mercoledì 25 dicembre 2019

Buon Natale


Don Tonino Bello ci insegna che le ferite sono un’occasione speciale nella vita di ciascuno di noi, se siamo capaci di trasformarle in feritoie attraverso le quali farvi passare nuova luce. La bravura sta nel riuscire a cogliere il bagliore, nell’aprire i cuori al cambiamento che quelle ferite reclamano. E quale occasione più suggestiva della Natività? Vivere è rinascere ogni mattina, dare alla propria esistenza un senso, ricercare nuovi orizzonti.
Siamo all’altezza di un impegno così gravoso? Non possiamo saperlo, ma abbiamo il dovere di provarci. Il dovere di farlo guardando al bimbo della mangiatoia. Un neonato che parla a tutti, credenti e non credenti, con la potenza del suo messaggio di pace e di amore. Contro ogni violenza fisica e morale, contro ogni forma di sopraffazione, contro ogni tentativo di comprimere la personalità altrui. Contro le volgarità, le offese, le parole che diventano clave. Contro l’indifferenza, il male peggiore di questa nostra società.
La pace nasce dall’incontro con l’altro. Dalla chiusura nel recinto degli egoismi e degli interessi nasce la desertificazione dell’anima. Come in guerra: “hanno fatto il deserto e lo chiamano pace”. Le immani tragedie della storia sembrano non avere insegnato niente.
Occorre uno sforzo. Non girarsi dall’altra parte, non pensare che riguardi sempre altri distanti da noi. Sentire su di sé le ingiustizie del mondo. Ricercare i volti. Spogliarsi della propria identità e indossare i vestiti dell’altro. Riconoscere la dignità ad ogni individuo che si incontra nel proprio cammino. È aberrante l’idea che anche soltanto un membro del genere umano possa essere considerato un rifiuto della società. Purtroppo accade, oggi come ieri. Ma la cultura dell’odio e dello scarto, più volte denunciata da Papa Francesco, si può sconfiggere soltanto con la solidarietà: è lei la strada capace di condurre ad un mondo più giusto.
Non ci sono alibi. Viviamo in quest’oggi e con esso bisogna fare i conti, tenendo bene a mente le parole di Sant’Agostino: «Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi».
Auguri

domenica 22 dicembre 2019

Il Natale di solidarietà dell'Agape


È iniziato ieri il “Natale di solidarietà” dell’Agape, con il pranzo presso la RSA “Prof. Mons. Antonino Messina”. Con la struttura per anziani di Sant’Eufemia, un’eccellenza nel settore, sin dalla sua fondazione abbiamo un rapporto privilegiato. È stato bello ed anche emozionante vedere che eravamo in tanti, tra volontari, parenti degli assistiti e personale della struttura, impegnati ognuno a fare qualcosa per portare un paio d’ore d’allegria. Denso di significati il presepe impersonato da due anziani della struttura e da una bambina nata pochi mesi fa. Bravissime le sei coppie della scuola di ballo Olympus, che ha aderito con entusiasmo al nostro invito. Non era un palazzetto dello sport per una delle tante medaglie vinte, ma anche ieri i giovani ballerini hanno sicuramente portato a casa una bella vittoria. Il “Natale di solidarietà” ha altri due importanti appuntamenti: le visite domiciliari domani e il veglione giorno 29. Pubblico di seguito il messaggio scritto e letto dalla volontaria dell’Agape Gresy Luppino, che con le sue parole ha saputo interpretare il pensiero di tutti noi.

Cari amici, cari pazienti, caro parroco, cari collaboratori e operatori.
Siamo quasi giunti al termine di questo emozionante 2019 e, come di consueto, siamo sempre abituati a tirare un poco le somme di quel che è stato di noi e della nostra associazione. Nel nostro bilancio rientrano le cose che abbiamo fatto e quelle che, magari, avremmo voluto fare ma per le più svariate ragioni non siamo riusciti a fare. Ma ci sono soprattutto le persone che abbiamo incontrato. Tra quelle persone ci siete state anche voi. Mentre scriviamo abbiamo chiaro in mente il viso di ognuno di voi, anche quello di chi è giunto al termine della sua corsa per la vita. Ci passate davanti agli occhi, uno ad uno, e per ognuno si accendono un ricordo, un sorriso e una storia che sanno di amore, che sanno di malattia, che sanno di famiglia, che sanno di affanni ma anche di tanta gioia. In ogni vostra stretta di mano e in ogni sguardo limpido, abbiamo riacquistato i valori più grandi che a volte si perdono per strada e, in ogni singolo racconto, abbiamo visto riflettersi l’immagine di qualcuno che conoscevamo bene e che vi assomigliava un po'. Vorremmo quindi dirvi Grazie: grazie perché avete riposto in noi dubbi e paure, perché ci avete affidato le vostre storie, perché ci avete insegnato a non arrenderci e a non rassegnarci. Perché per noi siete stati dei maestri e come tali ci avete insegnato più di quanto qualsiasi scuola, master o corso possano fare. Grazie perché ci avete aiutato a non perdere mai la fede e perché, consapevolmente o inconsapevolmente, la direzione spesso ce l’avete indicata voi confermandoci che nulla è facile ma niente è impossibile da superare.
Grazie alla direttrice dottoressa Rossana Panarello e al personale della RSA Antonino Messina, tutti eccellenti professionisti dotati di gran cuore. Vi osserviamo con infinita ammirazione per i sorrisi e l’abnegazione con cui avete portato avanti il vostro compito, senza mai dimenticare che il paziente è prima di tutto una persona e non un numero. Grazie per i pranzi squisiti con i quali avete deliziato il nostro palato, per gli abbracci lunghissimi, per la disponibilità e per la riconoscenza che avete avuto nei nostri riguardi aprendoci le porte della vostra casa residenziale e permettendoci di amare e pregare con i vostri affezionatissimi pazienti speciali.
Grazie ai piccoli e talentuosi ragazzi della scuola ballo Olympus, seguiti dai maestri Federica e Saverio, per avere allietato questo incontro con la loro esibizione, nella certezza che anche loro non hanno solo offerto un dono, ma l’hanno ricevuto.
Grazie, infine, e di certo non per ordine di importanza, al nostro parroco Don Marco, presente alle nostre iniziative e disponibile ad ogni nostra richiesta. Attento ai bisogni della comunità e di questi uomini e di queste donne che gli rivolgono sempre sorrisi e ripongono in lui grande fiducia. Grazie per aver pregato per tutti noi e per essere stato guida e forza.
Con affetto
I ragazzi dell’Associazione di volontariato cristiano Agape.

lunedì 16 dicembre 2019

Il mio albero di Natale


Il mio albero di Natale è del 1972 e arriva dall’Australia. Cinque anni dopo viaggiò verso l’Italia insieme a ciò che rimaneva degli anni vissuti nella terra “down under” dai miei genitori: tra le altre cose, tre bambini. Un alberello transoceanico, che mamma e papà avevano acquistato per festeggiare il loro secondo ed estivo Natale australiano.
Anche la gran parte dei suoi addobbi solcò l’oceano, in uno dei bauli che da Fawkner, alle porte di Melbourne, riportò in Italia pure il corredo matrimoniale della ragazza dai lunghissimi capelli neri. Ogni anno aspetta il suo momento, certo che arriverà. Qualche volta è stato tirato fuori all’ultimo momento, il 23 o addirittura il 24 dicembre. Quegli anni che non hai tanta voglia di festeggiare. Senza, sarebbe stato comunque qualcosa di definitivo e irredimibile. Meglio esserci, anche senz’allegria.
Non è soltanto un albero. È il riassunto di tante vite. Una storia della quale vado fiero, ma che è possibile rileggere negli occhi di chi, in ogni angolo della terra e in qualsiasi tempo, cerca con dignità di costruirsi la speranza di un futuro migliore. È “fare e disfare… battere e levare”: la strada fatta, le corse e le frenate. Ricorda da dove veniamo e quanto sia importante non smettere mai di inseguire un sogno o una possibilità.
Da quando ci sono i miei nipoti, tocca a loro sistemare luci, palline, nastri e qualche nuova decorazione. Un lungo filo rosso tenuto da più mani.
Si vive di gioie talmente piccole che spesso sgusciano via silenziose. E invece soltanto di quelle ci ricorderemo, come alla fine è chiaro anche a Scrooge nel Canto di Natale di Dickens. Le piccole cose che riempiono la vita.
Sul mio albero ci attacco i miei anni. Uno dopo l’altro. Ci appendo gli sprazzi di gioia e le nuvole di tristezza, le carezze di chi c’è e quelle di chi non c’è più.
Le sue lucine sono desideri che si accendono e si spengono. Tanti inseguiti e altrettanti abbandonati, seguendo l’umore dei momenti vissuti o lasciati andare. Vicini o lontani. Vicini e lontani.

venerdì 13 dicembre 2019

Sul movimento delle sardine


Ho letto con attenzione un articolo non molto tenero nei confronti del movimento delle sardine, inviatomi ieri. In alcuni passaggi mi è sembrato ingeneroso, se non astioso. In altri qualcosa di condivisibile c’era. Complessivamente, io ritengo che questo movimento possa rappresentare una novità positiva, quantomeno per la ventata di freschezza portata nella cloaca politica che è diventata l’Italia.
Il movimento delle sardine, come quello dei grillini delle origini, è l’effetto di una politica che da troppi anni non dà risposte e che, soprattutto, non riesce a scaldare i cuori; l’effetto della crisi dei partiti politici, che tra le tante colpe ne recano una a mio avviso gravissima: quella di non fare il proprio mestiere, cioè formare e selezionare una classe dirigente degna di questo nome. Ciò comporta la nefasta considerazione che un partito vale un altro, che ieri si poteva essere democratici e oggi sovranisti. Abbiamo davanti a noi una politica senza valori, nella quale finiscono giocoforza per prevalere furbi e cinici. Con la complicità interessata di chi quella selezione dovrebbe farla, ma anche con la sostanziale acquiescenza di cittadini che, evidentemente, votano tutto e il contrario di tutto perché della coerenza non sanno che farsene.
Tornando al movimento delle sardine, a me interesserebbe comprendere lo sbocco politico della protesta, il passaggio dalla pars destruens a quella construens. Non si può ridurre la ragione politica di un movimento all’antisalvinismo e all’antisovranismo, che rappresentano certamente due paletti identitari e sentimentali molto forti. Per andare oltre il riempimento di una piazza (che comunque non è cosa di poco conto), sarebbe necessario uno scatto ulteriore. L’indisponibilità a scendere in prima persona nell’agone politico rischia infatti di tradursi in velleitarismo perché, per dirla con Don Milani, “a che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?”.
Ho l’impressione che a Reggio e dintorni il movimento delle sardine raccolga molti grillini in uscita, a suo tempo avvicinatisi al M5S perché delusi dalla sinistra. Ennesima prova dell’incapacità dei partiti appartenenti a quel campo di intercettare la domanda di rinnovamento, di attenzione per l’ambientalismo, per l’etica politica e finanche per i valori della Resistenza e dell’antifascismo. Incapacità dovuta al fatto che – a volte a torto, spesso a ragione – eletti e dirigenti della sinistra vengono percepiti come casta sempre più distante dalla società reale, impegnata per lo più nella difesa di posizioni di potere personali o di banda. In sintesi, perché non sono considerati credibili.
Il movimento delle sardine rappresenta pertanto un disagio che a sinistra andrebbe ascoltato con molta attenzione, magari rinunciando alla tentazione di metterci strumentalmente sopra il proprio appello.

giovedì 12 dicembre 2019

Ancora sulla discarica di Melicuccà


Su diverse testate giornalistiche online, leggo che oggi il gruppo consiliare “Rinascita per Bagnara” ha chiesto di inserire all’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale di Bagnara una mozione che impedisca la riapertura della discarica di contrada “La Zingara”. Com’è noto, la discarica ricade nel territorio di Melicuccà, ma di fatto si trova pericolosamente nell’entrata del comune di Sant’Eufemia, al confine con la frazione Pellegrina di Bagnara.
Come gruppo consiliare di Sant’Eufemia d’Aspromonte “Per il Bene Comune”, il 2 settembre avevamo chiesto al sindaco Domenico Creazzo (prot. 4556) “di farsi promotore di un’iniziativa (un incontro o un consiglio comunale aperto) che coinvolga le realtà associative della nostra comunità e la sua popolazione, per fare il punto della situazione e per valutare quali eventuali azioni possiamo tutti insieme intraprendere per difendere il nostro territorio”. La risposta del sindaco, due giorni dopo, lasciava ben sperare: “La Vs. richiesta di un pubblico confronto sulla tematica in questione ci trova pienamente d’accordo, essendo questo un obiettivo già da tempo messo in conto da questa Amministrazione comunale nella ferma convinzione della necessità di valutare tutti insieme – amministratori, forze associative e cittadini – la strada da percorrere per impedire la concretizzazione di un evento che avrebbe conseguenze deleterie per il nostro territorio, già ampiamente penalizzato” (prot. 4608).
Spiace che ad oltre tre mesi di distanza questo auspicato coinvolgimento dell’opposizione, delle realtà associative e della popolazione di Sant’Eufemia non ci sia ancora stato. Continuo a pensare che in questioni così importanti l’unione davvero può fare la forza e dare più vigore alle dichiarazioni rilasciate qua e là dal sindaco.







*Nelle fotografie, le condizioni della discarica qualche mese fa.

martedì 10 dicembre 2019

Il martire fascista


Francesco Sottosanti è un maestro elementare di Piazza Armerina (Enna) che insegna a Verpogliano, frazione di Vipacco, un paesino sloveno del territorio goriziano annesso all’Italia dopo la Prima guerra mondiale. Ucciso in un agguato il 4 ottobre 1930, l’assassinio viene considerato dal regime fascista delitto politico e Sottosanti, fervente fascista con incarichi nelle organizzazioni del partito, commemorato come un martire della Causa.
I giornali sloveni – di tutt’altro avviso – raccontano invece una storia di violenze e di ignobili punizioni inflitte agli alunni sloveni che parlassero o soltanto pronunciassero qualche vocabolo nella propria lingua madre: i poveretti erano costretti ad aprire la bocca, dentro la quale il maestro sputava. In realtà, non era Francesco Sottosanti l’autore dei maltrattamenti sui bambini a scuola.
Adriano Sofri ricostruisce il fatto di cronaca setacciando i giornali del tempo, i libri sulla politica fascista nel confine giuliano, documenti e rapporti di polizia rintracciati nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma e negli Archivi di Stato di Gorizia e di Trieste. Il martire fascista. Una storia equivoca e terribile (Sellerio, 2019) non è però soltanto la storia tragica di uno scambio persona. Il libro di Sofri è anche il racconto della brutalità della politica di italianizzazione esercitata dal regime fascista contro le minoranze linguistiche (le cosiddette popolazioni allogene), in particolare quella slava.
D’altronde, su 31 giustiziati su sentenza del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato eseguite tra il 1927 e il 1943, 24 erano sloveni o croati.
Ma c’è di più. Per uno strano scherzo del destino, un figlio di Sottosanti, Nino “il mussoliniano”, guadagnerà per qualche tempo gli onori della cronaca dopo la strage di piazza Fontana, della quale il 12 dicembre ricorre il cinquantenario, in qualità di improbabile sosia di Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage e poi assolto.
Una storia che rimanda ad altre storie, recuperata “andando su e giù dai confini”: «Niente è bello come un confine abolito. Soprattutto quando c’è chi lo rimpiange, e investe in fili spinati».

giovedì 5 dicembre 2019

Partigiano, portami via da tutta questa ignoranza


Mi chiedo cosa dovrebbe esserci di così vergognoso nel cantare “Bella ciao”. Sono davvero tempi tristi se si cerca la polemica su un canto di liberazione. Stiamo perdendo i riferimenti storici, culturali ed etici del nostro stare insieme. La lotta partigiana è stata lotta di liberazione dal mostro nazifascista, partorito dai fantasmi e dalla follia del ventesimo secolo. Alla lotta partigiana prese parte la gioventù migliore di quel tempo: una generazione che sacrificò tutto, anche la propria vita, per consegnare all’Italia la democrazia.
In questo presente senza memoria non dicono niente i nomi di Edgardo Sogno, del martire delle Fosse Ardeatine Giuseppe Cordero di Montezemolo, di Alfredo Pizzoni, Alfonso Casati, Mario Argenton, Enrico Martini e tanti altri. Monarchici, liberali, autonomi che “fecero” la Resistenza. Accanto a socialisti, comunisti, democristiani, azionisti. Tutti uniti per scacciare i nazi-fascisti dal suolo italiano e per cancellare vent’anni di dittatura, di confino e di assassini politici, di parlamentari ridotti a marionette, di leggi liberticide, per riscattare la vergogna delle leggi razziali e dell’ingresso dell’Italia in guerra. Uniti, al di là delle diverse sensibilità politiche, per il fine nobile e superiore della conquista della libertà per tutti, non per una parte: «Abbiamo combattuto assieme – dichiarò Arrigo Boldrini – per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro».
Boldrini, il “comandante Bulow”, partigiano e comunista che “salì in montagna” con tanti altri compagni, dei quali oggi – sempre più spesso – si tenta di cancellare o di macchiare la storia.
Sta tutta qua la differenza tra chi lottava per la libertà e chi per la dittatura. Concetto ribadito dal partigiano Vittorio Foa in un celebre colloquio con il repubblichino Giorgio Pisanò: «Abbiamo vinto noi e sei diventato senatore; se aveste vinto voi io sarei morto o sarei finito in galera». Una frase che riassume la grandezza della Resistenza e che va ricordata, oggi che tutto viene messo in discussione in maniera ignobile e irresponsabile da chi dovrebbe rappresentare i valori della libertà al più alto grado. Dai troppi porci a cavallo che occupano le istituzioni senza averne né il senso, né il decoro: magari pretendendo – come minacciò il loro rimpianto predecessore – di poterne fare “un bivacco di manipoli”.
Mi chiedo di cosa ci si debba vergognare nel cantare “Bella ciao”, che tra l’altro – se proprio non bisogna turbare i nostri anticomunisti da fotoshop – non è neanche una canzone comunista, visto che non incita alla lotta di classe, ma a quella di liberazione dall’invasore. Sorge un dubbio: forse ci si dovrebbe vergognare di avere combattuto anche per la libertà degli ignoranti e dei cretini di oggi.

lunedì 2 dicembre 2019

Il terremoto del 1908 a Sant’Eufemia in tre scatti della Società fotografica italiana





Il terremoto del 28 dicembre 1908 fu il primo evento “mediatico” della storia italiana. In riva allo Stretto giunsero i giornalisti più famosi, tra i quali Luigi Barzini senior, il leggendario inviato del “Corriere della Sera”. Grazie al racconto dei quotidiani nazionali, l’Italia intera si sentì emotivamente coinvolta. Fiumi di inchiostro e, novità assoluta, numerose fotografie. I luoghi del disastro, morti e feriti, soccorritori, macerie e desolazione: anche le popolazioni delle province più lontane “videro” tutto. Le immagini diffuse avvicinarono gli italiani alla tragedia.
Nel 1889 era stata costituita a Firenze la Società fotografica italiana, sotto la presidenza dell’antropologo Paolo Mantegazza. Nel 1908 diversi fotografi giunsero a Reggio e a Messina per documentare fotograficamente gli effetti del terremoto e, neanche un anno dopo, i loro scatti trovarono sistemazione nel volume “Messina e Reggio prima e dopo il terremoto del 1908” (Firenze, 1909). L’opera, che l’editore Barbaro di Delianuova ha meritoriamente ristampato nel 2002, contiene centinaia di immagini e gli interventi di autorevoli personalità del mondo culturale e scientifico: Gabriele D’Annunzio, Pasquale Villari, Corrado Ricci, Vittorio Spinazzola, Guido Alfani, Ugo Ojetti. Il contenuto della pubblicazione (scritti e didascalie delle fotografie), che fu dedicata dalla Società fotografica italiana all’«Opera nazionale di Patronato “Regina Elena” per gli orfani del terremoto», ha la caratteristica di essere riportato in quattro lingue: italiano, francese, inglese e tedesco.
La maggior parte delle fotografie furono realizzate a Reggio e a Messina, ma i reporter visitarono anche i paesi della provincia reggina. Sant’Eufemia è presente con tre scatti, realizzati da Luigi Lodi-Focardi e Silvio Bernicoli: la prima ritrae un’abitazione diroccata in uno scorcio di corso Umberto e piazza Plebiscito (odierna piazza don Minzoni); la seconda, una fontana con due donne e un uomo che fanno approvvigionamento d’acqua; la terza, la chiesa di Sant’Eufemia nel rione Petto, puntellata nei giorni successivi al terremoto.

*Fotografie tratte da: Società fotografica italiana, “Messina e Reggio prima e dopo il terremoto del 1908”, ristampa a cura di Nuove Edizioni Barbaro, Delianuova 2002, pag. 303.

venerdì 29 novembre 2019

Fiordaliso. Morire a 18 anni “di” ospedale


Fiordaliso è Stefano Terranova, con la sua giacca rosa, il ciuffo ribelle, gli auricolari alle orecchie. Secondo un’antica leggenda, il fiordaliso è il fiore dell’amore perduto. Stefano è un amore perduto per i suoi genitori, il fratello, gli amici, la comunità di Sant’Angelo di Brolo. Un fiore reciso a diciotto anni: morto “di” ospedale, come sottolinea il titolo del libro-denuncia di Maria Azzurra Ridolfo. Un libro necessario, nonostante sul procedimento penale incomba la prescrizione, dopo sei anni di rimpalli da un tribunale all’altro e lungaggini burocratiche assurde.
Sin dal primo momento la famiglia di Stefano ha urlato la propria sete di verità su quanto avvenuto. Verità, non vendetta. Perché Stefano non è morto a causa dell’anomalia vascolare congenita per la quale era stato ricoverato e operato. L’intervento era riuscito perfettamente, un vero miracolo. Stefano è morto per le complicazioni sorte in seguito, a causa della negligenza dei medici: “ha avuto – commenta lo scrittore Alfio Caruso nella prefazione al libro – l’amaro privilegio di conoscere il miele e il fiele dell’assistenza sanitaria nel nostro paese”.
Il libro ripercorre le tappe dolorose della via crucis toccata in sorte ad un ragazzo brillante ed estroverso, prossimo alla maturità e con la gioia di vivere impressa sul volto. A diciotto anni non si pensa alla morte. Là fuori c’è tutto un mondo che aspetta di essere addentato e gustato, come un frutto succoso.
Azzurra Ridolfo ridà a Stefano la voce persa dal giovane nell’ultimo mese di vita. Lo fa raccontando in prima persona e rispondendo, dalle pagine del libro, “al silenzio delle istituzioni”.
L’autrice riesce a tenere bene in equilibrio i diversi registri narrativi del libro: le rasoiate di vita di un adolescente un po’ “folle”, ma poetico alla vista della Guardiola di Piraino o sulle ali della sua bicicletta, con lo studio scrupoloso delle schede cliniche e dell’incartamento legale.
Il lettore viene accompagnato in una repentina e inarrestabile corsa verso l’abisso. Le condizioni di Stefano si aggravano giorno dopo giorno, proprio quando sembra che il peggio sia passato. Nessuno si accorge di niente, nessuno si chiede niente, nessuno fa niente: «Sono come uno scarabeo che ha la sventura di ritrovarsi sul dorso e agita confusamente le zampine per chiedere aiuto, che nessuno gli darà. E morirà così, con la pancia in aria».
Stefano muore il 2 giugno 2013: da allora, la sua famiglia non ha mai smesso di cercare verità e giustizia. Il libro di Azzurra Ridolfo è l’ennesimo tentativo di sfondare il muro di silenzio e di indifferenza innalzato intorno alla vicenda. Proprio per questo è necessario, “affinché ciascuno – prendiamo in prestito le parole di Alfio Caruso – possa sentirsi parte di una grande battaglia di civiltà”.

mercoledì 20 novembre 2019

Sciascia l'eretico


Arrivai a Sciascia perché indirizzato dal mio professore di storia e filosofia, Rosario Monterosso, al quale devo questo e tanti altri utili suggerimenti di lettura. Il “maestro di Regalpetra” (felice titolo della biografia di Matteo Collura) era morto da poco: proprio oggi ricorre il trentennale, salutato in libreria dall’uscita di “Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un siciliano scomodo”, scritto dal giornalista del “Corriere della Sera” Felice Cavallaro. Un ritratto dell’uomo e dello scrittore ricco di fatti e di ricordi personali, iniziati grazie all’amicizia che legava lo scrittore di Racalmuto al padre dell’autore del libro, vicini di casa in contrada Noce.
Sciascia fu per me una rivelazione. Un intellettuale scomodo che coltivava l’arte del dubbio; un illuminista (ah, il suo adorato Voltaire!) che nella scelta tra verità e ragione di partito non ha dubbi da quale parte stare. Così come non ce ne dovrebbero essere nella scelta tra uno Scalfari engagé e uno Sciascia che professa una sola religione: la ricerca della verità e la difesa del diritto, delle regole, della Costituzione (Gesualdo Bufalino ha definito l’opera di Sciascia “un unico grande libro sulla giustizia”). Anche a costo di mettere in discussione e troncare solidissimi rapporti di amicizia, come accadde con il pittore Renato Guttuso. D’altronde, tacere la verità non può mai essere un merito: tema affrontato in “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia” e ne “La scomparsa di Maiorana”, che scopre anche il nervo del rapporto tra scienza, potere e morale.
Sciascia fu intellettuale tanto disorganico e controcorrente, quanto profetico. Per questo non poteva che finire male la sua esperienza nel Partito comunista ingessato degli anni Sessanta e Settanta, con l’appiattimento e la confusione tra governo e opposizione sublimate in quel compromesso storico che Sciascia denunciò prima ancora che fosse realizzato, ne “Il contesto” e in “Todo modo”.
Le sue “profezie” si sarebbero purtroppo realizzate, anche se il suo pessimismo lo faceva andare oltre la pur magra consolazione di avere avuto ragione: «Mi sembra di aggirarmi nella realtà italiana, non come un veggente, ma come un fantasma». Perché Sciascia ha spesso indicato ciò che non si voleva vedere, a cominciare dalla “linea della palma” ogni anno sempre più a nord, dalla mafia che si sviluppa dentro lo Stato, dalla corruzione in anni in cui non se ne poteva parlare o lo si faceva quasi di nascosto. E poi le sue tre grandi “ossessioni”: il caso Moro, con la furibonda polemica sorta attorno ad una frase estrapolata da una sua dichiarazione (“né con lo Stato, né con le Brigate rosse); il caso Tortora, con il pubblico ludibrio e la gogna che sollevano anche il tema della responsabilità civile dei magistrati; la questione dei “professionisti dell’antimafia”, il pericolo di un’antimafia opportunista e di facciata che diventa essa stessa strumento di potere.
“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” è la frase sibillina del commediografo e scrittore francese Auguste de Villiers de L’Isle-Adam che Sciascia volle come epitaffio sulla sua tomba di ateo sempre in cerca della verità.
 

lunedì 4 novembre 2019

4 novembre 1918


Quando iniziai la ricerca sui soldati di Sant’Eufemia che presero parte alla Prima guerra mondiale mi affascinava la possibilità di andare oltre le fredde statistiche, comunque inesistenti ad esclusione del totale delle vittime e dei relativi nominativi, desumibili dai nominativi riportati sul monumento dei caduti. Pochi dati, peraltro inesatti, a cominciare dal numero dei caduti. Ma non si trattava soltanto di questo. Ai numeri – noti o meno che fossero – volevo dare un nome, un cognome e un’età. Disegnarli sul foglio: altezza, colore dei capelli e degli occhi, colorito del viso, segni particolari. Conoscere la vita che avevano in paese. E poi fare uno sforzo in più: affiancarli mentre partivano per il fronte e stare con loro sul Carso o sull’altopiano di Asiago, sul fronte francese o su quello balcanico. Soffrire nel freddo delle trincee, affamato come loro quando i rifornimenti tardavano ad arrivare o non arrivavano per niente. Patire gli stenti dei campi di prigionia. Vivere anch’io il dramma e gli orrori di quella immane carneficina. I boati delle cannonate, la pioggia degli shrapnel, i gas asfissianti. La follia degli attacchi “in salita” per conquistare una cima, mentre dall’alto le mitragliatrici del nemico si esercitavano in un facilissimo tiro al bersaglio. Respirare il tanfo dei cadaveri in putrefazione, nei campi di battaglia ridotti a paesaggio lunare. Sentire con le mie orecchie i lamenti dei feriti e le urla disumane degli amputati (“sembrava che scannassero maiali”); poggiare la mia mano sulla fronte degli ammalati, nei lettini degli ospedali da campo. Trascorrere i miei anni migliori con la morte accanto, come era capitato in sorte a loro. Questo volevo.
Ricordare è un atto di giustizia, fare memoria significa riconoscere pari dignità alle piccole/grandi pagine di storia scritte dai nostri avi. Staccare dalle ragnatele del tempo le loro vite, tirare fuori dall’ombra dell’oblio quei 580 giovani di Sant’Eufemia spediti in posti a loro sconosciuti: contadini, pastori, calzolai, falegnami, mulattieri.
Quei fanti erano i nostri nonni e furono mandati al macello. Si beccarono polmoniti, malaria, infezioni intestinali, il congelamento degli arti. Furono fatti prigionieri (72), furono feriti (130) e in 88 morirono (più un fucilato per diserzione): 39 caddero sul campo di battaglia (11 dei quali dispersi), 15 in seguito alle ferite riportate in combattimento, 5 per gli effetti dei gas asfissianti, 6 nei campi di prigionia, 21 per malattia, 2 per infortunio.
 

sabato 2 novembre 2019

L'abate Giuseppe Maria Muscari da Sant'Eufemia


Giuseppe Maria Muscari nacque a Sant’Eufemia d’Aspromonte (all’epoca Sant’Eufemia di Sinopoli) il 15 luglio 1713. Dopo la prima educazione, ricevuta dai genitori, entrò nel monastero basiliano di Sant’Eufemia, dove completò gli studi e vestì l’abito monastico. Promosso prima lettore e poi maestro in teologia, esercitò in seguito la sua carica presso diversi conventi. Durante la permanenza nel monastero Mater Domini di Nocera Inferiore entrò in amicizia con Alfonso Maria de Liguori (1697-1787), il fondatore della congregazione del Santissimo Redentore (1732) che fu proclamato santo (1839) e dottore della Chiesa (1870). Il rapporto tra i due fu molto stretto: in una ristampa del suo “Breve dissertazione dell’uso moderato dell’opinione probabile” (1773, la prima edizione era del 1762), il futuro Sant’Alfonso pubblicò due lettere dell’abate Muscari e lo definì “uomo di molta dottrina, il quale è stato prima lettore di teologia”. Muscari fu al fianco di monsignor de Liguori nelle missioni apostoliche e nella direzione della congregazione del Redentore. Per molti anni resse il monastero di San Nicola di Calamizzi (Reggio Calabria) e il convento di San Bartolomeo a Sant’Eufemia, entrambi distrutti dal terremoto del 1783.
In una delle sue diverse opere dedicate agli “uomini celebri di tutti i secoli e di tutte le nazioni” (1825), Gioacchino Maria Olivier-Poli scrive che “le vaste cognizioni di che era fornito l’abate Muscari e le onorevoli fatiche da lui sostenute a pro del suo istituto, lo fecero nominare da questo deffinitore [segretario] per ben tre volte, visitatore, e finalmente, nel 1781, procuratore generale con la residenza in Roma, ove di fatti si condusse in quell’anno stesso. Il Papa Pio VI [Giovanni Angelo Braschi, pontefice dal 1775 al 1799], che di lui facea molta stima, lo creò abate perpetuo di S. Basilio di quella metropoli, commissario generale e visitatore apostolico del suo ordine”.
L’abate Muscari fu personalità di primo piano nel panorama culturale e dottrinario del tempo. Più volte gli fu proposta la nomina a vescovo, che tuttavia rifiutò a causa della sordità che lo aveva colpito.
Particolarmente significativa la sua battaglia, condotta insieme all’abate Francesco Spadea, contro l’abate Antonio Jerocades, massone e giacobino. Lo storico Gaetano Cingari (“Giacobini e Sanfedisti in Calabria nel 1799”) menziona la “Risposta del P. Abate D. G. Muscari, procuratore generale dei Basiliani alla lettera scrittagli dal sacerdote D. Antonio Jerocades inserita nell’opuscolo da lui stampato in Napoli col titolo di Gigantomachia” (Roma, 1791), opuscolo al quale fa riferimento, nel 1793, anche il “Giornale Ecclesiastico di Roma”. Ma sono molte altre le sue opere, alcune delle quali pubblicate. Si tratta per lo più di scritti che avevano come argomento questioni dottrinarie e traduzioni di salmi e cantici dal latino e dal greco; mentre è andato perduto un suo poema sul terremoto del 1783. Morì a Roma il 30 luglio 1793.

sabato 26 ottobre 2019

Corri, divertiti, sii felice



Chissà se per te sarà un ricordo speciale quel pomeriggio trascorso insieme, da rinnovare con il sorriso che i grandi riservano agli episodi della propria fanciullezza; con la tenerezza che suscitano l’innocenza e la capacità di gioire per ogni apparente piccola cosa.
La tua prima volta in un campetto di calcio. Il pallone che sembra sfuggire veloce e il rettangolo verde una distesa vastissima per i tuoi pochi anni.
Tranquillo, sono qua. Il viso contro la recinzione, osservo la tua corsa inizialmente defilata rispetto agli altri. È tutto nuovo per te, giochi e bambini: è per quello, credo. Ogni tanto ti giri verso di me. Per essere guardato, per essere rassicurato dalla mia sola presenza. Mi piace la sensazione di questa tua assoluta fiducia in me, che sto fuori ma ci sono. Pronto eventualmente ad intervenire, come un supereroe invincibile.
Sono qua, e tu sei bellissimo con quelle gambette.
Sei bellissimo quando vai avanti e indietro, e ogni tanto ti fermi per prendere fiato.
Sei bellissimo quando mi corri incontro e ti aggrappi al mio collo.
Sei bellissimo quando mi racconti le tue impressioni su questa nuova scoperta.
Sei bellissimo quando ascolti le mie parole.
Perché, vedi, è vero che hai segnato “da solo”, calciando un calcio di rigore, mentre non ci sei riuscito quando giocavi con tutti gli altri.
Capita, quando il campo è troppo grande o se non ci si trova in una condizione favorevole; se ti trovi lontano dalla porta, ad esempio.
La vita dei grandi è uguale. Le difficoltà dipendono anche là dalle dimensioni del campo e dalla posizione che si occupa. Non si segna sempre. A volte si è addirittura capaci di fallirli i calci di rigore. E comunque ci sono gli altri, bisogna farci i conti: nel bene e nel male.
Eri contento per avere dato il “cinque” al compagno goleador. È una grande virtù riuscire a gioire dei successi di un amico o di una persona cara. Purtroppo non sempre è così, in futuro avrai modo di verificarlo tu stesso.
Ti sei divertito, sei stato felice: conta solo questo, ricordalo. Anche fuori dal rettangolo di gioco.

domenica 20 ottobre 2019

Dote e corredo in un contratto nuziale del 1800


Nel 1975 la riforma del diritto di famiglia ha abrogato l’istituto della dote, risalente al diritto romano. Pur tralasciando gli aspetti giuridici di tale antica tradizione, la lettura dei “contratti nuziali” suggerisce qualche riflessione sui cambiamenti sociali intercorsi non rispetto a millenni fa, ma soltanto a “ieri”, se si considera quanto relativamente vicino a noi siano quei tempi. Ciò vale un po’ per tutto, come costatazione generale: si pensi a quanto la società è cambiata nel campo del progresso tecnologico, mentre fino all’Ottocento la realtà – tutto sommato – era rimasta immobile per secoli. Per non dire dello sconvolgente ed impetuoso sviluppo digitale dell’ultimo trentennio. Chi c’era negli anni Ottanta, faccia caso a quante cose riesce a fare oggi – e in quanto poco tempo – semplicemente con il colpettino di un polpastrello sul display di un telefonino.
Il matrimonio per secoli è stato sempre uguale. I contratti nuziali venivano redatti davanti ad un notaio, alla presenza di parenti e testimoni. Il primo contratto nuziale redatto dal notaio Antonino Brancati è datato 23 marzo 1800 [Archivio di Stato di Palmi, b.39 – anni 1800-1811]: Antonia Calarco di San Roberto è definita “vergine in capillis”, espressione che indicava un’adolescente in età da marito o una donna ancora nubile: solo loro potevano infatti andare in giro con il capo scoperto, a differenze delle donne sposate che dovevano coprirlo con un foulard (“u muccaturi”).
La madre Anna Maria Calabrese (il padre, Antonio, era deceduto) dota la figlia di diversi beni, tra i quali: tre “saje”, due delle quali usate; due “giupponi” (“jippuni” o “iuppuni”: camicetta), uno nuovo color turchino, l’altro di vellutino blu usato; quattro tovaglie, una di mussolina (“musulina”: tessuto leggero, in genere di cotone) e tre di tela; cinque camicie, una di frandina (tessuto ottenuto dalla lana) e quattro di tela; tre cuffie, due di seta ed una di calamo; due paia di scarpe “a papuzze” (colori verde e nero); due paia di lenzuola di tela nuovi; una coperta bianca di cotone; un “anteletto” (avanti letto: più che come ornamento, serviva per non fare vedere ciò che c’era sotto il tetto); due “saladde” (tela ruvida in genere usata come coperta); due paia di cuscini, uno di frandina e l’altro “lestiato” (lino e cotone); una mutanda, un corpetto di calamo e seta, un paio di calzette di calamo; trenta ducati in contanti, più altri trenta alla morte di uno zio (venti) e della nonna (dieci) materna; per lo sposo un paio di mutande di tela “fimmanella”, un “gilecco” (gilet), un paio di calzini di calamo, un fazzoletto di tela, un paio di bottoncini.
Nunziata Tripodi, madre di Rosario Panuccio di Sant’Eufemia, “per l’amore che porta al medesimo”, dota anch’essa i futuri sposi di diversi beni. Per lo sposo: “un paio di vestimenti di vellutino a color acquamare usato”, un altro paio “di panno a color turchino usato”, cinque paia di mutande di tela usate; per la sposa: “un sajo di seta usata di color turchino”, “un giuppunetto di seta a color cremisi”, “un paio di pater noster di pietra, con la medaglia a filograna”, un paio di bottoncini d’argento, un puntale d’argento, diciassette ducati d’oro lavorato; un paio di fibbie d’argento “del valore di ducati tre”, metà casa “fintantoché non si farà una commoda abitazione per essi futuri sposi, a spese communi d’essa Nunziata e d’esso Rosario, di quella parte che piace a Donna Nunziata”. Poi una serie di oggetti utilissimi: una cassa vuota, una paletta, un tripode e quattro “zapponi”.
Era tanto? Era poco? Quel che è certo è che non tutti i novelli sposi stipulavano un contratto nuziale, visto che soltanto una ristretta minoranza possedeva qualcosa da portare in dote.

mercoledì 16 ottobre 2019

16 ottobre 1943



Venti minuti di tempo, mentre fuori rombano le camionette naziste. Milleduecento maledetti secondi per chiudere in una valigetta effetti personali e biancheria, bicchieri, denaro e gioielli, viveri per otto giorni, tessere annonarie e carte d’identità. Per vedersi passare davanti agli occhi la propria vita, per sentire sotto le narici il terrore del futuro. Per non fare piangere i bambini e per organizzare il trasporto degli infermi: “anche casi gravissimi non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova sul campo”, la menzogna atroce e vigliacca.
Il 16 ottobre 1943 viene ricordato come il “sabato nero”: alle prime ore del mattino inizia il rastrellamento degli ebrei di Roma, la maggior parte residente nel quartiere ebraico. Dei 1024 stipati in 18 vagoni piombati e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz faranno ritorno a casa soltanto 15 uomini e una donna. Tutti gli altri, compresi 207 bambini, verranno “passati per il camino” e, da allora, “sono nel vento”.
Alla vicenda del rastrellamento del ghetto ebraico, raccontata da Giacomo Debenedetti nel suo “16 ottobre 1943”, l’anno scorso Alberto Angela dedicò una toccante puntata del suo programma “Ulisse: il piacere della scoperta”, dal titolo “Viaggio senza ritorno”.
«C’è sempre il rischio che i volti bui della Storia riappaiano» - mise in guardia Angela in quella circostanza. «Meditate che questo è stato:/ vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/ stando in casa, andando per via,/ coricandovi, alzandovi;/ ripetetele ai vostri figli./ O vi si sfaccia la casa,/ la malattia vi impedisca,/ i vostri nati torcano il viso da voi» - l’anatema di Primo Levi.
È stato, e non per caso, anche in Italia. Nella patria del diritto. Perché si fa presto a dire “italiani brava gente”. Come se i cattivi siano stati gli altri e noi, in fondo, non avessimo niente da spartire con gli orrori di una guerra alla quale il 10 giugno 1940 avevamo aderito con entusiasmo, osannanti sotto il balcone di Palazzo Venezia.
Italiani brava gente. Come se non avessimo già vissuto la vergogna delle leggi razziali, l’abominio fascista avallato da Vittorio Emanuele III, in una corsa folle verso l’abisso di un disonore senza fine chiamato “provvedimenti per la difesa della razza” e “manifesto della razza”. Come se il boia di via Tasso Herbert Kappler non si fosse servito degli elenchi redatti dall’italianissima polizia fascista per dare esecuzione al progetto di sterminio.
Non è esercizio inutile ricordare cosa successe il 16 ottobre 1943. Fascismo e razzismo appartengono all’album di famiglia della nostra nazione. Non capitò per caso quella tragedia, ma fu il frutto di un odio che attraversa i secoli come un fiume carsico. Quando emerge in superficie individua il “nemico” in base al colore della pelle, al credo religioso, alle inclinazioni sessuali. Ieri come oggi.
La memoria è impegno civile. Salvare le vittime dell’olocausto dall’oblio, ricorda la senatrice Liliana Segre, “non significa soltanto onorare un debito storico verso quei nostri concittadini di allora, ma anche aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno ha verso gli altri”.

mercoledì 9 ottobre 2019

Il femioto Mimì Occhilaudi “u poeta” e le lettere dal fronte nella Grande guerra



Pubblicato sul blog PontI Carta: Il femioto Mimì Occhilaudi “u poeta” e le lettere dal fronte nella Grande guerra

Domenico Occhiuto, meglio conosciuto come Mimì Occhilaudi “u poeta” (Sant’Eufemia d’Aspromonte, 24 giugno 1894 – Reggio Calabria, 2 novembre 1969), fu uomo solitario, che visse con profonda amarezza il mancato riconoscimento del valore letterario delle sue liriche. Proprio per questo è giunta a noi soltanto la selezione di componimenti “Polvere senza pace. Il rogo, la cenere, il vento” (1968) e qualche poesia sparsa, mentre la maggior parte della sua produzione è andata dispersa. Tuttavia, le carte (lettere, appunti, considerazioni) salvate da Agostino Tripodi dopo la morte di Occhilaudi, oggi a disposizione di chi scrive, permettono di comprendere più a fondo il personaggio, ma anche di ricostruire uno spaccato storico-sociale significativo.
Di particolare interesse appaiono le lettere (circa venti) ricevute da Occhilaudi nel periodo della Prima guerra mondiale, alla quale egli stesso partecipò pur non prendendo parte ai combattimenti, a differenza del fratello Francesco, maggiore di tre anni. Quando invia le prime, Francesco ancora si trova a Trapani, dove la sua compagnia sta effettuando l’addestramento. Anche questa fase comporta problematiche di non facile soluzione. Gli serve denaro, che non ha e che richiede con insistenza:
«Io qui sono senza un soldo – si lamenta il 30 gennaio 1916 – e ve l’ho scritto più di una volta e voi altri non la volete capire; in due mesi che io sono qui mi avete mandato lire cinque, che gli altri se li fumano in una settimana […]. Io mi avvilisco: non so cosa devo fare, devo pagare la lavandaia che mi lava la biancheria, e questa è la prima cosa necessaria; si capisce, non devo stare sporco e voi altri questo non lo volete sapere».
Il 13 febbraio spiega in maniera analitica le spese che deve quotidianamente sostenere:
«La mattina ho bisogno di quattro soldi per comprarmi due [soldi] di pane e due di formaggio di qualche cosa perché fino alle undici non sono capace di stare, e sono i primi quattro soldi; poi mi devo cambiare due volte alla settimana se no gli insetti ci succhiano tutto il sangue, e ci vogliono due soldi per una camicia, due soldi per le mutande, due soldi per la maglia ed altre due soldi per le calzette; e sono sedici soldi alla settimana di sola lavanderia, [in] più ci sono i fazzoletti, [le] cravatte e alla sera ho bisogno di mangiare qualche altra cosa: mangiando roba asciutta sempre, ci vogliono quaranta cinquanta centesimi, e questi sono di prima necessità se no la corsa [dell’addestramento] non si può fare. [...] non bastano neanche venti lire al mese facendo molta economia, e invece a voi altri vi sembrano troppo. Se sapessi quanto si soffre!».
Il rancio è pessimo. Francesco scrive al fratello che a pranzo viene distribuita “un po’ di pasta cattiva, che io non la mangio mai (anzi, ho cercato di abituarmi, ma fu impossibile)”, mentre la sera, dopo un giorno di dura esercitazione, a soldati “più stanchi che vivi” tocca soltanto “un po’ di brodo”. La giornata tipo inizia alle sei con la sveglia e, subito dopo la rassegna, “via di corsa per mezzora di continuo; poi ci fanno andare un po’ al passo e poi di nuovo di corsa fino alle undici; a mezzogiorno di nuovo in riga e fino alle due di passo e di corsa; poi dieci minuti di riposo e da capo fino alle quattro [per] fare istruzione di guerra”. Le cose non vanno meglio di notte. Riposare è quasi impossibile, a causa della presenza di cimici e pidocchi. Sempre il 30 gennaio Francesco scrive che “qui si patisce molto, specialmente per il dormire: abbiamo un pagliericcio con poca paglia e una coperta e niente più, senza lenzuola e per terra; io ho le carni tutte che mi bruciano”. Il 13 febbraio precisa:
«Devo dormire per terra con un po’ di paglia, senza lenzuola, vestito in mezzo ai pidocchi che ce n’è così tanti che alla notte non ci lasciano dormire: ce la facciamo sempre grattando e abbiamo il corpo tutto scorticato; questo succede perché siamo ammassati come le pecore, in una camera che in tempo di pace dormivano nove soldati, adesso ne dormono diciannove-venti, ed è appunto per questo [che] c’è tanti insetti».
Ci si consola considerando che “ce n’è tanti alla frontiera [fronte] che patiscono più di noi” e ripetendo che “qualche volta [la guerra] deve finire: così [ci] facciamo coraggio”, anche se proprio in quei giorni i primi commilitoni vengono spediti nelle zone dei combattimenti:
«Qui si incomincia a mandare soldati della nostra compagnia alla frontiera a sorteggio e chi esce deve partire».
Qualche mese dopo lo stesso Mimì, che l’anno precedente era stato riformato, viene dichiarato abile ai servizi sedentari e arruolato con la mansione di telegrafista. Il 16 luglio 1916 da Bagnara Annunziatina Dato gli scrive una lettera che fa capire quanto la propaganda e la retorica patriottica fossero diffuse tra la popolazione:
«Nell’ora presente la Patria ha bisogno di sacrificio, di entusiasmo ed io benché non avete bisogno di esortazione pure sento il desiderio di incoraggiarvi; forse non sarete destinato ad andare lassù (anzi ve lo auguro di cuore), forse non farete conoscenza col rombo [del cannone] con le palle che incessantemente fischiano mietendo vittime e avvolgono in un turbine vertiginoso tante giovine esistenze. Quante vite sacrificate; quanto sangue non scorre a bagnare ed inzuppare quelle vette? Ah! Cari giovani che sulle alte vette del Trentino e sul Carso sarete destinati a versare il vostro sangue per la grandezza e la libertà della Patria nostra pugnate con coraggio, fidate nella forza Divina e la vittoria sarà nostra. Il nostro secolare nemico sarà scacciato dalle nostre terre: sì, dovrà abbandonare e per sempre ciò che non gli appartiene; la sua tirannia dovrà spezzarsi».
Annunziatina riferisce che Francesco in Trentino ha anche assistito ad un bombardamento “di circa 16 ore continue” e si augura “che finisca presto quest’immane flagello, che ritorni ovunque la tranquillità e la sospirata pace”. Scrive il 16 luglio, il giorno della Madonna del Carmine (“Sì, la Madonna impetrerà la pace: oggi è la sua festa, si è tanto pregato per questa benedetta pace. Potrà non ascoltarci?”), alla quale lei stessa ha espresso un voto:
«Riderete di una promessa che abbiamo fatto insieme a Rosina? Sapete qual è? Che se la guerra ci risparmierà tutti coloro che ci appartenete, andremo alla Madonna della montagna. È un’esagerazione ma pure potete immaginare il nostro desiderio che tutti potrete ben presto ritornare sani e salvi in famiglia».
Il 7 febbraio 1918 Francesco scrive a Mimì da San Nazario (Vicenza), dove si trova di passaggio. Dopo la disfatta di Caporetto, nell’esercito regna ancora un po’ di confusione. Lui è destinato al Corpo d’armata italiano in Francia, che si sta organizzando proprio in quei giorni:
«Per adesso mi trovo in marcia, per questa sera mi trovo in questo paese, ma domani si va via. Facciamo due giorni di marcia e uno di riposo. Andiamo sul lago di Garda e poi di là ci portano in Francia. Non c’è mai fine con questa ritirata […]; ci stanno facendo girare l’Italia a piedi, palmo per palmo». Le notizie che giungono a Mimì dal paese non sono allegre. Non c’è infatti soltanto la guerra a mietere vittime: si muore anche di “spagnola”, l’epidemia influenzale che in Italia causa circa 400.000 vittime nel biennio 1918-19. Il 12 ottobre sua zia Angela gli fa sapere che Saruzza, la sorella di Mimì affetta da malattia mentale (in quel periodo ricoverata nel manicomio di Palermo), “ha preso anche lei la malattia spagnola, ma in grazia di Dio si è quasi ristabilita di questa maledetta malattia ed è convalescente”. A Sant’Eufemia la situazione è però un po’ migliorata rispetto a pochi mesi prima: «Da noi si è alquanto allontanata, ma sempre ne muoiono ancora 3 e 4 al giorno, mentre ci furono i giorni di 13 e 14».
Nel 1941 Bruno Gioffrè avrebbe rievocato quel periodo drammatico nell’autobiografico “Quarant’anni in condotta”:
«Ottanta martiri diede al mio paese la guerra in tre anni e mezzo: più di duecento il grippe settico, detto volgarmente la spagnuola, in meno di tre mesi! E che fatiche e che ansie! Centinaia di casi al giorno, tutti gravissimi, diffusione fulminea da casa a casa, da quartiere a quartiere. […] I cadaveri restavano in casa per più giorni, e lo sconforto avviliva gli animi anche più forti».
Cattive notizie provengono infine anche dal fronte economico, piegato dall’annata disastrosa del raccolto delle olive e delle mele:
«Ulive per quest’anno non ce ne sono; […] mele ce n’erano, [ma] siccome son passati sei mesi senza piovere un’ora, restarono tanto piccine che servirono due parti per i maiali e una per i cristiani».
Ma la zia è donna di fede, per nulla incline allo scoraggiamento e pronta a sopportare tutto. Per cui, anche se la qualità delle mele non è eccelsa e poche sono quelle mangiabili, Angela Occhiuto conclude la lettera con le speranzose parole “sempre si ringrazia Dio che ce li fa provare”.

*Avvertenza: sui brani tratti dalle lettere si è reso necessario un minimo di correzione, in modo da rendere il testo più fluido e comprensibile. Sono intervenuto esclusivamente sulla punteggiatura, che era praticamente inesistente, e sugli errori ortografici più macroscopici.

venerdì 27 settembre 2019

Oliverio sì, Oliverio no



Da mesi e mesi il quadro politico del centrosinistra calabrese è avvitato sul quesito “Oliverio Sì – Oliverio No”. Non proprio uno spettacolo edificante. Messa così la vicenda si presenta come una questione personale, più che politica. E forse lo è. La gestione del Partito democratico in Calabria nella legislatura che si sta per concludere è stata fallimentare. Lo certifica la fuga di diversi consiglieri regionali e di personalità che in questo quinquennio vi hanno giocato un ruolo di primo piano. I nomi di questi signori è possibile verificarli nelle cronache politiche di questi ultimi mesi, caratterizzati da copiose transumanze e dal fiorire di associazioni e movimenti che ruotano attorno ai fuorusciti, ovviamente già collocati o in cerca di collocazione in altri più accoglienti e (prevedono) vincenti lidi.
D’altronde, quando ciò che tiene insieme è soltanto il potere, quando manca la visione su ciò che si è, su ciò che si vuole fare e a vantaggio di chi, un partito finisce col diventare il contenitore di un pastone indigeribile.
Leggo di dirigenti del partito che ora, soltanto ora, chiedono una discussione. Giusto, giustissimo. Tuttavia, mi chiedo dove fossero questi dirigenti quando gli si faceva notare lo snaturamento del Pd, che si era consegnato al peggior trasformismo locale e aveva mortificato la storia di esperienze genuine. Allora si preferì mettere la testa sotto la sabbia e pensare che uno meno uno avrebbe dato zero: insomma, non sarebbe cambiato niente. E invece no: la matematica della politica poggia su teoremi più complessi. Fatto sta che chi è stato mortificato si è allontanato, chi vi era entrato per opportunismo ha abbandonato la nave alla prima onda leggermente più alta. Tutto questo è avvenuto senza che vi sia stata un reale dibattito, a nessun livello, e calpestando le più elementari regole democratiche (ad esempio nei tesseramenti).
E però… quando la finiremo di essere trattati come colonia? Sul principio che a decidere debbano essere gli elettori di centrosinistra della Calabria non dovrebbero esserci dubbi. Solo su questo mi sento di essere d’accordo con i sostenitori di Oliverio, al quale già la volta scorsa fu fatto di tutto per impedirne la candidatura. Lo affermo da ex sostenitore dello stesso Oliverio che in quell’occasione dovette pagare un prezzo altissimo, politicamente ma anche in termini di rapporti personali. Da presidente di un seggio delle primarie che dovette ingoiare la sfilata di votanti assurdi. Guarda caso, il candidato a governatore che sostenevano è oggi schierato apertamente con il centrodestra.
Ma non è questo il tema. È un altro ed ha a che fare con valori democratici che bisognerebbe sempre tenere in mente. Piaccia o no (personalmente non mi entusiasma), quella di Oliverio è l’unica candidatura in campo, alla luce del sole, che non vive nelle ombre dei palazzi romani. Se ci sono altri che legittimamente aspirano alla candidatura si facciano avanti e non si nascondano dietro le indicazioni interessate del partito nazionale. Non si può essere democratici a giorni alterni, un giorno invocare le primarie e un’altra volta impedirle. Perché l’antipolitica ingrassa proprio laddove la politica non riesce ad essere credibile.

sabato 21 settembre 2019

Socialisti senza partito

Noi socialisti senza partito ci riconosciamo da alcuni piccoli dettagli. Ad esempio, dalla presenza nelle nostre librerie dell’Almanacco socialista pubblicato in occasione dei 90 anni del Psi. Il sottotitolo recita “Cronistoria, schede, commenti, documentazione sul socialismo italiano”: ed è una storia della quale io personalmente vado orgoglioso. Anche se dopo la tempesta del 1992-94 ognuno di noi ha preso strade diverse, nelle case che ci hanno accolto abbiamo sempre provato disagio. Come quegli ospiti che hanno l’impressione di non essere molto graditi e ricambiano con altrettanto fastidio. La diaspora non si è mai conclusa: noi socialisti siamo anime erranti con sola bussola la forza di idee e valori che sentiamo ancora vivi, nonostante non li abbiamo ritrovati compiutamente da nessuna parte. Ci accomuna la rivendicazione delle lotte e delle conquiste che quel partito seppe condurre per l’emancipazione politica e sociale del popolo italiano.
A me piace inseguire con la mente il lungo filo rosso che inizia con le lotte di Andrea Costa per la libertà di opinione e di associazione, per il diritto di sciopero e per la giustizia sociale in un’epoca in cui la legislazione del lavoro sostanzialmente non esisteva. Tutte cose che oggi diamo per scontate e delle quali, proprio per questo, non riusciamo a cogliere l’importanza. D’altronde i nomi luminosi di Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Antonio Labriola oggi non dicono quasi niente. Le lotte per la democrazia con i suoi martiri della libertà le abbiamo dimenticate: provate a chiedere chi furono Giacomo Matteotti o Bruno Buozzi. Eppure, viviamo in un paese libero grazie alla generazione dei socialisti che tra le due guerre non ebbe paura di sacrificare tutto ciò che aveva nella lotta contro la dittatura fascista: Pietro Nenni, Sandro Pertini e tantissimi eroi anonimi, uccisi o finiti al confino per un ideale.
Dopo la conquista della libertà, giunse il tempo di raggiungere livelli più avanzati di democrazia: lo Statuto dei lavoratori di Giacomo Brodolini e Gino Giugni, la legge sul divorzio di Loris Fortuna. Nel solco di quel riformismo che è stato il tratto prevalente nella storia del socialismo italiano e che negli anni Ottanta produsse l’unico concreto ed organico tentativo di modernizzazione del Paese, a partire dal suo assetto istituzionale.
Quella che portò al crollo della Prima Repubblica fu una crisi “di sistema” e la via giudiziaria al suo superamento fu una comoda scorciatoia per evitare di affrontare politicamente i veri nodi di quella vicenda, in primis la questione del finanziamento della politica, sollevata da Bettino Craxi con un discorso storico alla Camera il 3 luglio 1992, che nessuno in Parlamento osò controbattere.
Occorrerà ancora del tempo prima che su quella stagione si possa pronunciare un giudizio obiettivo, scevro da cedimenti emotivi. D’altronde, la contemporaneità è un limite quando si scrive di storia.
Non so se ha ancora senso l’esistenza di un partito socialista. So però che ha ancora senso lottare per la libertà e per la giustizia sociale, continuare a credere con Nenni che “il socialismo è portare avanti tutti quelli che sono nati indietro”.

sabato 14 settembre 2019

Le donne e la Grande Guerra

Tra le carte di Domenico Occhiuto Laudi di particolare interesse sono una ventina di lettere che il fratello Francesco gli scrive tra il 1914 e il 1919, periodo in cui si trova sotto le armi per l’addestramento, la partecipazione alla Prima guerra mondiale e il congedo dopo la smobilitazione, a conflitto terminato. Di queste lettere però scriverò in un’altra occasione.
Oggi parlerò del “retro” della lettera datata 5 agosto 1918. Sì, proprio del retro, che è quello che vedete in foto. Non sempre infatti, al fronte si aveva grande disponibilità di carta per scrivere, per cui ci si arrangiava con quello che il convento passava. In questo caso, Francesco utilizza come carta da corrispondenza il retro di un volantino della propaganda italiana.
La Prima guerra mondiale è “mondiale” non solo per l’alto numero di Paesi belligeranti: è mondiale anche perché essa coinvolge settori della società che fino ad allora erano rimasti ai margini dei conflitti. La Grande Guerra segna l’ingresso delle donne nella storia, dalla quale fino ad allora erano state escluse. Le donne sostituiscono gli uomini impegnati al fronte, nelle fabbriche, nei campi, nei luoghi di lavoro; sono infermiere e crocerossine nelle retrovie e negli ospedali da campo. Diventano, insomma, protagoniste.
Un ruolo significativo lo giocano nello sforzo propagandistico di sostegno alla guerra, con appelli come questo dell’Associazione Madri dei combattenti”, i cui comitati sorsero in tutte le maggiori città italiane con lo scopo di “tener alto il morale dei combattenti al fronte, con un’azione fatta di affettuoso, intenso incoraggiamento”.
L’appello del 12 marzo 1918 giunge nel momento cruciale della guerra. L’esercito italiano si era appena riorganizzato dopo la tremenda disfatta di Caporetto. Di lì a poco la “battaglia del Solstizio” (giugno 1918) avrebbe fermato sul Monte Grappa e sul Piave l’ultima grande offensiva dell’esercito austroungarico e preparato la controffensiva finale conclusasi con il trionfo di Vittorio Veneto.
In un’ora così importante per le sorti del conflitto le madri esortano i figli a combattere “per la salvezza e per la grandezza d’Italia”: «Noi non vi pensiamo uniti alla visione della morte! No: noi vi pensiamo uniti alla gloria, all’Immortalità. Perché il cuore di ogni madre italiana, anche se sanguinante, anche se dilaniato, esulta del valore di tanti figli, vi benedice, vi ama di raddoppiato amore e, preparato a tutto sopportare purché l’Italia sia salva e grande, purché il domani arrechi una Pace di Civiltà e di Giustizia, invoca da voi, o figli adorati e lontani, la liberazione del sacro suolo della Patria dall’aborrito nemico!».

domenica 8 settembre 2019

Tempo di partenze



Partono senz’allegria. Partono senza dolore. Sanno che si deve, come la medicina che va presa nonostante il suo sapore amaro. È una storia che si ripete, che si tramanda come gli occhi scuri o le spalle larghe. Sono le strade dei nostri nonni, dei nostri genitori. Di quelli rimasti a casa di Cristo e sepolti lontani. Di quelli tornati per i propri figli, perché a loro fossero risparmiati gli addii sulle banchine.
Invece no. Si parte ancora. Sui treni, con le auto, in aereo. Come un sortilegio. Giovani con i trolley imbottiti di speranza e adulti con gli occhi bassi della sconfitta. Senza rimpianti, le lacrime asciutte di chi comprende il senso dell’ineluttabilità. Anche il nodo in gola è meno acre. Per chi resta è un dolore sordo, da interpretare. Pensieri cattivi che si vogliono scacciare lontano, come nuvole spazzate dal vento; ed è inutile piangersi addosso. Non è più tempo di lamenti, né di rabbia.
Nessuno che li trattenga; nessuno che sia capace di lanciare lo sguardo al di là del proprio miserabile orizzonte. Terra persa, terra maledetta. Con i suoi tramonti mozzafiato, con il suo mare colore del vino, con i suoi alberi puntati contro il cielo. Terra bella e maledetta. Che non sa afferrare un braccio, che non sa dire “restate”.
È la sconfitta dell’amore. È una condanna ai ricordi e alle videochiamate, sul comodino i sassolini della spiaggia e le fotografie di una favola triste.
Tra poco sarà inverno, la stagione delle lunghe notti. Chissà quanto ancora durerà questo buio, se mai passerà.

martedì 3 settembre 2019

La discarica della discordia



La Gazzetta del Sud di oggi dà notizia della lettera che come gruppo consiliare “Per il bene comune” ieri abbiamo depositato presso il protocollo del Comune. Le vicende della discarica “La Zingara” sono note a tutti; molti nodi, a nostro avviso, sono rimasti irrisolti e sono giustamente causa di forte preoccupazione: proprio per questo crediamo che sia necessario uno sforzo di trasparenza da parte di tutti gli attori e il coinvolgimento della nostra comunità, altrimenti anche questa – come quella dello svincolo – sarà l’ennesima decisione presa passando sopra le teste della popolazione. Di seguito, il testo completo della lettera indirizzata al sindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte e, per conoscenza, al presidente del consiglio comunale e a tutti i consiglieri.

Gentile Sindaco,
ormai da diverso tempo si susseguono voci preoccupanti relative alla prossima apertura della discarica “La Zingara”, ricadente nel territorio di Melicuccà, ma situata pericolosamente nell’entrata del nostro comune. Come lei ben sa, tale eventualità è fonte di giustificata apprensione tra i nostri concittadini, per le possibili nefaste conseguenze ambientali. Già in passato, le popolazioni di Sant’Eufemia e di Bagnara Calabra manifestarono con forza la propria contrarietà: oggi quelle paure riemergono prepotentemente, a fronte di una decisione che la Regione Calabria ha assunto di concerto con l’ATO di riferimento, come emerge anche da recenti notizie di stampa (Il Quotidiano del Sud, 30 agosto 2019).
Abbiamo apprezzato la Sua ferma e contraria presa di posizione, in occasione della riunione tenuta il 30 luglio presso il Dipartimento Ambiente e Territorio della Regione Calabria, presente l’Assessore regionale all’Ambiente, il sindaco di Melicuccà, il vicesindaco del comune di Reggio Calabria, il consigliere regionale Giuseppe Pedà, i dirigenti del dipartimento.
Sui temi della difesa dell’ambiente e della tutela della salute dei nostri concittadini non possono esserci divisioni. Proprio per questo motivo Le chiediamo di farsi promotore di un’iniziativa (un incontro o un consiglio comunale aperto) che coinvolga le realtà associative della nostra comunità e la sua popolazione, per fare il punto della situazione e per valutare quali eventuali azioni possiamo tutti insieme intraprendere per difendere il nostro territorio.

I Consiglieri comunali
Domenico Forgione
Pasquale Napoli

lunedì 26 agosto 2019

Incontro con Domenico Antonio Tripodi, l’artista eufemiese che fa filosofia con i colori



Un fotogramma frequente delle estati eufemiesi ritrae una coppia di anziani coniugi passeggiare per le vie del paese. Domenico Antonio Tripodi e la moglie Eufemia (“Fena”) Borzumato hanno il passo lento e l’occhio attento di chi conosce la storia di Sant’Eufemia e si sofferma per trovare conferme o per commentare le trasformazioni. Ma anche soltanto per incontrare gente, scambiare un saluto e intrecciare i ricordi. Da diversi anni per me estate significa avere la possibilità di conversare con il Maestro Tripodi (“L’Aspromontano”), godere della pacatezza del suo argomentare e della serenità che trasmette il suo eloquio, entrare in punta di piedi nel mondo dell’arte attraverso le sue preziose lezioni. Capire come nasce un artista, cosa lo rende unico, cercare di vedere attraverso i suoi occhi quello che occhi ordinari non riescono a percepire. Tripodi vive a Roma, ma in estate abita nella casa della sua infanzia, tra le poche a resistere al terremoto del 1908, che fu anche bottega di pittura e di scultura e studio fotografico del padre, Carmelo.
La nostra conversazione parte proprio da Carmelo Tripodi.

Cosa significava per un bambino degli anni Trenta-Quaranta vedere come venivano sviluppate le fotografie? 
Ogni tanto mi infilavo nella camera oscura, anche se la mamma [Carmela Giordano] non voleva. Mio padre era un po’ indeciso, ma se vedeva che mi attaccavo ai pantaloni mi trascinava dentro: aggrapparmi alle sue gambe mi rassicurava in quella oscurità. Riuscivo a scorgere qualcosa del suo paziente lavoro, non molto perché non arrivavo al piano su cui operava. Quel buio era misterioso e affascinante.
Con la pittura era diverso? 
Con la pittura era tutto visibile, era all’aperto. Nell’Ottocento erano arrivati ad una sofisticheria che facevano addirittura delle tende, dei pannelli come quelli che si utilizzavano al cinema per ottenere certi riflessi sulla persona che posava. Era molto bello, complesso. Ma mio padre creava anche le statuette del presepe. Osservavo le sue mani lavorare al braciere e poi vedevo uscire fuori le braccia, le gambe, le mani: i personaggi prendevano vita ed io ne ero affascinato.
Come ha iniziato a dipingere? 
Da piccolo, con un carbone rubato dal braciere cercando di non farmi vedere da mia mamma. Eravamo in tempo di guerra e un pezzo di carbone costava. Ricordo quando scappavamo nella galleria [della linea taurense Sinopoli-Gioia Tauro], durante le incursioni aeree degli Alleati. Chi aveva i soldi riusciva a comprarsi la carne, quando c’era o quando ammazzavano gli animali, ma non tutti potevano. Un pezzo di carbone valeva tantissimo per le famiglie di allora.
Cosa disegnava con il pezzo di carbone sottratto dal braciere? 
Avevo la mania di disegnare per terra. La casa aveva i pavimenti in tavola, per cui io con il carbone “andavo a mille”. Mia madre si metteva lì con una scopa in mano, in un angolo, perché sapeva che poi sarebbe toccato a lei pulire. Mio padre seduto al cavalletto, sornione, andava avanti con i suoi lavori: lui aveva capito che ero portato. Così io disegnavo al piano di sopra, ma la stanza era piccola. Non mi bastava tutto il pavimento per completare i miei disegni, per cui spesso la gamba di qualche personaggio “scendeva” sui gradini della scala. Riproducevo per terra quello che mio padre disegnava al cavalletto.
Chi era Carmelo Tripodi? 
Mio padre è stato un artista grandissimo, che va riscoperto. È quello che faccio da diversi anni con il volume a lui dedicato, giunto ora alla terza edizione. Prendiamo ad esempio il suo “Galileo Galilei”, con quel bellissimo gioco di luci. Galileo riflette, studia: forse sta pensando al dissidio tra scienza e religione. Questo quadro mio padre lo dipinse nei primi anni del Novecento. Bisogna pensare a questo: nel 1906 il quadro parte da Sant’Eufemia sul carretto trainato dai muli degli “scandesci” [soprannome di una famiglia dedita al trasporto di cose], attraversa lo stretto e arriva a Palermo, dove viene premiato. Poi parte per Parigi, insieme al disegno “Sant’Antonio Abate”: le due opere vincono tutto quello che c’era da vincere.
Carmelo Tripodi fu iniziato all’arte nella bottega di Giosuè Versace (autore, in particolare, di due tele pregevoli: San Luigi e Santa Chiara), il quale era figlio di Giuseppa Violi, decoratrice dei quadri dei Misteri gaudiosi e gloriosi nella chiesa del Rosario e, a sua volta, figlia di Domenicantonio Violi (suo un quadro dell’Immacolata Concezione). Nella prima metà dell’Ottocento a Sant’Eufemia operarono, inoltre, i fratelli Rocco e Paolino Visalli, a conferma di una tradizione antica e feconda. Un filo rosso che conduce a lei e ai suoi fratelli Graziadei e Agostino.
Sì, la mia formazione e quella dei miei fratelli è stata influenzata molto dalla produzione artistica di nostro padre. A Milano, dove arrivai nel 1953 (prima ero stato a Firenze e Siena, dove avevo molto studiato), ho “incontrato” Cézanne, Van Gogh, Matisse, Gauguin, gli impressionisti. E poi la pittura di Giorgio De Chirico, di Aligi Sassu, che è stato mio grande amico, di Aldo Raimondi. Quell’arte era la mia arte, il mio stile diventa più frastagliato. Gli oggetti, le figure prendono la luce del sole e la riflettono. Mio padre chiude l’Ottocento; io ho cercato di fondere il vecchio con il nuovo. Nei tre periodi della mia produzione artistica ho essenzialmente studiato l’uomo (e il mito); la natura, che ho ritratto nella sua sofferenza: come nel quadro del piccione ferito e morente che raccolsi e portai a casa, a Venezia; infine Dante.
Il filosofo

Il suo quadro più celebre è “Il filosofo”. Ci parli di quest’opera.
Si tratta di un dipinto del 1984 che ha una bella storia. Me l’hanno chiesto in tanti: politici come Amintore Fanfani e Luigi Gui, artisti come Don Backy e Gena Dimitrova, che nel 1986 aveva interpretato il Nabucco alla Scala di Milano. La Dimitrova era particolarmente insistente, ma le dissi: «Chiedimi una costola, ma non questo quadro». In quel periodo tenevo una mostra in via Manzoni, vicino alla Scala. Sul quotidiano “Il Giorno” uscì un articolo con la testa del filosofo in prima pagina. Dopo un paio di giorni mi contattarono da Torino le Edizioni Paoline: «Abbiamo visto la testa del filosofo. Venga perché abbiamo bisogno di lei». Mi recai a Torino cercando di capire il perché di quella necessità assoluta: “la provvidenza”, come mi avevano detto. Erano pronti per mandare in stampa dieci volumi di un’enciclopedia della filosofia e delle religioni e avevano bisogno dell’immagine del mio quadro, poiché in essa avevano visto la rappresentazione del pensiero di Sofocle.
Un motivo di grande orgoglio.
«Tripodi fa filosofia con i colori»: è questo l’orgoglio. Non la copertina in sé. Noi dall’Aspromonte facciamo filosofia, diamo forma fisica al pensiero dei filosofi.
È bella l’espressione “dall’Aspromonte”. Un artista che gira il mondo ed espone i suoi quadri a New York, Tokio, Istanbul, Parigi, Londra, Stoccolma, Mosca porta avanti le proprie radici, le proprie origini. Proprio a Mosca lei ha esposto le opere del ciclo dantesco: quanto studio c’è dietro i 150 quadri dedicati alla Divina Commedia, quanta fatica per riuscire a interpretare Dante e dare forma alla sua poesia?
Monte del Purgatorio

Dante non ti lascia spazio per fare altro, ti prende tutto. Non si smette mai di studiarlo. Da bambino ero affascinato dalle anime del purgatorio dipinte da mio padre. Quelle fiamme lì, con le figure dentro, a quattro-cinque anni mi attraevano. I miei dicono che io mi arrabbiavo perché con il carbone non potevo farle rosse. Mio padre quindi era dantista, conosceva Dante e mi ha trasmesso l’amore lui. Poi l’ho studiato sui banchi di scuola. È una passione che si è sedimentata negli anni ed è maturata piano piano. Interpretare Dante significa anche “andare oltre” Dante e svilupparne in un certo senso il pensiero, così come credo di avere fatto con Manfredi, che Dante colloca nel terzo canto del Purgatorio. Il “mio” Manfredi ha un’espressione di pace e di tranquillità, ha già superato la fase di chi attende di conoscere quale pena dovrà scontare.
In conclusione, a me sembra che il tratto caratteristico della sua produzione artistica sia la convivenza dell’umanesimo con la religione e con la fede. È d’accordo?
Sì, è un equilibrio necessario: c’è l’uomo e c’è la spiritualità. Attraverso i miei lavori cerco di penetrare la materia, la carne: di tirare fuori la sostanza, l’essenza della natura umana. Per questo mi sono messo a lavorare con Dante. Dante ha tessuto una tela di salvezza per lui, ma anche per tutti gli uomini. Il fine ultimo della Cantica del Paradiso, come scrive a Cangrande Della Scala, è quello di rimuovere i viventi dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità. L’artista è uno strumento di Dio, come affermano chiaramente Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Per cui non si può che condividere il pensiero del critico d’arte Antonio Paolucci: «Per il pontefice l’artista è chiamato a rendere visibile, nella pienezza della sua libertà espressiva e quindi nell’esercizio della sua spontaneità di “creatore”, ciò che è trascendente, inesprimibile, “ineffabile”».

*Antonio Paolucci, tra l’altro Ministro per i Beni Culturali e Direttore dei Musei Vaticani, nel 2010 scrive a Domenico Antonio Tripodi: «Lei è un artista vero. Ha passato la vita attraversando l’arte e il servizio dell’arte in tutte le sue forme e l’Arte Le ha restituito cuore caldo e mente serena. Le sue interpretazioni pittoriche della Commedia sono molto belle. Lei dimostra ispirazione, sensibilità, passione, capacità evocativa e visionaria e, naturalmente, mestiere; una cosa che manca, purtroppo, agli artisti di oggi e che è sempre importante. Lei, Tripodi, è testimone ed è alfiere delle Arti. Auguri di ogni bene e di ogni successo».

martedì 13 agosto 2019

Un pianoforte, Cettina e il cielo di Berlino


Sono lontani i tempi della Berlino cupa dell’epoca della guerra fredda. Gli anni del muro, la città segnata dalla cicatrice di cemento che la divideva in due. Davanti alle macerie del muro finalmente abbattuto, trent’anni fa Mstislav Rostropovich fece commuovere il mondo facendo vibrare Bach sulle corde del suo violoncello. E chissà se sia stato un caso, in questa estate 2019, trovare un pianoforte verticale rosso a Postdamer Platz, anch’essa divisa in due per 28 lunghissimi anni.
Domanda che forse non si è posta Cettina Papalia, ragazza di Sinopoli in vacanza a Berlino la settimana scorsa. Complice la sua grande passione per la musica, Cettina non ci ha pensato due volte: si è seduta dietro al pianoforte e ha cominciato a suonare. Il resto l’ha fatto la magia che la musica riesce a creare.
Studentessa in Pianoforte al Conservatorio “Cilea” di Reggio Calabria e di Chimica presso l’Università degli studi di Messina, Cettina è allieva del Maestro Roberto Giordano: «È una fonte di ispirazione per me; in ogni lezione mi trasmette tutto il suo amore per la musica, il suo sapere, i suoi insegnamenti di vita. A novembre inizierò un nuovo e importante anno di studi: quello che mi porterà all’esame conclusivo per ottenere il Diploma Accademico di Primo Livello in Pianoforte. Vedrò così realizzato uno dei miei grandi sogni, dopo tanti anni di studio, di sacrifici per la mia famiglia, ma anche di tanta determinazione e voglia di arrivare in fondo. Anni di crescita e di cambiamenti; anni di un amore che ogni giorno scopro essere sempre più forte, senza il quale non potrei sopravvivere».
Una passione che ha origini lontane, come lei stessa spiega: «Tutto è nato nella mia Chiesa, a Sinopoli, un luogo di fondamentale importanza per la mia vita. A sette anni mi innamorai dell’organo che si trova al suo interno: lo ascoltavo, lo osservavo e rimanevo così affascinata da quello strumento che, non appena finita la messa domenicale, correvo a casa e con una piccola tastiera riproducevo esattamente i suoni che avevo ascoltato. I miei genitori, comprendendo questa mia particolare dote, decisero di iscrivermi in una scuola privata per iniziare a studiare pianoforte e da quel momento non ho più smesso. La mia vita è totalmente cambiata grazie alla musica».
Cettina infatti, oltre ad essere “pianista accompagnatore” di strumentisti e di cantanti, dirige il Coro parrocchiale di Sinopoli e suona proprio quell’organo che da bambina l’ha fatta innamorare della musica. Spesso pubblica sui social i video delle sue performances ed è proprio sul suo profilo Facebook che ha di recente condiviso il breve, ma suggestivo filmato della sua improvvisata “esibizione”: «Il pianoforte di Potsdamer Platz era a disposizione di chiunque avesse voluto suonare, anche soltanto per trasmettere una piccola emozione. Ho iniziato a suonare e attorno a me si sono radunate moltissime persone: chi mi riprendeva con il telefonino, chi applaudiva, chi mi faceva i complimenti. Mentre suonavo si è avvicinato uno studente di Berlino, Thomas Kruger: si è seduto accanto e abbiamo cominciamo a suonare a quattro mani come se avessimo fatto quello da sempre. Un’intesa perfetta: ecco il potere della musica! Non ha importanza la provenienza, il luogo, la persona: la musica sarà sempre capace di unire e di emozionare, di sorprendere e di stupire. In quel momento Thomas per me non era uno sconosciuto, ma un amico musicista speciale che ha condiviso con me un momento unico e raro».
I minuti scorrono veloci sulle note di “L’amour Toujours” di Gigi d’Agostino, “A skyfull of stars” dei Coldplay, la colonna sonora del film “Pirati dei Caraibi”. Il capannello di persone attorno ai due giovani diventa sempre più numeroso: i bambini ballano, i telefonini degli adulti si trasformano in cineprese e macchine fotografiche. Lo stupore e l’allegria degli astanti sono palpabili. Alla fine dell’esibizione una standing ovation coinvolge anche gli avventori dei ristoranti vicini, in quello che per Cettina rimarrà “il momento più bello dell’intero mio viaggio”.