lunedì 19 giugno 2017

Giugno



Giugno è la metafora della gioventù, con tutta quell’estate in arrivo e l’inverno una preoccupazione lontana. Che un giorno arriverà, ma è ancora troppo presto per pensarci. Giugno invita alla speranza, come il polline che plana nell’aria, come il giallo e il rosso dei suoi lunghi tramonti.
Era giugno quando diventammo una repubblica, quando la democrazia delle elezioni (e il primo voto delle donne) spazzò via un incubo durato vent’anni. Quasi una nemesi di quel giugno che invece ci aveva trascinato in una folle guerra, adoranti sotto il balcone di Palazzo Venezia. Stregati dalla mascella volitiva dell’uomo della provvidenza, sul cui cadavere pochi anni dopo avremmo pisciato e sputato, dopo averlo preso a calci. Scene da “macelleria messicana”, si disse.
Giugno è mio padre incollato alla radiolina in Australia nel 1970, ubriaco di felicità per il gol di Gianni Rivera nella “partita del secolo”. Sono i suoi rulli e la pittura e i ponteggi, il suo andare per poi tornare e poi riandare. E infine noi.
A giugno niente è definitivo, tutto può accadere. Tutto è vita. D’altronde, nella malinconica Giugno ’73, che racconta la fine di una storia d’amore vittima dei pregiudizi borghesi della famiglia di lei, Fabrizio De Andrè chiude con due versi indimenticabili: «Io mi dico è stato meglio lasciarci/ che non esserci mai incontrati». Come se anche nella tristezza vi sia qualcosa di positivo, che in qualche modo spinge a ricercare ovunque la gioia di vivere, a guardare sempre il bicchiere mezzo pieno. Giugno è sempre un bicchiere mezzo pieno.
Giugno è l’Ulisse di Joyce, ogni anno commemorato nel Bloomsday del 16, giorno in cui si svolgono tutte le vicende dei protagonisti di uno dei romanzi più influenti nella storia della letteratura mondiale. Una lettura difficile, una sfida tra ragazzi pensosi che ascoltano e riascoltano Notte prima degli esami, il dito pronto sul tasto rewind per riavvolgere la musicassetta e gli occhi fissi verso il cielo, ad ammirare la notte trapuntata di stelle, a seguire il disegno di un tempo misterioso.
Infine due corpi sudati che scoprono l’amore, avvinghiati sul sedile di un’auto bollente sotto il sole.
Non dovrebbe finire mai giugno. Le sue giornate luminose colorano di speranza anche le sconfitte, sono gravide di un nuovo inizio.

*Foto @azzurraridolfo

martedì 13 giugno 2017

La chiave della felicità


Esiste un’etica del dovere: io sono cresciuto con questi insegnamenti e sono grato ai miei genitori che me li hanno trasmessi. Ognuno di noi ha dei doveri nei confronti della propria famiglia, degli amici, della realtà in cui vive: nei confronti degli altri, soprattutto di chi sta peggio di noi.
La vera rivoluzione, oggi, è fare il proprio dovere, il proprio pezzettino, perché “se ognuno di noi facesse il proprio pezzettino, ci ritroveremmo in un mondo migliore senza neanche accorgercene”. Questa è l’etica del dovere e questa è la mia regola di vita.
L’ho appresa facendo caffè a 9 anni, salendo sulla cassa della Peroni che mi era necessaria perché altrimenti non ci arrivavo. Il bar di mio padre mi ha dato il privilegio di avere un contatto quotidiano con la gente, di parlare dei problemi reali delle famiglie, di instaurare rapporti di sincera amicizia. Molte persone là dentro mi hanno tenuto sulle ginocchia, mi hanno letteralmente allevato. Alcuni purtroppo non ci sono più, ma verso tutta questa gente ho un debito di umanità e di lezioni di vita che riconoscerò sempre.
Nei nostri 35 anni di attività sono riuscito a far conciliare tutto il resto con quello che ho sempre sentito essere un mio dovere fare. Ho lavorato all’università, ho parlato ai convegni, ho scritto libri… ma ho sempre continuato a stare al bar: e non ho mai pensato, mai, nemmeno per un attimo, che spazzare per terra o lavare bicchieri sminuisse di un niente il valore delle altre mie attività o la mia dignità.
E’ un messaggio che mi sento di rivolgere soprattutto ai giovani, le cui difficoltà comprendo. Giovani innamorati di questo nostro paese, che qui sono nati e cresciuti, che qui vivono e che purtroppo spesso finiscono per andare via.
Sono nato in Australia, conosco le storie dell’emigrazione perché la storia della mia famiglia è fatta di partenze, di ritorni, di affetti sparsi per il mondo. Le storie di chi va via sono tutte uguali: sono storie di distacchi, storie di sacrifici per strappare con i denti la possibilità di un futuro migliore.
Io ho scelto di non lasciare Sant’Eufemia. Altri l’hanno fatto, ed io ammiro questa loro determinazione nel cercare altrove una propria strada, anche se la decisione di partire è sempre pesante per gli affetti che si lasciano alle spalle.
Ma ammiro anche la determinazione di chi è rimasto, la cocciutaggine di chi un modo per realizzarsi lo cerca qui. Perché, secondo me, ogni decisione deve rispondere a una sola domanda: cosa voglio realmente? Dove sto bene?
Il segreto è riuscire a fare pace con i propri sogni, non avere rimpianti. Ed io rimpianti non ne ho. Anche se qualche volta la tentazione di andare via c'è stata, anche se di opportunità ne ho avute diverse. Una volta mi è stato chiesto: “perché non sei andato via? In qualsiasi città del Nord o all’estero chissà che carriera avresti potuto fare, chissà quante soddisfazioni professionali avresti potuto avere”.
Per me questo non è mai stato un problema. Il problema vero per ognuno di noi è capire di cosa abbiamo bisogno per stare bene. Io ho sempre voluto restare perché questa è la mia dimensione.
A Sant’Eufemia sento di essermi realizzato: con le cose che scrivo, con le cose che faccio, con le persone che conosco. Non mi è mai interessato altro, solo essere me stesso qui, nel mio paese. Fare le cose che mi piace fare, qui. Perché, in fondo, la chiave della felicità è nelle nostre mani.
Questo è il mio tempo, questo è il mio posto, questa è la mia vita.