lunedì 30 marzo 2015

Abbasso le bombe, viva la bellezza


Una reazione istantanea come un riflesso condizionato. Come il piede che scalcia non appena il martello colpisce il ginocchio. Come il sorriso che scatta naturale davanti alla bellezza di questi ragazzi colorati e con gli occhi pieni di speranza. Occhi che non si arrendono, che non possono arrendersi perché se lo fanno loro c’è davvero da abbassare la saracinesca e sparire. Lasciare il campo ai bruti che sabato notte, ma neanche tanto (alle 21.40 circa), hanno tentato di colpire al cuore l’avamposto più alto della cultura eufemiese, quel liceo scientifico che rappresenta la speranza e l’argine. La speranza di un futuro migliore; l’argine alla barbarie che pure resiste e rilancia. Per questo motivo non occorre abbassare la guardia e insistere, tenere i riflettori accesi perché anche se non sono stati rilevanti i danni materiali dell’esplosione nei locali che ospiteranno il liceo “Fermi”, è grave l’azione subita da tutta la città. Non è stato colpito il liceo, attentati del genere feriscono il futuro di un’intera comunità, che per questo è chiamata a reagire. A schierarsi. A metterci la faccia. Accanto ai ragazzi e ai loro bellissimi striscioni di vita, contro la morte della violenza e della sopraffazione.




Farlo con ancora più forza di quella espressa stamattina nel corteo partito dalla sede attuale del liceo e che, percorrendo le vie del paese, ha fatto tappa nei locali dell’ex scuola elementare “Purgatorio” e da lì è poi approdato nella sala consiliare del Palazzo municipale, dove due portavoce degli studenti hanno rivolto al sindaco di Sant’Eufemia Mimmo Creazzo l’invito a non indietreggiare nell’impegno a favore della legalità e della civiltà:



“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, 
e fui contento, perché rubacchiavano. 
Poi vennero a prendere gli ebrei, 
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. 
Poi vennero a prendere gli omosessuali, 
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. 
Poi vennero a prendere i comunisti, 
e io non dissi niente, perché non ero comunista. 
Un giorno vennero a prendere me, 
e non c’era rimasto nessuno a protestare”. (Martin Niemöller) 
Iniziamo con la citazione di questo testo, perché pensiamo che un episodio come quello avvenuto sabato sera, un ordigno esploso dentro la nuova scuola, non possa (e non deve!!!) passare sotto silenzio. 
Il silenzio delle persone genera l’indifferenza: l’indifferenza uccide! 
Noi non possiamo tacere sull’uso di metodi che generano violenza e paura. 
Sogniamo un luogo, e Sant’Eufemia può essere quel luogo, dove non abbiamo più paura e dove pensiamo che lavorare per il Bene Comune sia un valore irrinunciabile. Perseguire il Bene Comune vuol dire, soprattutto, tutelare i diritti dei più deboli, di quelli che stanno ai margini della società, di chi non ha voce. 
Sogniamo un luogo in cui possiamo vivere relazioni basate su collaborazione e concordia, perché pensiamo che la Pace sia una delle condizioni fondamentali per vivere felici e vivere una vita autentica. 
Per questo scendiamo in piazza e ci mettiamo la faccia, perché il nostro futuro sia possibile e non venga precluso da chi crede di opprimere e prevaricare sugli altri. 
Chiediamo a chi gestisce la cosa pubblica di testimoniare in modo più responsabile la tutela dei diritti dell’uomo e la promozione della bellezza della condizione umana. 


Un inno alla partecipazione contro il disimpegno, l’indifferenza e l’apatia, per una battaglia che è di tutti. Che ognuno di noi deve sentire propria. Perché, come ha sottolineato nel suo intervento la dirigente scolastica del “Fermi” Graziella Ramondino, “la scuola è da sempre stata il tempio della cultura e della civiltà: la profanazione di una sua istituzione, quale che sia la matrice, simboleggia comunque un attentato alla civiltà e al progresso degli uomini e va respinta con ogni forza ed energia per evitare che conquiste millenarie dell’occidente civilizzato regrediscano d’un colpo nella barbarie”.
In una comunità che deve essere solidale, il momento dello scontro e delle divisioni non può sussistere quando viene colpito il futuro delle nuove generazioni. L’auspicio è che siano organizzate altre iniziative, oltre a questa spontanea e “improvvisata” dalla sera alla mattina attraverso il tam-tam dei social sulla spinta emotiva dell’indignazione, alla quale non tutti coloro che avrebbero voluto hanno potuto partecipare. Un consiglio comunale aperto darebbe una dimensione ufficiale e un taglio istituzionale, com’è giusto che sia quando episodi così gravi colpiscono la cittadinanza.
Questo è il momento dell’unità, l’ora in cui la comunità diventa testuggine. L’ora in cui tutti devono dare un contributo di civiltà, la goccia che insieme ad altre gocce diventa mare. L’ora in cui l’I care di don Milani diventa azione.
Perché quel “me ne importa, mi sta a cuore” contiene la forza rivoluzionaria del cambiamento reale, quello delle coscienze che la scuola è chiamata a formare. Delle donne e degli uomini che verranno e che vogliamo migliori di noi.

venerdì 27 marzo 2015

Ti seguirò fuori dall'acqua

Dario Fani è un sociologo esperto in progettazione socio-sanitaria e formatore. Un uomo di successo abituato a vivere di corsa, costantemente concentrato sugli obiettivi da raggiungere sul lavoro. Ha il rimpianto di non essere ancora diventato padre mentre gli anni scorrono inesorabili, la moglie sulla soglia dei quaranta, lui già oltre, quando inaspettata arriva la gravidanza tanto desiderata. Il bimbo che si faceva attendere da quattro anni nasce però con tre mesi di anticipo e con un cromosoma di troppo, 47 invece di 46. E qua comincia un’altra storia, che niente ha a che vedere con la gelida paginetta delle istruzioni consegnata dalla dottoressa al genitore per illustrare le caratteristiche della trisomia 21, o sindrome di Down, o mongoloidismo: le tre definizioni che indicano la presenza di un cromosoma in più, o di una sua parte, nella coppia cromosomica 21.
Ti seguirò fuori dall’acqua (Salani Editore, 2015) è il racconto di un percorso di salvezza che inizia con il “dialogo” tra un papà al di qua del vetro e il “pesciolino” di trentadue settimane costretto alla vita intrauterina riprodotta dall’incubatrice-acquario del reparto di neonatologia. È una storia d’amore travagliata come le più belle storie d’amore lette su pagine ingiallite o sospirate in sale buie. Solo che non è finzione, ma racconto reale, fatto di lacrime di disperazione e di gioia, la sostanza stessa della vita. Una catarsi che attraversa tre stadi: rifiuto, accettazione razionale, amore.
Il rifiuto iniziale è quello di un padre che ha la sensazione di essere entrato in una fiaba scura, una favola non sua, che sospetta addirittura l’eventualità di uno scambio tra neonati. Reazione non inconsueta per il genitore di un bimbo affetto da disabilità, riflesso inconscio della fatica di accettare la realtà e riconoscere come proprio un dolore così grande, che non può appartenergli. Una sorta di tradimento delle aspettative che porta ad accuse feroci nei confronti del neonato “assassino” del figlio sognato e “ladro” di una vita non sua: “tu non sei nato, ieri; ieri sei morto”.
Il punto di svolta si ha al primo vero contatto, perché – come sottolinea l’autore – “la vera esperienza passa tra le mani”. Passa dal dito del padre, al quale il piccolo si aggrappa con la forza di un leone e dal quale non vuole più staccarsi, mentre agita la gambetta appena alle labbra viene avvicinato il biberon.
Il pesciolino si chiamerà Francesco, perché è stupido pensare di non dovere “sprecare” il nome buono per un bimbo disabile che è invece riuscito a trasformare “l’orrendo in meraviglioso”. Una creatura che è la cura, non la malattia. Che è nato per guarire, non per essere guarito. Un “supereroe” vincente per nascita, se si considera che 78 casi di sindrome Down su cento diventano aborti naturali. E che salva il padre insegnandogli il coraggio e l’amore che non ha paura: quello che rende liberi anche da se stessi.
Perché quello che importa – rivela a Dario il padre di un “pesciolino” che invece non ce la farà ad uscire dall’acquario – non è fin dove potrà arrivare un figlio disabile, quali competenze e abilità riuscirà ad acquisire, se sarà in parte autosufficiente o se non lo sarà affatto. Importerà ciò che i genitori e chi gli vorrà bene saranno “capaci di fare”, ciò che saranno “disposti a diventare”: “conta se noi saremo capaci di arrivare alla sua altezza”.
Se ciò accadrà, anche soltanto “una smorfia non sarà qualcosa o poco, l’avanzo di un tutto”: sarà “il Tutto”.

sabato 14 marzo 2015

Mariuzza

Ci aveva aspettati nel letto. Non in cucina, dove anche dalla sedia a rotelle fino all’anno scorso riusciva a cucinare per figli e nipoti. Come le altre volte aveva baciato il ricordino dell’Agape e l’aveva fatto sistemare sulla specchiera antica, accanto a quelli più vecchi e alle foto in bianco e nero della sua vita. Il nostro modo di celebrare Natale, Pasqua o la “Giornata Mondiale del Malato” istituita nel 1992 da Giovanni Paolo II, che l’11 febbraio di ogni anno impegna i volontari dell’associazione nelle visite domiciliari e presso la residenza sanitaria assistenziale “Mons. Prof. Antonino Messina” di Sant’Eufemia. Una lunga fila di presepi, madonnine, rosari, immaginette sacre. L’essenza dei suoi giorni, comprensibile forse solo da chi ha la fortuna del dono di una fede incrollabile.
Mariuzza aveva avuto questo regalo. Almeno questo. La sua vita non è stata affatto rassegnazione, un calare la testa davanti ai colpi implacabili del fato. Se era una prova, l’ha superata brillantemente. E non perché abbia affrontato con dignità gli schiaffi che il destino non le ha risparmiato, ma perché delle avversità ha fatto la ragione della sua vita. Ergendosi a modello di mamma e di donna. Mostrando agli altri, a tutti noi, quanta forza può sprigionare l’amore per la propria famiglia.
Una lotta quotidiana e infinita contro malattie e disabilità, condotta col sorriso e senza mai un lamento. Alzandosi alle tre di notte per fare il bucato, perché di giorno c’era da mandare avanti il negozio di alimentari e un fratello, due figli e infine un marito bisognosi d’assistenza.
I veri eroi di questi nostri tempi sciagurati sono le donne e gli uomini come Mariuzza. Eroi silenziosi e forti, capaci di salvare il mondo con l’umanità dell’esempio, con l’umiltà che solo i grandi possiedono.
Non abbiamo saputo fare altro che abbracciare quel bambinone che singhiozzava il dolore di una solitudine che siamo certi la famiglia non permetterà. Eppure in quelle lacrime c’era l’amore più limpido e puro, che spesso non riusciamo a vedere perché lo cerchiamo dove ce l’aspettiamo, nella banalità delle nostre vite “normali”.

mercoledì 4 marzo 2015

La salita


Conosco metro per metro la salita che da piazza del Popolo porta all’Eremo. La percorrevo aggrappato al collo di mia mamma ed era come guardare il mondo da sopra una giostra, con l’orizzonte che si abbassa e sale. Ora più lontano, ora più vicino. Sentivo il suo cuore premere sulla mia pancia, il respiro sempre più affaticato nonostante il sorriso. Ogni tanto si fermava per riprendere fiato, mi faceva sedere su un gradino o mi appoggiava al cofano di un’auto parcheggiata sul marciapiedi. Si asciugava il sudore con un enorme fazzoletto di cotone, mi timbrava la fronte con un bacio e ripartivamo. Osservavo la sua sofferenza e il mondo attorno a lei, quel mondo che non riuscivo ad ascoltare, né a calpestare.
Dicono che le sventure non arrivano mai da sole, preferiscono la compagnia. Anche se la mia non era una disgrazia vera e propria: io non l’ho mai percepita così. Soltanto, è successo a me. Siamo percentuali di statistiche che altri più in gamba di noi spiegano e io sono l’uno su mille al quale è capitato di nascere sordo. I miei genitori se ne accorsero poco prima che compissi tre anni, insospettiti dal mio farfugliare senza senso e dai movimenti scoordinati. Accadde quando già era evidente che non era la pigrizia la causa delle mie difficoltà motorie, della posizione innaturale degli arti. Al Gaslini di Genova stabilirono che il tono muscolare dei miei muscoli era troppo basso: ipotonia. Ma con la fisioterapia avrei recuperato. Occorreva pazienza, mia mamma ne aveva. Tutte le mattine prendevamo il pullman dalla provincia al capoluogo, il mare cangiante sembrava scivolare alla nostra destra tra noi e la Sicilia. Un tempo sospeso che passavo incollato al vetro per guardare barche e onde, gabbiani e adorni prima dell’ingresso a Reggio.
Le braccia di mia mamma erano un riparo sicuro, una corazza impenetrabile dalla fermata dell’autobus all’Ortopedico. Ce l’avrei fatta a camminare e un giorno sarei stato io a sorreggerla, ad aiutarla a portare le buste della spesa, a sistemare la legna per la stufa. Sarebbe stata fiera di me e a mano a mano che facevo progressi immaginava la scena di lei orgogliosa davanti a suo padre, che non aveva voluto dare neanche un soldo per i nostri viaggi a Genova. Non valeva la pena sprecare denaro per tentare di dare forza alle gambe di un bambino nato sordo. Rimanevo pur sempre un handicappato, una vergogna da nascondere nell’angolo più buio della casa, da non mostrare in pubblico. Tantomeno da spenderci soldi per offrirgli la possibilità di frequentare bimbi “normali”, giocare e crescere insieme a loro.
- Questo è il mio campione, papà.
Mamma gli avrebbe detto proprio così: il mio campione.
Non sono figlio di un dio minore. Sono figlio di mia mamma e di mio padre. Sono figlio di mani sporche di terra e calce, di schiene piegate a raccogliere olive e a impastare cemento. Sono figlio dell’amore di chi ha infilato anche soltanto mille lire nella fessura del salvadanaio che il salumiere per anni ha tenuto accanto alla cassa. Perché Genova può essere un miraggio per chi a stento ha da mangiare.
Ogni mio passo ha avuto il sostegno di mani misericordiose e silenziose. Le “parole” e i gesti imparati dall’altra parte di un mare che non divide contengono il calore che spande da case sgarrupate. Di quello vivo, con quello riscaldo i miei giorni ora che riesco a farmi comprendere. Ora che mia madre non deve più togliere la giacca per difendere il mio viso dal freddo e dalla pioggia sferzante, su per quel cammino infinito.