domenica 20 ottobre 2019

Dote e corredo in un contratto nuziale del 1800


Nel 1975 la riforma del diritto di famiglia ha abrogato l’istituto della dote, risalente al diritto romano. Pur tralasciando gli aspetti giuridici di tale antica tradizione, la lettura dei “contratti nuziali” suggerisce qualche riflessione sui cambiamenti sociali intercorsi non rispetto a millenni fa, ma soltanto a “ieri”, se si considera quanto relativamente vicino a noi siano quei tempi. Ciò vale un po’ per tutto, come costatazione generale: si pensi a quanto la società è cambiata nel campo del progresso tecnologico, mentre fino all’Ottocento la realtà – tutto sommato – era rimasta immobile per secoli. Per non dire dello sconvolgente ed impetuoso sviluppo digitale dell’ultimo trentennio. Chi c’era negli anni Ottanta, faccia caso a quante cose riesce a fare oggi – e in quanto poco tempo – semplicemente con il colpettino di un polpastrello sul display di un telefonino.
Il matrimonio per secoli è stato sempre uguale. I contratti nuziali venivano redatti davanti ad un notaio, alla presenza di parenti e testimoni. Il primo contratto nuziale redatto dal notaio Antonino Brancati è datato 23 marzo 1800 [Archivio di Stato di Palmi, b.39 – anni 1800-1811]: Antonia Calarco di San Roberto è definita “vergine in capillis”, espressione che indicava un’adolescente in età da marito o una donna ancora nubile: solo loro potevano infatti andare in giro con il capo scoperto, a differenze delle donne sposate che dovevano coprirlo con un foulard (“u muccaturi”).
La madre Anna Maria Calabrese (il padre, Antonio, era deceduto) dota la figlia di diversi beni, tra i quali: tre “saje”, due delle quali usate; due “giupponi” (“jippuni” o “iuppuni”: camicetta), uno nuovo color turchino, l’altro di vellutino blu usato; quattro tovaglie, una di mussolina (“musulina”: tessuto leggero, in genere di cotone) e tre di tela; cinque camicie, una di frandina (tessuto ottenuto dalla lana) e quattro di tela; tre cuffie, due di seta ed una di calamo; due paia di scarpe “a papuzze” (colori verde e nero); due paia di lenzuola di tela nuovi; una coperta bianca di cotone; un “anteletto” (avanti letto: più che come ornamento, serviva per non fare vedere ciò che c’era sotto il tetto); due “saladde” (tela ruvida in genere usata come coperta); due paia di cuscini, uno di frandina e l’altro “lestiato” (lino e cotone); una mutanda, un corpetto di calamo e seta, un paio di calzette di calamo; trenta ducati in contanti, più altri trenta alla morte di uno zio (venti) e della nonna (dieci) materna; per lo sposo un paio di mutande di tela “fimmanella”, un “gilecco” (gilet), un paio di calzini di calamo, un fazzoletto di tela, un paio di bottoncini.
Nunziata Tripodi, madre di Rosario Panuccio di Sant’Eufemia, “per l’amore che porta al medesimo”, dota anch’essa i futuri sposi di diversi beni. Per lo sposo: “un paio di vestimenti di vellutino a color acquamare usato”, un altro paio “di panno a color turchino usato”, cinque paia di mutande di tela usate; per la sposa: “un sajo di seta usata di color turchino”, “un giuppunetto di seta a color cremisi”, “un paio di pater noster di pietra, con la medaglia a filograna”, un paio di bottoncini d’argento, un puntale d’argento, diciassette ducati d’oro lavorato; un paio di fibbie d’argento “del valore di ducati tre”, metà casa “fintantoché non si farà una commoda abitazione per essi futuri sposi, a spese communi d’essa Nunziata e d’esso Rosario, di quella parte che piace a Donna Nunziata”. Poi una serie di oggetti utilissimi: una cassa vuota, una paletta, un tripode e quattro “zapponi”.
Era tanto? Era poco? Quel che è certo è che non tutti i novelli sposi stipulavano un contratto nuziale, visto che soltanto una ristretta minoranza possedeva qualcosa da portare in dote.

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