Ogni volta che rischio di liquefarmi, inscatolato e intrappolato sul “corpo del reato” più lungo del mondo (l’autostrada Salerno – Reggio Calabria), ripenso alla saggezza del Barone: “uno dei più grandi errori della tua vita”. Il termine utilizzato – a dire il vero – è un altro, irripetibile. Ad ogni modo, sì: l’acquisto, dieci anni or sono, di un’auto priva di climatizzatore (e a tre porte, pesante aggravante ai fini del negativo giudizio finale), va annoverato tra le mie topiche più clamorose.
Con Scipione ci siamo soltanto intravisti, Caronte invece mi è saltato addosso proprio mentre procedevo a passo di lumaca sull’asfalto infuocato. Lucifero, più in là, dovrebbe dare il colpo di grazia ai sopravvissuti delle prime due ondate di calore di questa estate 2012. Ci saranno tempi e modi. Intanto, un dato è certo: menzione speciale per l’ideatore dei nomi da attribuire all’anticiclone africano. Veramente rassicuranti. D’altronde, siamo abituati. In Italia, si è sempre di fronte ad emergenze catastrofiche, prossimi alla rovina. Ora è il momento dell’ “emergenza caldo”, che ha scalzato la precedente “emergenza freddo”. Passiamo dalle raccomandazioni allarmate su come fronteggiare il “generale inverno” (strano: in inverno fa freddo) alla litania sulle impennate della colonnina del mercurio (strano: in estate fa caldo).
Pensavo a questo, mentre imprecavo contro il nostro sistema sanitario, non comprendendo la ratio della sua farraginosa, inconcludente e irritante burocrazia. Un mese fa, un mio amico ha avuto un ricovero, dopo di che è stato dimesso con la prescrizione di una successiva visita di controllo. In un paese normale, un cittadino pensa che, essendogli stato detto di tornare giorno X, non serve prenotazione. Invece, non vanno così le cose e nessuno si premura di farlo presente all’ignaro utente.
Non solo. Nell’anno di grazia 2012, la prenotazione va fatta “esclusivamente” utilizzando l’apposito numero verde. Non esiste altro sistema, men che meno farlo direttamente in ospedale. Ora, intuisco che possano sussistere ragioni di natura organizzativa, ma snellire qualche procedura, informatizzando qualche passaggio, è chiedere troppo?
Il numero verde è il catalizzatore naturale di malanove per eccellenza. Componi il numero, ascolti per ore la musichina della segreteria telefonica, saggi il tuo livello di sopportazione, quindi esplodi, imprechi e spacchi la cornetta dell’apparecchio. Dopo interminabili tentativi, se non ti sei già trasformato nel Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia, hai discrete possibilità di portare a casa il risultato.
Ricapitolando, per un’estate serena, occorre almeno una delle tre seguenti condizioni: a) una salute di ferro; b) un’auto climatizzata; c) temperature primaverili.
venerdì 29 giugno 2012
domenica 24 giugno 2012
Boni cunti

La guerra è dura, sempre e ovunque, ma il dopoguerra, spesso, è ancora peggio. Fame, sporcizia, pidocchi, abbrutimento. Miseria, fascismo e guerra combaciavano nei racconti di Peppuzzo, che biasimava in eguale misura chi in quegli anni si era arricchito e chi, a distanza di decenni, esprimeva ancora simpatia per il duce e per i ducetti in sedicesimo locali. Gira e rigira, il discorso tornava sempre alla pancia. Apprendevamo di gente che si nutriva di bucce di patate, ortiche, cardi e “coschi i vecchia”; che non aveva mai conosciuto il sapore della carne; che camminava scalza, lacera e sporca. “Addunca” (dunque), il suo inconfondibile incipit; “boni cunti” (in definitiva, in fin dei conti), l’introduzione alla “morale della favola”, il suo personale commento finale. “Questi eravamo” – sembrava ammonirci, affinché lo tenessimo bene in mente, noi che avevamo avuto la fortuna di nascere in tempi più felici. Piccole storie della storia grande, a volte anche aneddoti simpatici, a dispetto della drammaticità del contesto. Il nostro – e credo anche il suo – preferito aveva come protagonista un poveraccio che, approfittando della precoce oscurità delle serate invernali, si era intrufolato in una baracca per cercare qualcosa da mangiare, ma era stato colto in flagrante – mentre rovistava nei cassetti della credenza – dal padrone di casa, un altro poveraccio che però, evidentemente, possedeva uno spiccato senso dell’ironia, tanto da porre il memorabile quesito: “ma se non trovo niente io di giorno, cosa vuoi trovare tu, con questo buio?”.
Altro argomento di conversazione era il calcio. Tifosissimo del Napoli (in quanto squadra del Sud) e della Reggina, storpiava tutti i nomi dei calciatori, da “Natalistefano” (Notaristefano) a “Diloiggi” (Dionigi), a “Bonaccioli” (Bonazzoli) e nutriva un odio viscerale per quella squadra di “scecchi zoppi” della Juventus (“a cani”: la cagna), sentimento che, per ovvi motivi, lo rendeva ai miei occhi ancora più amabile.
Si dilettava inoltre a lavorare il legno, un hobby che praticava nel suo piccolo regno, un laboratorio ricavato in un garage, all’interno del quale realizzava bastoni, “stante” (pali con diversi rami sui quali i pastori appendevano gli attrezzi), “juvi” (gioghi) per i buoi, collari per i “campani” (grossi campanelli per il bestiame). Il pezzo forte della sua collezione di oggetti era però l’enorme “pipa di Pertini”, ricavata dalla lavorazione di una “crozza”, a ricordo della vittoria azzurra al mondiale di calcio del 1982.
A Peppuzzo devo il segreto di un “posto” di funghi che aveva rivelato a mio fratello Mario ragazzino e che successivamente mi è stato trasmesso. Ogni anno torno in quel bosco di castagni, anche soltanto per il gusto di passeggiare e riandare così, con la mente, a quelle storie e all’immagine del sorriso di Peppuzzo quando si fa dare un bacio sulla guancia dal nipotino, dopo avergli messo in mano un euro.
domenica 17 giugno 2012
Cavalli otto, uomini quaranta


La vicenda è quella vissuta dallo stesso autore nel corso della seconda guerra mondiale. Ed è la storia della disfatta dell’Armir, travolta dall’offensiva sovietica sul Don e costretta a ritirarsi rovinosamente e ad abbandonare nella steppa gelata mezzi militari e soldati destinati a morire o a subire l’amputazione degli arti congelati. L’inverno russo non perdona, soprattutto chi, per usare le stesse parole di Paolini, intende “giocare a calcio con un pallone da rugby”. D’altronde, l’impreparazione dell’esercito italiano è storicamente documentata: divise non adatte ai rigori siberiani, “scarpe di cartone”, fucili modello ’91 (dall’anno di produzione, il 1891).
La canzone interpretata da Paolini e dai Mercanti di Liquore (testo di La tradotta, da Filastrocche in cielo e in terra, di Gianni Rodari, e estratto del libro di Rigoni Stern) riassume il significato intimo della testimonianza dello scrittore di Asiago. L’ossessività del ritornello (“cavalli otto, uomini quaranta”) ricorda come la guerra sia, in definitiva, Risiko e fredda contabilità che non distingue tra uomini e bestie, se non per la capienza dei vagoni merci: otto, in caso di cavalli; quaranta, se “carne da cannone” come Giuanin, che ripete come un mantra, in forma interrogativa, la speranza (disattesa) di tornare a casa sano e salvo: “Sergentmagiù, ghe riverem a baita?”.
Il sergente nella neve è un libro sull’uomo. La guerra e i suoi orrori restano sullo sfondo, coro greco di una tragedia che resta universale e che, tuttavia, consente all’uomo di trovare dentro di sé la via del riscatto e della salvezza. Un messaggio di speranza, sublimato nell’episodio centrale del libro, l’incontro tra l’alpino e i soldati dell’Armata Rossa all’interno di un’isba, attorno a una pentola fumante, mentre fuori infuria la battaglia di Nikolajewka.
*Nel video, Paolini colloca l’episodio nel mese di febbraio, ma, in realtà, la battaglia di Nikolajewka è stata combattuta il 26 gennaio 1943.
lunedì 11 giugno 2012
Un commissario è per sempre

Se non ho inteso male, il congresso non si terrà per evitare una conta. Per non correre il rischio, cioè, di dimostrarsi sul serio un partito “democratico” che valuta le diverse proposte politiche e poi sceglie a maggioranza una linea politica. Per non apparire troppo litigiosi, le decisioni vanno prese all’unanimità, o quasi. Al limite, si è disposti ad accettare un’opposizione interna quasi “concordata”, utile soltanto per fugare scenari “bulgari”. Di più non si è disposti a concedere. Con le elezioni politiche dietro l’angolo, esibire l’immagine di un partito diviso sarebbe esiziale. Per le pulizie di primavera c’è sempre tempo. Ora è preferibile nascondere la polvere sotto il tappeto e accantonare la ramazza.
Come sovente accade, si è deciso di non decidere. Rinvio sine die. Che equivale, minimo, a un arrivederci a dopo le politiche del 2013. D’altronde, il nodo è proprio la scelta dei candidati, sia che venga modificata la “porcata” di Calderoli, sia che sciaguratamente si vada alle urne con l’attuale sistema elettorale. Per cui, onde scongiurare notti di lunghi coltelli in salsa calabra, fiducia a D’Attorre, al quale toccherà gestire, di concerto con Roma, le selezioni.
Dei cinque candidati alla segreteria regionale (Nicodemo Oliverio, Mario Maiolo, Demetrio Battaglia, Doris Lo Moro e Mario Muzzì), i primi tre hanno accolto con disappunto i motivi del rinvio. Comprensibile. Perché, in definitiva, i congressi che si tengono a fare, se non per decidere tra il ventaglio delle scelte sul tavolo? Ha ragione Maiolo: ritirare le candidature, “in nome dell’unità del partito”, sarebbe umiliante per chi si è speso a sostegno di esse. L’unità del partito sbandierata come valore assoluto rimanda, pavlovianamente, a performances indimenticabili anche a distanza di anni. Esempi luminosi delle mortificazioni patite da chi, pure, ci aveva creduto. Dall’avallo alla vergogna del “concorsone” per portaborse e parenti, al quale gli allora Ds prestarono faccia, voti e nominativi da sistemare nelle strutture della Regione, allo splendido esempio di trasparenza apprezzato ai congressi dei circoli del 2009 che produssero lo “strano” risultato di una partecipazione non confermata alle successive elezioni. Com’è noto, in molti comuni il Pd non ottenne neanche la metà di quei consensi e si sprecarono i titoli sul numero di elettori inferiore a quello degli iscritti al partito. E ancora, le primarie regionali del 2010, quelle dell’accordo di Caposuvero che diede il via libera alla ricandidatura di Loiero – in cambio della deroga per i consiglieri regionali che, da statuto, non erano ricandidabili, avendo superato due mandati – e all’inserimento in lista dell’allora segretario regionale, Carlo Guccione. Quello stesso Guccione, già beneficiario del “concorsone”, che ora s’indigna per “questo ennesimo tentativo di colonizzazione” e ringhia: “la nostra regione non può essere utilizzata per consumare tentativi di baratto finalizzati alle prossime candidature del 2013 alla Camera e al Senato”.
La questione del recupero di una credibilità che è ai minimi storici è troppo delicata e complessa per pensare di poterla lasciare in mano alla classe politica responsabile dell’attuale disastro. L’amara verità è che il Pd, in Calabria, è un ectoplasma, ripiegato su se stesso e fiaccato dalle faide interne. Non riuscire a dare segni di vita nel momento di maggiore difficoltà dello scopellitismo costituisce, politicamente, un dramma. Sperare in qualche buccia di banana giudiziaria non è politica. Soprattutto se si finisce con l’incappare nel consueto vizio della doppia morale, quella che provoca dichiarazioni a raffica sugli avvisi di garanzia agli avversari politici e silenzi assordanti sulla storiaccia del concorso vinto da Valeria Falcomatà all’azienda ospedaliera “Bianchi – Melacrino – Morelli”. Politica, invece, è riuscire a proporsi come alternativa valida e credibile. Un miraggio, allo stato attuale.
Ha ragione da vendere Fernanda Gigliotti, da sempre voce critica nel Pd calabrese, che si chiede se non sia il caso di abbandonare “il Pd che non c’è”, una “casa” che, “malgrado il nome, di fatto dimostra di non volerci e di non appartenerci, e forse non ci è mai appartenuta, né mai ci apparterrà”. A dieci anni di distanza, ritornano alla mente – impietosamente e impetuosamente – le parole pronunciate da Nanni Moretti a piazza Navona (“con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”) e ci si domanda se fossero profezia o maledizione.
mercoledì 6 giugno 2012
Festeggiamenti inglesi e polemiche italiane

Un amore che, per le mie convinzioni, è quasi incomprensibile. Trovo urticante la sola idea che qualcuno possa trovarsi in una posizione di autorità e di privilegio senza averne alcun merito, a meno che non si consideri tale la fortuna di essere nato in una famiglia reale.
Detto questo, è indubbio che Elisabetta II ha il merito di assolvere al meglio delle possibilità l’importante ruolo di collante nazionale. “Lilibeth” è il volto di un’istituzione alla quale tutto il popolo inglese guarda con simpatia, affetto, fiducia e devozione (a parte lo storico Eric Hobsbawm, ritiratosi sdegnosamente in Galles, televisore spento e nessun quotidiano da leggere per tutta la durata dei festeggiamenti).
L’altro dato da sottolineare è che gli Inglesi, a differenza nostra, sanno “quando” e “come” festeggiare. Condivido in pieno la chiusura dell’articolo, alla luce delle infinite polemiche sorte in Italia, in occasione delle celebrazioni per il 2 giugno. Il richiamo alla “sobrietà” (termine che aborro per il suo altissimo tasso d’ipocrisia), suggerito dai tragici avvenimenti del terremoto in Emilia, ha sollevato il consueto polverone populista e qualunquista. Perché un conto è contenere le spese e limitare la pompa (parata militare), per rispetto delle vittime e delle magre casse dello Stato; altra cosa è l’attacco strumentale a una data-simbolo della nostra storia. Sappiamo bene che c’è, in Italia, un problema di storia condivisa che dall’Unità è arrivato irrisolto ai giorni nostri e che ha caratterizzato i momenti più salienti e tragici della storia nazionale: questione meridionale e brigantaggio postunitario, fascismo, terrorismo e anni di piombo. Ma la vittoria sul nazifascismo (25 aprile 1945) e la successiva condanna popolare della monarchia complice della dittatura fascista (2 giugno 1946) rappresentano i valori fondanti della nostra stessa democrazia, proprio per questo scolpiti nella Costituzione repubblicana, sui quali non ci si può dividere, né lasciarsi andare ad inutili e sterili polemiche.
Perché (non solo) gli Inglesi amano la regina

Ricevo da Londra e pubblico*:
Da 15 anni pago le tasse alla regina Elisabetta II e ne vado fiero. Sin da bambino ho subito il fascino delle teste coronate e sapevo che, prima o poi, mi sarei trasferito in un paese monarchico. In Svezia fa troppo freddo, gli spagnoli mi stanno un po’ sulle scatole, dei monegaschi e del loro accento francese non ne parliamo. Direi che ero destinato a diventare un suddito di Queen Elizabeth II.
Lo ammetto: sono un monarchico, con buona pace di ciò che pensa il politologo di famiglia (Domenico). Mi piace l’idea di avere come capo dello Stato qualcuno che è sopra le parti. In tanti Paesi, al giorno d’oggi, si ha un politico dal non chiaro orientamento ideologico, altri hanno un dittatore. In Inghilterra abbiamo una “Lady”, una signora, dignitosa nel proprio ruolo, diretta discendente di William il Conquistatore, il che già è “figo” di suo.
Elizabeth ha tutto il mio rispetto. È indubbiamente un tesoro nazionale e rappresenta tutte le cose buone dei tempi andati ma anche la modernità dei nostri giorni. Come donna ispira tranquillità e saggezza. Ha principi, senso del dovere e, da 60 anni, svolge il ruolo di capo dello Stato dedicando alla nazione la propria vita e la propria privacy, senza mai protestare o andare sopra le righe. Direi che per i repubblicani inglesi questi siano tempi cupi, perché la monarchia, qui in Inghilterra, non solo è amata, ma è popolare più che mai. Non dimentichiamo che la monarchia è un investimento e genera, ogni anno, ingenti introiti per le casse dello Stato solo in turismo. Nessun presidente riuscirebbe mai a fare qualcosa del genere e a mantenere alto il prestigio e l’interesse internazionale legato ai Windsor.
La regina è il link tra passato, presente e futuro della nazione, in un ruolo che esalta la cultura democratica britannica: non è politica, non vota, non favorisce alcuna corrente politica ed è imparziale. Quando parla, lo fa in nome dell’intera nazione. La preferisco a qualsiasi capo dello Stato, prigioniero della propria agenda personale ed esposto a favoritismi più o meno indotti. The Queen is The Queen. È sempre là, il volto rassicurante sulle banconote e sulle monete (ah, cara vecchia sterlina!), sui francobolli e nell’annuale discorso della cena di Natale. Un’icona che rappresenta perfettamente la visione “cool” degli inglesi.
Mi impressionò quando, dopo l’attacco terroristico del 7 Luglio 2005, apparì in televisione e ci incitò a continuare a vivere normalmente e ad usare la metropolitana, perché la politica del terrore non riuscirà mai ad averla vinta sulla mentalità democratica britannica. Anche due giorni fa, a 86 anni suonati, “Ma’am” ha dimostrato di che pasta è fatta e ha dato una grande prova di senso del dovere quando, per tutta la durata (più di due ore) della cerimonia sul Tamigi, non si è mai seduta perché il suo popolo era là, ai margini del fiume e sotto una pioggia monsonica, ad aspettare che lei passasse. È rimasta lì, ai quattro venti, in piedi e con i suoi acciacchi, per salutare con grazia la gente che era andata lì per festeggiarla.
La regina è diventata una nonna adottiva che la vecchiaia ha reso più accessibile e umana. La guardo e seguo con affetto e tenerezza, un po’ come anni fa seguivo, da lontano, Giovanni Paolo II. Quando non ci sarà più mi mancherà: piangerò la scomparsa della regina, ma anche la donna e i principi che incarna. I suoi 60 anni di regno racchiudono un’epoca storica e meritano di essere celebrati con tutta la fanfara che la circostanza richiede. E allora, come si dice dalle mie parti: God save the Queen!
Che per i tagli economici e le considerazioni moralistiche c’è sempre tempo. E che il governo italiano guardi e impari.
*Mario Forgione, il fratello “londinese” del titolare di questo blog
venerdì 1 giugno 2012
Il pane di Franco
Ho letto il mio nome sopra una torta, per la prima volta in vita mia, mentre la “Marconi” solcava il Pacifico. Compivo ventidue anni e il destino e la povertà mi stavano consegnando a un continente del quale conoscevo a malapena il nome. Chissà com’erano i suoi abitanti? E quanti “paisani” ci sarebbero stati ad attendere la nave al porto? Beh, se mio fratello Stefano mi aveva detto di raggiungerlo, cinque anni dopo il suo arrivo in una terra così lontana, gli indigeni tanto malvagi non dovevano essere. Sugli amici, poi, si poteva sempre contare. Anche io avrei avuto un lavoro. Non cercavo altro.
Rimasi stupito dalla cortesia dell’equipaggio. Non conoscevo nessuno su quella nave e un sacco di gente mi stava festeggiando. Buon segno. Una torta così bella l’ho ricevuta nuovamente a capelli totalmente bianchi, per i miei sessant’anni, regalo maturo e sorpresa confezionata dai miei figli.
Il gelato no, quella era stata un’esperienza quasi traumatica. Avevo nove-dieci anni ed ero incantato dal gelataio, un pifferaio su bicicletta trainante un carretto, dietro al quale s’incolonnavano bambini imploranti. “Gelati, graniti, senza sordi non veniti!”, metteva in guardia. Stefano aveva racimolato un po’ di spiccioli per comprare un minuscolo cono al limone che mi fece assaggiare. Guardai lo strano oggetto che tenevo tra le dita, come per capire quando e come aggredirlo, quindi gli diedi un morso. Era freddo! Una sensazione a me sconosciuta, per la quale non ero preparato. Sulle prime, non sapevo se sputare o inghiottire; alla fine temporeggiai un tempo che mi sembrò infinito, ma che mi consentì di mandare tutto giù, incredulo e muto, come chi non sa se sia scherzo o realtà.
Un mese di viaggio. Scappavo dalla miseria, mia e di chi mi stava attorno.
Franco viveva con dieci fratelli in una baracca post 1908 spoglia come un ciliegio in autunno. Uno spettacolo deprimente. E sì che ero abituato, allenato com’ero con la mia, una specie di cuccia per uomini e cimici che si contendevano quel poco spazio. Una stanza e mezza per nove corpi che, in inverno, rimediavano alla mancanza di riscaldamenti incastrandosi dentro due letti e, d’estate, schiattavano sotto le lamiere roventi. Non c’era acqua, se non la poca prelevata dalla fontana pubblica, si faceva luce con la lampada ad olio e si cucinava sul fusto alimentato con la segatura. Quasi tutti i giorni, però, una pentola di patate messa a bollire manteneva il nostro morale a un livello accettabile. Stava là – come un centrotavola – e dentro vi pescavamo a turno, facendo attenzione a non infilzare qualche mano. Tranne quella volta che fui sgridato e, per vendetta, di nascosto la divorai quasi per intero. Inseguito dai miei tre fratelli, mi diedi alla macchia e feci ritorno diversi giorni dopo, appena in tempo per non fare morire mia mamma di crepacuore. Mi sarei riscattato qualche anno più tardi, con la prima paga da imbianchino investita per regalarle una cucina a tre fuochi.
Da Franco, invece, la tavola faceva “scurare” il cuore. Intorno, poche sedie e una nidiata di bimbi ai quali toccavano, tutti i santi giorni, pane e olive. Raramente, un tocco di formaggio che veniva sfregato su ogni singola fetta di pane, non potendo essere companatico sufficiente per tutti. Pane e odore di formaggio. Per il pane provvedeva Franco, con la mia complicità. A dodici anni lavoravamo in un forno e quel ben di Dio era una tentazione alla quale non potevamo e non volevamo resistere. Allora intuivo qualcosa, inconsciamente o per spirito di sopravvivenza. In seguito, un poeta genovese avrebbe trovato le parole giuste: “ci hanno insegnato la meraviglia/ verso la gente che ruba il pane/ ora sappiamo che è un delitto/ il non rubare quando si ha fame”.
Franco era velocissimo, il primatista nelle corse tra ragazzini. “Mastro, esco per fare pipì”, la scusa di ogni notte. Dietro l’angolo, due pani (uno per me, uno per lui), che riuscivo sempre a nascondere, non appena il principale si distraeva un attimo. Dal forno alla baracca c’erano duecento metri, che Franco percorreva a perdifiato, la refurtiva stretta al corpo come un pallone da rugby e il cuore in gola. Dopo più di cinquant’anni, la fragranza di quel pane rimane irraggiungibile. Al pari di Franco, quando correva come un ladro. Quando ladro non era.
Rimasi stupito dalla cortesia dell’equipaggio. Non conoscevo nessuno su quella nave e un sacco di gente mi stava festeggiando. Buon segno. Una torta così bella l’ho ricevuta nuovamente a capelli totalmente bianchi, per i miei sessant’anni, regalo maturo e sorpresa confezionata dai miei figli.
Il gelato no, quella era stata un’esperienza quasi traumatica. Avevo nove-dieci anni ed ero incantato dal gelataio, un pifferaio su bicicletta trainante un carretto, dietro al quale s’incolonnavano bambini imploranti. “Gelati, graniti, senza sordi non veniti!”, metteva in guardia. Stefano aveva racimolato un po’ di spiccioli per comprare un minuscolo cono al limone che mi fece assaggiare. Guardai lo strano oggetto che tenevo tra le dita, come per capire quando e come aggredirlo, quindi gli diedi un morso. Era freddo! Una sensazione a me sconosciuta, per la quale non ero preparato. Sulle prime, non sapevo se sputare o inghiottire; alla fine temporeggiai un tempo che mi sembrò infinito, ma che mi consentì di mandare tutto giù, incredulo e muto, come chi non sa se sia scherzo o realtà.
Un mese di viaggio. Scappavo dalla miseria, mia e di chi mi stava attorno.
Franco viveva con dieci fratelli in una baracca post 1908 spoglia come un ciliegio in autunno. Uno spettacolo deprimente. E sì che ero abituato, allenato com’ero con la mia, una specie di cuccia per uomini e cimici che si contendevano quel poco spazio. Una stanza e mezza per nove corpi che, in inverno, rimediavano alla mancanza di riscaldamenti incastrandosi dentro due letti e, d’estate, schiattavano sotto le lamiere roventi. Non c’era acqua, se non la poca prelevata dalla fontana pubblica, si faceva luce con la lampada ad olio e si cucinava sul fusto alimentato con la segatura. Quasi tutti i giorni, però, una pentola di patate messa a bollire manteneva il nostro morale a un livello accettabile. Stava là – come un centrotavola – e dentro vi pescavamo a turno, facendo attenzione a non infilzare qualche mano. Tranne quella volta che fui sgridato e, per vendetta, di nascosto la divorai quasi per intero. Inseguito dai miei tre fratelli, mi diedi alla macchia e feci ritorno diversi giorni dopo, appena in tempo per non fare morire mia mamma di crepacuore. Mi sarei riscattato qualche anno più tardi, con la prima paga da imbianchino investita per regalarle una cucina a tre fuochi.
Da Franco, invece, la tavola faceva “scurare” il cuore. Intorno, poche sedie e una nidiata di bimbi ai quali toccavano, tutti i santi giorni, pane e olive. Raramente, un tocco di formaggio che veniva sfregato su ogni singola fetta di pane, non potendo essere companatico sufficiente per tutti. Pane e odore di formaggio. Per il pane provvedeva Franco, con la mia complicità. A dodici anni lavoravamo in un forno e quel ben di Dio era una tentazione alla quale non potevamo e non volevamo resistere. Allora intuivo qualcosa, inconsciamente o per spirito di sopravvivenza. In seguito, un poeta genovese avrebbe trovato le parole giuste: “ci hanno insegnato la meraviglia/ verso la gente che ruba il pane/ ora sappiamo che è un delitto/ il non rubare quando si ha fame”.
Franco era velocissimo, il primatista nelle corse tra ragazzini. “Mastro, esco per fare pipì”, la scusa di ogni notte. Dietro l’angolo, due pani (uno per me, uno per lui), che riuscivo sempre a nascondere, non appena il principale si distraeva un attimo. Dal forno alla baracca c’erano duecento metri, che Franco percorreva a perdifiato, la refurtiva stretta al corpo come un pallone da rugby e il cuore in gola. Dopo più di cinquant’anni, la fragranza di quel pane rimane irraggiungibile. Al pari di Franco, quando correva come un ladro. Quando ladro non era.
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