lunedì 27 giugno 2011

Il furbo, il sordo, il diffidente


In origine furono gli spaghetti western di Sergio Leone: Il buono, il brutto, il cattivo, nella magistrale interpretazione di Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef. Poi fu il turno della parodia di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Il bello, il brutto, il cretino) e del riadattamento poliziottesco (Il cinico, l’infame, il violento) con gli attori cult del genere, Tomas Milian e Maurizio Merli. Mancava l’ambientazione politica. Quale scenario più adatto del centrosinistra ringalluzzito dagli scivoloni del governo e perciò concentrato nella singolare attività di immolare le vittorie sull’altare delle lotte fratricide? Detto, fatto. E così è ricominciato ufficialmente il campionato nazionale dell’autolesionismo, dopo la pausa imposta dalle elezioni amministrative e dai referendum. C’è da stare uniti per portare a casa il risultato? Neanche a dirlo. Via con le divisioni e con il piano T (o Tafazzi), quello che prevede, morettianamente, di continuare a farsi del male. Non sia mai che gli elettori prendano eccessiva confidenza con i sorrisi.
Nel centrosinistra il dopo-Berlusconi è cominciato da un pezzo. Lo si capisce dalle scaramucce iniziate già quando, due settimane fa, le bottiglie dello spumante tirate fuori dal frigo erano ancora mezze piene. Si aspetta soltanto di sapere chi scriverà la parola fine e se una dignitosa exit strategy darà al premier la soddisfazione di lasciare un’eredità alla destra post-berlusconiana. Per cui ognuno si ingegna nell’opera di perimetrazione di una propria area. Di Pietro non ha altra scelta che quella semplificata rozzamente dalla fotografia che lo ritrae in conversazione nientemeno che con il presidente del consiglio, quasi fosse un Responsabile qualsiasi. Per farsi largo tra Bersani e Vendola, occorre qualcosa in più dell’antiberlusconismo viscerale di questi anni, soprattutto perché l’antiberlusconismo, dopo Berlusconi, sarà un’arma spuntata. Serve un profilo nuovo, moderato e dialogante con l’elettorato prevedibilmente in uscita dal centrodestra. Un ritorno alle origini? Forse. D’altronde, Di Pietro con la storia della sinistra c’entra poco. Ai tempi di Mani pulite, l’area giustizialista del Movimento sociale italiano faceva apertamente il tifo per il grande accusatore e non è un segreto l’offerta fatta dallo stesso Berlusconi per averlo ministro dell’Interno nel suo primo governo. Quando ancora il premier cavalcava le istanze giacobine e il tg4 di Emilio Fede teneva Paolo Brosio di picchetto davanti al Tribunale di Milano. Non è da escludere che il nuovo schema provochi qualche mal di pancia, peraltro già manifestato da alcuni commenti inferociti sulla rete e dalla dichiarazione di De Magistris: una svolta priva di senso perché “non è lì che vogliono andare i nostri sostenitori” e perché “dobbiamo essere coerenti” (“Non possiamo di punto in bianco trasformarci da ala sinistra ad ala destra del centrosinistra”).
Ma il dado ormai è tratto. Se n’è accorto subito Vendola, finito al pari di Bersani nel mirino di Di Pietro: il leader di Sel perché troppo estremista, quello del Pd perché troppo attendista. C’è della verità nelle parole del governatore pugliese: “Di Pietro vede esaurito lo spazio della rincorsa a sinistra. E sceglie di ricollocarsi come ala destra del centrosinistra”. Legittimo, ovviamente. Anche se fa drizzare le antenne di Vendola, uno abituato a tenere in gran sospetto gli alleati. A ragione, se si pensa che i maggiori ostacoli gli sono stati sempre frapposti dai compagni di viaggio. Insomma, una furbata alla quale non ha abboccato neanche Bersani che, dopo avere messo il cappello sul successo dei referendum – non ascrivibile in toto al Pd, in virtù delle antiche ambiguità su acqua e nucleare e del sostegno espresso apertamente quasi al triplice fischio –, prosegue nel suo corteggiamento a Casini, incurante della propensione della base per un’alleanza Pd-Idv-Sel.
Il problema principale del centrosinistra rimane quello di riuscire a darsi delle priorità, che dovrebbero avere a che fare più con la sconfitta del premier e meno con la cura di orticelli e con la gestione di personalissime porzioncine di potere. Ai generali del centrosinistra – è evidente dall’impegno nel rianimare l’avversario agonizzante – non piace vincere facile. Altrimenti non avrebbero affossato per ben due volte Prodi, l’unico in grado di battere Berlusconi. Un peccato che al Professore, in fondo, non è mai stato perdonato.

martedì 21 giugno 2011

Esami di maturità, un ricordo


Ho sempre considerato a dir poco bizzarri i “quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla” cantati da Antonello Venditti. Eppure anch’io, come milioni di ragazzi prima e dopo di me, ho ascoltato fino alla nausea “notte prima degli esami” in quel lontano giugno del 1992, riavvolgendo il nastro della musicassetta e facendolo ripartire un’infinità di volte. Specialmente la notte in cui, diversamente dal principe di Condè la vigilia della battaglia di Rocroi, non riuscii a dormire “profondamente”.
Al solito, le ipotesi sulla traccia del tema d’italiano si sprecavano. Ma anche le cartucciere e la fantasia di chi le congegnava. I pochissimi che ci presentammo senza neanche un temario fummo quasi irrisi. Eravamo sicuri che, nella peggiore delle ipotesi, saremmo stati in grado di affrontare la traccia di attualità. E infatti andò così. La tensione, altissima, era per il primo vero esame della vita, non per le prove in sé.
In Italia e nel mondo stava succedendo di tutto e cominciavamo a guardarci attorno con occhi attenti. Dopo la caduta del muro di Berlino, i paesi del blocco sovietico si affacciavano uno dopo l’altro alla democrazia. Da poco più di un anno era finita la prima guerra del Golfo, contro la quale avevamo organizzato una manifestazione terminata in piazza Matteotti con la lettura al megafono di un appello (addirittura) preparato da me, Nino e Luigi. A maggio la strage di Capaci s’era portato via Falcone. A esami in corso la notizia del tritolo in via D’Amelio contro Borsellino colse in spiaggia quelli che avevamo già sostenuto l’orale, portata da una ragazza che non la smetteva più di piangere. Increduli e sgomenti ci chiedevamo: “e ora che succederà?”. Cossiga picconava il sistema politico italiano ormai prossimo all’implosione, Craxi e Andreotti pensavano di essere ancora i burattinai del potere, ma i tempi stavano davvero per cambiare.
Qualche mese prima avevamo fatto il nostro primo viaggio all’estero, destinazione Barcellona. La colonna sonora la portarono i ragazzi di Bagnara: un tributo a Freddie Mercury, morto nel novembre precedente, integrato dai Litfiba allora all’apice del successo. Anche se mio fratello ci aveva stregato con la novità del momento, Edoardo Bennato nelle vesti di Joe Sarnataro (“È asciuto pazzo ’o padrone”). Portavamo a spasso le nostre acconciature improbabili (io il ciuffo alla Nicola Berti, il mio idolo calcistico), camicie orribili e jeans accorciati selvaggiamente a dieci centimetri dalle scarpe. Per la prima volta diventammo conquistatori “in trasferta”, qualche bacio carpito sulle scale dell’albergo e storie che proseguirono nel corso della prima estate da patentati, con la possibilità – quindi – di andare al mare autonomamente, a bordo della mitica 126 blu mediterraneo di Luigi. Ben presto l’esame di maturità diventò un ricordo, come l’incubo per la prova di matematica che non riuscimmo a completare e che Luis risolse alla sua maniera con un’esibizione straordinaria davanti alla cattedra, su una gamba stile Jim Morrison nella danza dello sciamano, conclusa con l’esclamazione: “ecco il punto di equilibrio richiesto dalla traccia!”.

venerdì 17 giugno 2011

Due mondi lontanissimi

Ancor più che per la grave affermazione (“questa è la peggiore Italia”), il ministro Brunetta dovrebbe provare vergogna per la successiva autoassoluzione, una colossale menzogna sbugiardata dal video del convegno. Per il resto, potrebbe anche avere ragione: se uno ha voglia di lavorare, si alza alle cinque di mattina e va a scaricare cassette ai mercati generali. Verissimo, ma c’è gente che già si regola più o meno così, nonostante per il proprio futuro avesse investito in altri campi, rimettendoci tempo e soldi. Perché il conseguimento di una laurea – persino Brunetta dovrebbe saperlo – costa anni di fatica e denaro. Per poi ritrovarsi, nella migliore delle ipotesi, precari costretti a subire gli insulti di un ministro arrogante e rancoroso.
Che la politica in generale appaia sideralmente distante dai problemi della gente comune, in particolare da quelli di famiglie sempre più impoverite e di giovani che vivono il dramma della disoccupazione, della precarietà e della dequalificazione, non è un mistero. Per incapacità di dare risposte, per difficoltà a volte dovute a una situazione di crisi globale. Non si vuole per forza dare la croce addosso a chi ha responsabilità di governo. Eppure, c’è qualcosa che non torna, non può essere sempre colpa di quattro provocatori se da un po’ di tempo le bordate di fischi e le contestazioni si sprecano. Forse perché il “governo del fare” ha fatto solo promesse rimaste imprigionate nelle quattro mura delle stanze del potere, mentre fuori una realtà di macelleria sociale è sotto gli occhi di tutti.
Un lavoro dignitoso è un miraggio, a meno che non si abbia qualche santo in paradiso. Gira e rigira, il problema al quale nessuno riesce a dare una risposta convincente è sempre lo stesso. Quello dell’uguaglianza delle opportunità e del diritto a costruirsi un futuro, che vanno garantiti a tutti. Non quello di andare a scaricare cassette alle cinque di mattina. Ci possiamo andare tutti, senza perderne in dignità. Però con noi devono venirci anche i figli di quelli come Brunetta, quelli che prendono incarichi e consulenze in strutture pubbliche senza avere nessun merito particolare, i “figli di”, i “parenti di” e le “amanti di” che scalano rapidamente le carriere universitarie. L’indignazione nasce dalla certezza che i figli di quelli come Brunetta non andranno mai ai mercati generali, neanche per farci la spesa. Perché anche se bocciati tre volte all’esame di maturità, hanno pronto il posto da collaboratore del deputato europeo di turno, in attesa di qualcosa di meglio. Mentre chi ha lauree e dottorati non riesce ad assicurarsi neanche uno straccio di contratto atipico.
Sono tanti i giovani che sanno di non potere pretendere, nella situazione attuale, il posto fisso. Aspirano soltanto (è troppo?) a un’occupazione che consenta un progetto sull’avvenire, farsi una famiglia, avere un minimo di garanzie economiche e di tutela sociale. Si può e si deve accettare qualsiasi tipo di lavoro. Lo facciamo tutti. Ma non chiedeteci anche di applaudirvi perché avete ucciso i nostri sogni.

mercoledì 15 giugno 2011

27 milioni di sberle

Non può che essere accolta con favore la resurrezione dell’istituto referendario, talmente bistrattato negli ultimi sedici anni e fino a ieri da provocare fastidio ogni qual volta se ne annunciava la riproposizione: “tanto il quorum non verrà raggiunto neanche in questa occasione”. Dopo 24 quesiti affossati, finalmente la fatidica soglia è stata superata. Ed è stata una valanga di sì. La percentuale dei votanti (57%), confrontata con il massiccio astensionismo del secondo turno delle amministrative, è stata imponente, anche perché raggiunta al termine di una battaglia impari contro tentativi di azzoppare i referendum al limite della decenza. La scelta dell’ultima data utile, nella speranza che l’avvicinarsi dell’estate incoraggiasse la diserzione; gli espliciti inviti all’astensione di gran parte dell’esecutivo; la scarsissima informazione televisiva. Con la menzione particolare guadagnata dal tg1, grazie alla chicca dell’invito ad “organizzare una giornata al mare”. La scientifica campagna di oscuramento è stata però stracciata dall’insistente passaparola su internet, che ha sancito la vittoria della rete sul mezzo televisivo. L’azione del movimento pro-referendum, tambureggiante e coinvolgente, ha incrociato la volontà degli elettori di non delegare le decisioni riguardanti i grandi temi, per non vedere mortificata l’aspirazione ad essere artefici del proprio destino e per sentirsi protagonisti in una stagione che annuncia grandi cambiamenti.
Sì alla politica, no ai politici. Si potrebbe sintetizzare così il significato di un voto che riconsegna al popolo quel potere decisionale leso dall’attuale vergognosa legge elettorale. Politica energetica “verde”, gestione pubblica dell’acqua, giustizia giusta per tutti. Il merito dei quesiti aiuta a spiegare il dato dell’affluenza e la partecipazione di tanti elettori che hanno sentito il dovere civico di esprimersi sullo specifico dei referendum, ma anche – per esempio – su una questione di principio: quando il pubblico non funziona, occorre fare in modo che sprechi e inefficienze vengano superati, non procedere allo smantellamento e alla cessione ai privati. Un ragionamento che ovviamente vale per l’acqua, ma anche per quei comparti spesso finiti sotto accusa (scuola, sanità, trasporti).
L’altro messaggio stampato sulle schede imbucate nelle urne, la bocciatura del governo Berlusconi e la fine della sintonia del premier con la maggioranza degli italiani, conferma il trend delle recenti elezioni amministrative. Un tramonto che molti hanno accostato all’epilogo del craxismo per l’invito ad andare al mare, ignorato dagli elettori ora come nel 1991, quando il referendum sulla preferenza unica diede il via alla fine di un’epoca. Sarebbe però esiziale abbandonarsi a facili entusiasmi. La vera sfida, per i partiti e per la società civile, è riuscire ad incanalare in una proposta politica alternativa l’energia sprigionata il 12 e il 13 giugno. Perché l’antiberlusconismo può bastare per fare passare un referendum, ma per governare l’Italia occorre altro.

giovedì 9 giugno 2011

4 SI "per quelli che passeranno"



Dicono che il tempo cambi le cose,
ma in realtà le puoi cambiare solamente tu
.

(Andy Warhol)




lunedì 6 giugno 2011

La sentinella del bidone


Secondo la propaganda fascista, si poteva servire la patria anche montando di guardia a un bidone di benzina. Occorre aggiornare la metafora: è possibile rendersi utili pure se il bidone è un partito politico, purché se ne accetti la nomina a segretario.
Se da un lato la decisione di affidare il Pdl alle cure di Angelino Alfano va nella direzione di un ricambio generazionale e di un fisiologico svecchiamento della politica, non può che lasciare perplessi il metodo dell’investitura medievale scelto per consentire al partito del predellino di sopravvivere al dopo-Berlusconi. L’imperatore ha scelto il delfino, a ulteriore riprova, per chi ancora nutrisse qualche dubbio, del concetto berlusconiano di democrazia. Un’operazione di maquillage e poco altro. Perché non si capisce il senso di una figura che va a sovrapporsi ai tre coordinatori (Verdini, La Russa, Bondi) già esistenti, che conserveranno le rispettive poltrone. Provocando – non è difficile prevederlo – ulteriori tensioni in una situazione già caratterizzata da costante fibrillazione. Ma soprattutto perché bisognerebbe spiegare cosa mai potrà significare “assumere i pieni poteri” in un partito in cui a comandare è notoriamente un altro (Berlusconi). Non è un caso che nel Pdl la figura del segretario non sia neanche contemplata, per cui prima di procedere alla sua elezione (sic) il Consiglio nazionale dovrà approvare la modifica delle norme statutarie.
Qualcuno intuisce una sorta di exit strategy del premier, il famoso passo indietro. Ma nonostante i tentativi in zona Cesarini, il Pdl non sembra in grado di sfuggire alla logica dell’uomo solo al comando che – come si è visto anche di recente – non è in grado di risolvere alcunché. In ogni caso, dietro potrà esserci la terra ferma o il baratro. L’esito della verifica non è affatto scontato.
Per quanto il Pdl sia un partito fortemente carismatico, al suo interno è infatti possibile cogliere sensibilità e accenti diversi. C’è chi, come Formigoni, smania per giocare da protagonista la partita della successione a Berlusconi; chi, come La Russa, teme le insidie del futuro e una probabile deminutio capitis; chi, come Alessandra Mussolini, contesta il metodo dell’investitura: “non si può nominare un segretario politico in una nottata di convivialità, senza aver convocato l’ufficio di presidenza e senza un congresso”. Il segretario in pectore si è affrettato a dichiarare che “si devono aprire le finestre per fare entrare un po’ di aria fresca”. Ancor più radicale Claudio Scajola: “buttiamo via nome e simbolo e facciamo qualcosa di nuovo”. Magari ricorrendo al sistema delle primarie, quanto di più lontano possa esistere dalla mentalità aziendalista del presidente del consiglio, che infatti non ha aspettato molto per avvisare i naviganti sui rischi di un metodo non controllabile al cento per cento. Fare la fine del Pd, costretto a subire i Vendola e i Pisapia di turno, sarebbe davvero troppo.
Ecco perché questa svolta non appare convincente. C’è sempre il timore di trovarsi di fronte a uno spot pubblicitario. Il solito ammiccamento a favore di telecamera.