i brevetti e, soprattutto, trovare investitori convinti della bontà del progetto.

martedì 2 luglio 2013

La mia signora maestra



Non ho mai capito perché si faccia chiamare Rina. Il suo vero nome è Ermelinda ed è la mia maestra delle scuole elementari. “È”, non “era”: anche trent’anni dopo. Anzi, la mia “signora maestra”, come l’appellavamo noi alunni, al tempo in cui ancora non si usava dare del tu e chiamare per nome l’insegnante.
Il “voi”, allocutivo in uso nelle regioni meridionali al di là del retaggio fascista, marcava le distanze. Giustamente. Non è la nostalgia del “si stava meglio quando si stava peggio”, ma certo il ruolo sociale e l’autorevolezza dei docenti, a tutti i livelli, sono oramai parecchio scaduti. Un/a maestro/a di scuola elementare, in un paesino, contendeva al farmacista e al medico condotto il primato in termini di prestigio, influenza e rispetto tra i cittadini. Oggi, ahinoi, è spesso considerato un/a baby-sitter al servizio di genitori post-moderni che “sanno” tutto, come e meglio degli insegnanti dei propri figli. Si è passati dall’autorizzazione esplicita a non andare tanto per il sottile se il bambino era troppo vivace (“se faci u malu, minati”), al timore di alzare la voce anche quando si ha a che fare con teppistelli in erba.
La mia signora maestra, ad ogni modo, credo non abbia mai dato un ceffone. Una mosca bianca, diversi decenni fa. Aveva una bacchetta di legno (’a virga) che nessuna mano ha assaggiato: soltanto la cattedra ne conosceva il colpo, quando la classe eccedeva. Gliela procuravamo noi, con i mazzolini di fiori di campo per la statua della madonnina alla quale, ogni mattina, indirizzavamo l’Ave Maria.
Ai nostri occhi di bimbi, la signora maestra aveva un solo difetto: non ci portava mai a giocare nel cortile. Le rare uscite dall’aula avevano come destinazione un piccolo terrazzo della scuola. Chissà, forse lo shock per qualche incidente accaduto negli anni precedenti; o cautela per sfuggire al timore che potesse accadere qualcosa di spiacevole. Fatto sta che lo scorrazzare dei bambini dietro al pallone, in alto suscitava un’invidia da allora mai più provata.
La scuola elementare per me è il vocio della ricreazione; il blu dei grembiulini che tutti indossavamo (lo sfoggio dell’abbigliamento firmato era ancora di là da venire); le prelibatezze di “Vicenzina”, prima che l’affidamento esterno del servizio mensa provocasse una mezza rivoluzione; il profumo di primavera che entrava dal rettangolo di finestra che si affacciava sulla pineta comunale; la delicatezza della mano della signora maestra, quando una carezza sfiorava le nostre guance. Allora e oggi.
Come già in passato, le ho regalato il mio ultimo libro: un modo per ringraziare colei che mi ha insegnato a scrivere. Mi ha sorpreso con un inaspettato pensierino, prima di farmi rivivere in un attimo la mia infanzia, con una di quelle carezze che io so.

* Nella foto, la classe III C della Scuola elementare “Don Bosco” (anno scolastico 1981-1982)