martedì 17 novembre 2020

Ho scelto la vita

“Ho scelto la vita” è il titolo dell’ultima testimonianza pubblica sulla Shoah della senatrice Liliana Segre, condivisa il 9 ottobre 2020 nel borgo di Rondine (Arezzo). Una scelta che le consentì di sopravvivere all’orrore di Auschwitz e di trasformare la marcia della morte in marcia della vita: camminando “una gamba davanti all’altra, con i piedi piagati, mentre chi cadeva veniva finito con una fucilata in testa”; brucando nei letamai alla ricerca di qualcosa da mangiare; cibandosi con la carne cruda di un cavallo morto, strappata con le unghie e con i denti; succhiando foglie. 

Come fu possibile tutto questo? Liliana Segre lo spiega con una sola parola: indifferenza. Dodici lettere che lei stessa ha fatto incidere a caratteri cubitali all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano, realizzato nel binario 21 della Stazione Centrale, da dove partivano i carri bestiame pieni di ebrei destinati ai campi di concentramento: «Se pensi che una cosa non ti riguardi e ti volti dall’altra parte, è lì che inizia l’orrore».

Furono in tanti, in Italia, a girarsi dall’altra parte. Ed è comodo, per la coscienza collettiva della nazione, attribuirne la responsabilità in via esclusiva al fascismo e non, piuttosto, ad un humus culturale razzista, presente nella società italiana e capace di produrre frutti velenosi ancora oggi. Il “Manifesto degli scienziati razzisti”, la “Dichiarazione sulla razza” del Gran consiglio del fascismo (“È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”), l’esclusione degli ebrei dalle scuole pubbliche e dallo svolgimento di determinate professioni (pubblica amministrazione, banche, assicurazioni, notariato, giornalismo), la negazione dei diritti politici e civili, il divieto di matrimonio tra cittadini italiani di razza diversa furono atti e provvedimenti che ebbero largo consenso, così come lo stesso regime fascista fino al 10 giugno 1940. Erano italiani coloro che segnalavano alle autorità, per pochi soldi, il vicino di casa ebreo. Non dimentichiamolo.

«La memoria – scrive Ferruccio De Bortoli nella prefazione al libro – è un vaccino prezioso. Ci aiuta a combattere con intelligenza e moderazione i miasmi del totalitarismo che una società conserva, nonostante tutto, nel suo inconscio, nel retrobottega della sua storia collettiva, familiare, personale».

Auschwitz – scrisse Primo Levi – è “la mancanza di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”. Ed è il ricordo di Liliana, ragazzina tredicenne alla quale viene semplicemente detto di dimenticare il proprio nome, perché da quel momento sarebbe stata soltanto un numerino tatuato sul braccio. Nell’istante in cui si diventa una cifra riportata sopra un registro dell’ufficio matricola inizia, sempre, l’opera sistematica di annullamento della dignità dell’uomo.  

Per Liliana Segre, scegliere la vita significò allora «sognare di essere fuori di lì, il rumore di un bambino che gioca, un gattino, un prato verde, una qualsiasi cosa bella». Scegliere la vita, oggi, significa fare opera di memoria ed assumere collettivamente la funzione delle pietre d’inciampo che in molte città europee ricordano le vittime del nazismo.


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