giovedì 31 dicembre 2015

Addio 2015, benvenuto 2016



A guardarli dalla coda, tutti gli anni volano in un soffio. Il tempo di metabolizzare la fine delle festività natalizie e arriva Carnevale, poi Pasqua, quindi esplode l’estate: da lì in avanti è una rapida discesa fino a dicembre. Una lunga emozione circolare per ritornare, apparentemente, al punto di partenza. Con i consueti buoni propositi: anno nuovo vita nuova, col nuovo anno si cambia registro, dal primo gennaio spazio solo alle cose che mi fanno stare bene, da domani non mi fregate più.
Come se si potesse davvero programmare tutto. Come se la vita non sia un mistero continuo, affascinante proprio perché sorpresa inaspettata e non stanca pellicola che svolge fotogrammi prestabiliti. Come se non sia impossibile conoscerla senza viverla.
Ogni evento che ha una sua conclusione è ammantato dal velo della nostalgia, per il sol fatto che finisce. Vale anche per le stagioni della vita, per gli anni che si susseguono cancellando fatti e volti.
Restano il rammarico di ciò che poteva essere fatto ed è stato accantonato o rimandato, la consapevolezza di non essere sempre stati all’altezza dei propri sogni, la prosaica constatazione che spesso le cose non vanno come vorremmo e bisogna pure farsene una ragione.
Io non lo so se posso dirmi soddisfatto del mio 2015. Ogni valutazione ha parametri soggettivi che variano da persona a persona. Fino a quando avrò un piatto caldo e un tetto, ad esempio, per me sarà sempre festa. Il resto è contorno.
Mi importano gli incontri che riesco ad avere lungo la strada polverosa ed esaltante della vita. E pazienza se lungo quella stessa strada qualche compagno di viaggio, nel corso dell’anno che oggi volge al termine, ha prenotato la fermata ed è sceso o è stato invitato a scendere. È la vita, bellezza, e non ci possiamo fare niente: nel conto bisogna mettere anche le lacerazioni.
Ci pensa la strada a fare la selezione, quella strada da masticare passo dopo passo: con la tenacia del fabbro che percuote l’incudine del proprio destino, con l’andatura regolare del maratoneta sull’asfalto infuocato.
Per bussola, la propria coscienza.

martedì 29 dicembre 2015

Vittorio Visalli, da Sant’Eufemia al pantheon degli storici

Il 29 dicembre 1932 veniva scoperto presso la biblioteca comunale “Pietro De Nava” di Reggio Calabria il busto in bronzo di Vittorio Visalli, commissionato dal podestà reggino Pasquale Muritano a riconoscimento dei “meriti di storico e di educatore” dell’illustre studioso nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte da Ottaviano e Maddalena Imparato, in una casa che custodiva il vasto patrimonio culturale ereditato dal ramo paterno: i numerosi quadri realizzati dagli zii Paolino e Rocco, la biblioteca di scienze con i volumi degli zii Francesco (laureato in chimica e farmacia, esperto botanico e autore di uno studio sulla flora dell’Aspromonte) e Luigi, i testi di letteratura e di storia di Ottaviano, studioso dei classici latini e traduttore dei Tristia di Ovidio.
La famiglia Visalli, coinvolta nei moti del 1848, fu vittima della persecuzione borbonica: Vitaliano, esattore comunale e nonno di Vittorio, morì latitante, braccato dalla polizia di Ferdinando II perché accusato di avere minacciato di tagliare le mani ai componenti della sua famiglia che avessero sottoscritto la petizione con cui si chiedeva al re delle Due Sicilie il ritiro della costituzione. Tre figli di Vitaliano furono invece arrestati e condannati a diciannove anni dalla Gran corte criminale di Reggio Calabria: Paolino morì in carcere dopo neanche un mese; Vincenzo, che era minorenne, ottenne la riduzione della pena a sette anni; Ottaviano ebbe la condanna commutata in dieci anni di confino (un paio furono poi condonati) che scontò nell’isola di Ventotene in casa del ricco possidente Aniello Imparato, la cui figlia sposò prima di fare ritorno a Sant’Eufemia, dove appunto Vittorio nacque il 15 ottobre 1859.
I primi educatori di Visalli furono il sacerdote Vincenzo Pietropaolo, monsignor Rocco Cutrì e il maestro Francescantonio Cutrì. Nel 1876 conseguì la patente magistrale presso la scuola normale di Reggio e tre anni più tardi l’abilitazione magistrale, quindi ebbe il primo incarico ad Armo, frazione di Gallina. Dopo lo svolgimento del servizio militare, cominciò a ordinare il materiale documentario e i ricordi del genitore, che integrò con il risultato di due anni di ricerche presso l’Archivio di Stato di Napoli (nella cui Università successivamente ottenne l’abilitazione per l’insegnamento della storia e della geografia presso le scuole medie) e presso le biblioteche della città partenopea. Un lavoro meticoloso, concluso nel 1893 con la pubblicazione di un’opera fondamentale per lo studio del Risorgimento calabrese: I Calabresi nel Risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862.
Visalli fu conferenziere e oratore in diverse pubbliche celebrazioni. Gli interventi sopravvissuti alla tragedia del 1908 furono raccolti nel volume Conferenze e discorsi (1911): Il Papato e l’Italia (Messina, 1901); Per l’apertura del convitto “Massimo D’Azeglio”, (Gallico, 1902); Nel centenario della nascita di Giuseppe Mazzini (Messina 1905); Garibaldi (Palmi, 1907); La società calabrese nel Risorgimento (Catanzaro, 1908); Per la festa universale della Pace (Messina, 1908; Catanzaro, 1910). Nel 1907 aveva invece pubblicato Aspromonte, ricostruzione storica dei fatti del 29 agosto 1862, il cui ricavato avrebbe dovuto contribuire alla costruzione di un sanatorio per tubercolosi nella pineta dove si svolse lo scontro tra garibaldini ed esercito regolare.
Insegnò a Palmi, Napoli, Reggio Calabria (Istituto “Lanza”) e Nuoro. A partire dal 1892 fu vice direttore della scuola normale di Messina, dove visse fino al 1908 e dove costituì insieme ad altri la Società calabrese di storia patria e l’associazione “Pro Calabria”.
Il terremoto del 1908 rappresentò per Visalli una cesura esistenziale e professionale. Sotto le macerie dell’abitazione distrutta dal sisma persero la vita sua moglie Giuseppina Augimeri e l’unica figlia, la sedicenne Maddalena. Rimanere nel luogo in cui aveva perso gli affetti più cari diventò troppo doloroso. Ottenne quindi il trasferimento presso la scuola normale di Catanzaro, con l’incarico di direttore, e riacquistò la voglia di vivere. Dietro insistenza della famiglia sposò in seguito Maria Mottareale, che aveva conosciuto a Tivoli (vi si trasferì nel 1914, assumendo l’incarico di direttore della scuola normale), ma che era di origine reggina.
Negli anni della Grande Guerra fu protagonista della propaganda a sostegno dei militari sul fronte e si fece promotore della raccolta dell’oro per la patria. L’11 novembre 1918 tenne una conferenza sulla “Vittoria” nell’aula magna del convitto nazionale di Tivoli; l’anno successivo pubblicò un opuscolo dedicato ai suoi alunni caduti o feriti in guerra, nel quale furono riprodotte le fotografie dei soldati e quella della lapide collocata sull’esterno della scuola.
Nel 1923 fu nominato preside dell’Istituto magistrale “Maffeo Vegio” di Lodi, dove svolse i suoi ultimi anni d’insegnamento prima del collocamento a riposo (1926). Trascorse gli anni della pensione a Reggio Calabria e riprese gli studi sulla storia del Risorgimento in Calabria, compendiati in un’opera edita nel 1928: Lotta e martirio del popolo calabrese (1847-1848), I. Il Quarantasette: 1. Narrazione storica, 2. Note e documenti. Il secondo volume (Il Quarantotto), scritto quasi per intero, fu pubblicato postumo sulla scorta delle indicazioni e degli appunti lasciati dall’autore.
Vittorio Visalli morì il 27 giugno 1931 a Reggio. Due giorni dopo la salma fu trasportata a Gioia Tauro, nel cui cimitero si trova la cappella della famiglia, che lì si era trasferita agli inizi del Novecento.
Il ricco patrimonio bibliotecario e documentario dello storico eufemiese non è andato disperso. La vedova donò infatti alla biblioteca comunale di Reggio circa 1.500 volumi che sono oggi consultabili nel catalogo “Donazione Vittorio Visalli”, mentre la raccolta delle carte utilizzate per la stesura delle opere storiche è conservata presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria (“Fondo Visalli, 1815-1893”).
Sant’Eufemia d’Aspromonte ha dedicato al suo illustre figlio, tra i massimi storici del Risorgimento, una via e la scuola media statale.

mercoledì 16 dicembre 2015

Silenzi

Questo è il colore che preferisco per i tuoi capelli. Miele. Mi piace la versione in cui non sono troppo lunghi, le punte leggermente piegate dal collo verso l’alto, a incorniciare gli occhi cangianti e le labbra cremisi. Proprio come in questa fotografia. Trent’anni fa, ma sembra ieri.
Me lo chiedevi spesso se desideravo che tu cambiassi taglio. Se ti volevo con l’acconciatura corta, lunga, riccia, liscia, bionda o addirittura rossa. Che poi andavi bene comunque, purché ti aggrappassi a me stringendo tra i pugni un pezzo di camicia qua, guarda, proprio dietro ai fianchi.
Ti tengo nel cassetto, ogni tanto ti prendo e ti sistemo oltre il piatto, al centro della tavola: spengo la televisione e ti parlo. Mi salvo così dalle idiozie che ci costringono a vedere e dal campionario di cose inutili che vorrebbero farci comprare. Un mondo dorato, per soli belli e vincenti, da conquistare sgomitando per accaparrarsi un posticino lì davanti, ad ogni costo, pur di superare l’anonimato di maschere erranti.
Ho ancora molte cose da dirti, soffocate da qualche parte. Ne abbiamo avute sempre, anche se sono stato parsimonioso quando non avrei dovuto. E sì che a te sarebbe bastata una parola, una soltanto, per non andare via. Ma non ho saputo tirarla fuori, non sono nemmeno riuscito a capire il senso della tua attesa. Una richiesta di perdono, credo. Ma a chi? Non a te. Non ne avevi bisogno per credermi capace di cancellare il marchio di dolore impresso sulla tua anima.
All’amore, sì. Chiedere scusa all’amore, questo avrei dovuto fare. Perdono per averlo sottovalutato, per avere a ogni ritorno trovato una scusa nuova, buona per giustificare la mia sordità. Come se in amore tutto sia dovuto, conseguente. Come se l’amore non richieda la dedizione del giardiniere. «Non è il momento, ora»: un momento trasformato in anni e infine cristallizzato qui, nella solitudine di parole stanche e mulinate nel vuoto della stanza. Chiedere perdono per avere assecondato l’inganno di un ombrello che non possedevo, per averti costretta a bere il sale delle lacrime misto alla pioggia gelida di febbraio.
L’amore fa compagnia alla tua fotografia, rinchiuso nel cassetto dal giorno in cui mi dicesti che ogni volta che mi guardavi era una pugnalata al cuore, da quando mi urlasti che avevi paura ad amarmi. Resiste, avvinghiato alla bellezza tinta d’arcobaleno dei tuoi vent’anni folli e allegri. Così, per sempre.
Tu aspettavi le mie parole, io il tuo perdono muto. Senza la complicazione di troppe frasi rimuginate per giorni e mesi. Una storia sospesa tra sogno e morte. Tra la speranza del volo e l’incubo dell’abisso. Eppure dovevamo saperlo che la felicità è una luce intermittente, fortissima. Quando arriva, bisogna tenere gli occhi aperti e gustarsela tutta, perché poi non si sa quando ripasserà. Ne abbiamo avuto paura. Come durante un’eclissi di sole, eravamo terrorizzati dall’idea di ferirci gli occhi. Non siamo riusciti a capire che la felicità è essa stessa cecità, perché non ha bisogno di trovare conferme guardandosi attorno.
Forse avremmo rifatto tutto, anche a ripensarci ora, prostrati dal peso delle sconfitte. Chissà, forse è stato giusto così.
Pensieri fuori tempo, per sentirsi migliori senza molta convinzione. Se ragione c’è, è di chi crede che esiste sempre un prezzo da pagare, presto o tardi. Non basta non pensarci più di tanto, illudersi che il fluire della vita sia esso stesso vita o che si possa scappare all’infinito, lo sguardo fisso in avanti.
Uno spettacolo che rivivo al rallentatore fotogramma dopo fotogramma, fallimento dopo fallimento. A passo lento, sulle spalle ogni giorno più stanche la condanna dei miei venticinque anni eterni, impietriti sul molo dell’addio.
Ti guardo. Ora che esserci nemmeno potresti, sei qua. Nello spazio segreto dei miei silenzi, dove in fondo sei sempre vissuta.

lunedì 7 dicembre 2015

Sant'Eufemia e Milano, un legame storico


Il robusto nodo che lega Sant’Eufemia d’Aspromonte a Milano risale al primo decennio del Novecento, ai mesi successivi alla tragedia che il 28 dicembre 1908 portò lutti e rovine, distruggendo un intero paese e provocando la morte di un numero elevatissimo di eufemiesi. Un lungo filo rosso che tiene insieme solidarietà e memoria, facendo rivivere storie lontane nel tempo eppure attuali, che si ripetono ogni volta che un popolo partecipa alla sollevazione materiale e morale di fratelli sconosciuti e sventurati. Prove di umanità utili a ricordarci che è sempre l’amore a fare la differenza, senza bisogno di diventare eroi, ma rimanendo semplicemente uomini e donne normali nella loro capacità di condividere il dolore altrui e di rimboccarsi le maniche. Oggi come ieri, tra le macerie delle case diroccate e dei sogni impolverati.
Alle prime ore del 28 dicembre 1908 Sant’Eufemia fu squassata da un terremoto di magnitudo 7,5 che, per 46 lunghissimi secondi, scosse dalle fondamenta l’intero abitato. Per la terza volta nello spazio di pochi anni il paese subiva un’ulteriore devastazione, dopo quelle dell’8 settembre 1905 (nessuna vittima, ma 41 abitazioni demolite e 383 gravemente danneggiate) e del 23 ottobre 1907 (181 case distrutte).
La nuova scossa tellurica, abbattendosi su abitazioni già ferite, produsse una tragedia dalle proporzioni smisurate. Il numero delle vittime non è mai stato accertato con esattezza, poiché sono discordanti le testimonianze dirette e i dati riportati dagli storici. Furono circa 700 per la giunta comunale (sindaco il notaio Pietro Pentimalli, assessori Ferdinando Cutrì, Luigi Papalia e Pasquale De Laurentiis) che il 14 ottobre 1911 inviò al presidente consiglio Giovanni Giolitti e al ministro dei Lavori Pubblici Ettore Sacchi il documento “Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte”. Secondo altre fonti, i morti potrebbero essere stati molti di più, un migliaio o anche oltre. L’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato, a sette mesi dalla tragedia, riferisce in realtà di 530 vittime, un dato molto vicino a quello di 537 fornito da Vincenzo Tripodi nella sua Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte. Oltre duemila furono i feriti, la percentuale del patrimonio edilizio perduto l’85%. Le abitazioni crollate e quelle demolite in un secondo momento furono complessivamente 1.100, un centinaio quelle parzialmente distrutte. Si salvarono alcune baracche costruite dopo il terremoto del 1894, tra le quali quelle che ospitavano otto aule scolastiche e che furono immediatamente occupate dai terremotati, nonostante la loro precaria solidità.
Il due gennaio 1909 Milano entrò a far parte della storia di Sant’Eufemia. Il giorno dopo Capodanno giunsero infatti in paese i volontari del Comitato Lombardo di Soccorso, che si misero subito al lavoro. La dolorosa istantanea di quello che trovarono è nelle parole del sacerdote Luigi Bagnato: «Non più vie, non più case, alte rovine sotterravano ogni cosa, rovine dalle quali uscivano fuori trave rotte, tristi residui di case, con le suppellettili rotte delle stanze. Sant’Eufemia non esiste più, mutata com’è ora in un cimitero. […] Quanti morti? Le prime voci li portano a mille, a duemila. Circa seicento cadaveri strappati dalle rovine abbiamo trasportato senza alcuna onoranza. Un’ampia fossa fu scavata nel cimitero. Pochi ebbero privata sepoltura. […] Per più giorni, anzi per più di un mese, siamo vissuti sotto le tettoie costruite negli orti e sulla pubblica via con legna e tavole estratte da sotto le macerie».
L’ingegnere Antonio Pellegrini, che redasse la relazione sul lavoro svolto dal comitato, illustrò la divisione dei compiti tra medici, ingegneri e semplici volontari: «Ingegneri e muratori alle demolizioni, all’estrazione dei cadaveri, al recupero di masserizie; medici, volontari, infermieri alla ricerca dei feriti e degli ammalati, alle medicazioni, alla disinfezione dei cadaveri. Né solo questo fu l’aiuto primo portato agli eufemiesi; la povera popolazione, affamata e lacera, ebbe in quantità pane, galletta, carne, pasta, biancheria, coperte, abiti».
Nei terreni della Pezza Grande, sui quali inizialmente erano state sistemate le tende della Croce Rossa, furono costruite tre strade lunghe 140 metri e larghe 10. Tra febbraio e aprile 1909 furono realizzate 54 costruzioni, suddivise in 216 vani, che erano in grado di ospitare oltre 750 persone. L’altezza delle baracche non superava, in genere, i cinque metri.
A marzo fu inaugurato l’ospedale “Milano”, così denominato in segno di gratitudine nei confronti dei soccorritori. La struttura in legno risultava suddivisa in due vani: uno destinato all’ospedale vero e proprio (6 metri per 22), l’altro adibito a cucina e magazzino (4 metri per 12). Il primo comprendeva sei locali: la direzione, l’ambulatorio, una stanza per l’infermiere, una di isolamento, il reparto maschile e quello femminile (in tutto, dodici posti letto).
Al completamento dei lavori, il nuovissimo rione “Città di Milano” contava 759 baracche. Oltre 2.000 eufemiesi si trasferirono nel nuovo sito, che non ospitava soltanto baracche. Il comitato lombardo di soccorso costruì anche l’acquedotto, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa (6 metri per 16), al cui interno fu collocata la statua di Sant’Ambrogio, patrono di Milano, donata alla comunità eufemiese dall’allora cardinale meneghino, Andrea Carlo Ferrari.
Il vincolo di solidarietà e di amicizia che lega Milano e Sant’Eufemia è stato per quasi quattro decenni rinvigorito dall’attività dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, costituita nel dicembre del 1975, protagonista di alcune delle pagine più significative dell’associazionismo eufemiese e promotrice sul finire degli anni Settanta del gemellaggio tra le due città. Più volte una sua delegazione ha partecipato come “ospite d’onore” alle celebrazioni ambrosiane che si tengono a Milano presso la Basilica di Sant’Ambrogio e, nell’edizione del 2001, il presidente Vincenzino Fedele ha potuto ritirare, a nome dell’associazione, il prestigioso “Ambrogino d’Oro”.

*L’immagine è tratta da Antonio Pellegrini, “La rinascita d’un paese devastato dal terremoto”, ora in Terremoto Calabro-Siculo del 28 dicembre 1908. L’opera della Croce Rossa Italiana e del gruppo indipendente fiorentino, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova 2008, p. 228.

lunedì 23 novembre 2015

Il maggiore Luigi Cutrì

Il 30 novembre ricorre il centenario della morte del maggiore Luigi Cutrì, medaglia d’argento al valor militare nella Prima Guerra Mondiale, al quale Sant’Eufemia dedica una delle sue vie più importanti nel rione Pezzagrande, sorto ex-novo in seguito al terremoto del 1908. Per la sua ampiezza, via maggiore Cutrì è anche nota come “la quindici metri” e tutt’ora ospita le bancarelle del tradizionale mercato domenicale. 
Un’occasione per fare memoria riproponendo, con qualche modifica non sostanziale, la biografia di questo figlio della nostra terra che avevo già ricostruito nel libro Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (Nuove Edizioni Barbaro, 2013, pp. 48-50).
 
Luigi Cutrì, di Bruno e Maria Giuseppa Versace, nacque a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 9 agosto 1869. Ad appena 17 anni si arruolò volontario nell’esercito e da sottotenente, nel 1889, prese parte alla campagna di Etiopia, guadagnando una medaglia di bronzo e l’encomio solenne del capitano Umberto Ademollo:
Egli – ricordò Bruno Gioffrè nella commemorazione ufficiale – era già sottotenente, allor quando un funesto delirio di imperialismo trascinava le nostre schiere, i soldati della rivoluzione più civile e più santa, alla conquista dell’agguerrita Etiopia, alla sconfitta d’Adua. Ma non onta gli venne della sconfitta collettiva: egli, al seguito della brigata Da Bormida, che vi segnò col sangue pagine eroiche, in una memoranda carica di baionetta, che parve, per brev’ora, foriera di vittoria, egli emerse combattendo da leone, come di lui scrisse allora il capitano Ademollo, e una medaglia al valore, e la rapida promozione a tenente sancirono ed onorarono l’alta condotta del prode.

Nel 1911 partecipò con il grado di capitano alla guerra italo-turca (o di Libia) che consegnò all’Italia la “quarta sponda” e ne determinò l’ingresso vero e proprio tra le potenze coloniali del tempo. Tra novembre e dicembre, si distinse negli scontri che, a Derna, videro impegnati i soldati italiani agli ordini del generale Vittorio Trombi contro le truppe capeggiate da Enver Bey, che sarebbe stato tra i responsabili del genocidio armeno durante la prima guerra mondiale. L’impresa valse a Cutrì il conferimento della croce dell’Ordine militare dei Savoia:
E quando – prosegue Gioffrè – squillò di nuovo la diana di guerra, quando fra i minareti e fra le palme di Libia ruggì sui venti del deserto, come carne d’Omero, la rapsodia novissima dei garibaldini del mare, egli fu a Derna, modello e sprone a tutti, costruttore ingegnoso e paladino invincibile della gloriosa ridotta che fu, in suo onore, battezzata col nome di Calabria. Tutti leggemmo le difesa magnifica ch’egli fece, nell’aspra notte in cui l’orde fanatiche del più gran generale del nemico, Enver Bey, l’assalirono con forze enormi e accanimento feroce. Tutti apprendemmo che la compagnia del capitano Cutrì era la vera compagnia della morte: prima per ardimento, per disciplina, per fede. Egli tornò dall’Africa fiero e felice più del successo nazionale, che della croce dell’Ordine Militare di Savoia che gli fregiava il petto, segno supremo d’onore concesso a pochi sommi, e del quale ebbe a Genova, non è ancora un anno, la compiacenza e la ammirazione del Re. Di lui scriveva ne’ suoi rapporti ufficiali la radiosa figura del Generale Trombi, testé passata dal turbine di guerra agli ideali splendori della gloria: «mai medaglia al valore brillò più degnamente al petto di un soldato». E il capitano La Paglia, ufficiale al seguito dell’eminente Generale Lequio, ci diceva commosso: «il vostro concittadino, Capitano Cutrì, onora davvero l’esercito».

Nel testo del decreto reale che accompagnò la consegna della medaglia si legge:
Per l’ammirevole prova di coraggio ed ardimento, data nella notte dall’11 al 12 febbraio 1912, impartendo sotto il fuoco nemico eccellenti disposizioni, dirigendo ottimamente il fuoco ed incitando con l’eroico suo esempio i dipendenti alla resistenza, con la quale riuscì a respingere brillantemente un violento attacco nemico.

Allo scoppio della Grande Guerra, Cutrì partì volontario e fu destinato al fronte sul Carso. Ferito il 4 luglio nell’assalto portato dalle truppe italiane al monte Podgora (Piedimonte di Calvario, frazione di Gorizia), fu nominato maggiore del 12° reggimento fucilieri per merito di guerra e assunse il comando del battaglione. Morì il 30 novembre 1915, nel corso dell’ennesimo scontro sul monte Podgora, durante la Quarta battaglia dell’Isonzo. Il rapporto ufficiale, redatto l’11 dicembre successivo, metteva in evidenza l’eroismo del militare eufemiese:
Dacché assunse il Comando del Battaglione, s’impose subito ai dipendenti, ufficiali e truppa, per le sue eccellenti virtù militari e per le squisite qualità di cuore. Egli volle con diligenza coscienziosa ispezionare le posizioni, riconoscere tutto il settore d’operazione, rendersi conto di tutto prima d’impegnare le sue truppe. Amava percorrere di giorno e di notte le posizioni, sollecitando i lavori di rafforzamento e le opere di approccio alle trincee nemiche, dando suggerimenti, incoraggiando. Ed i soldati restavano incoraggiati per il solo fatto che lo vedevano e lo sentivano in mezzo a loro, come loro esposto a tutti i rischi, e più di chiunque impavido. Tutti ammiravano il suo coraggio, soprattutto perché il disprezzo del pericolo in lui derivava non da un senso di passiva rassegnazione alla fatalità, bensì da una fonte più pura e più degna: il sentimento del dovere.

E ancora al suo eroico senso del dovere l’arcidiacono Antonino Tripodi, che ne era stato compagno di scuola, improntò il suo “discorso in memoria”:
Luigi Cutrì ferito, dolorante all’ospedale non mostrava altro desiderio che di guarire presto per tornare al fronte coi suoi fratelli. E tornò, non completamente guarito, e combatté da valoroso e guidò le sue truppe più volte con slancio magnifico alla vittoria.

Decorato di medaglia d’argento al valor militare e definito dallo stesso Tripodi “un poeta della milizia”, a Luigi Cutrì i fascisti di Sant’Eufemia d’Aspromonte intitolarono il fascio di combattimento costituito nel 1922.

*Fonti:
- Ministero della Guerra, Militari caduti nella guerra nazionale 1915-1918. Albo d’oro, volume IV – Calabria, Provveditorato generale dello Stato – Libreria, Roma 1928, anno VI (ristampato da Iiriti editore, Reggio Calabria 2008), ad nomen.
- Bruno Gioffrè, Per un prode. In onore di Luigi Cutrì, maggiore del 12° reggimento fanteria, caduto sul campo il 30 novembre 1915, Ditta D’Amico, Messina 1916.
- Enzo Misefari – Antonio Marzotti, L’avvento del fascismo in Calabria, pellegrini editore, Cosenza 1980, p. 121.
- Antonino Tripodi, Discorso in memoria di Luigi Cutrì, in Calabria avanti (a cura di Pasquale Enzo Tripodi), Edizioni Dimensione 80, Roma 1981, pp. 93-105. Ivi, pp. 101-102.
- Francesco Marafioti, Il maggiore Luigi Cutrì, in “Incontri” – periodico edito dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, numero unico in attesa di registrazione, dicembre 1988, p. 4.
**La fotografia del maggiore Luigi Cutrì è tratta da: Caterina Iero, Sancta Euphemia. Cenni storici, vita civile e costumi a Sant’Eufemia d’Aspromonte, Laruffa Editore, Reggio Calabria 1997, p. 157.

martedì 17 novembre 2015

Parigi vista da Londra

Foto @MarioForgione
Gli attentati di Parigi sono stati definiti l’11 settembre europeo. Come allora, è stato ripetuto che niente sarà più come prima. I venti di guerra e la minaccia di ulteriori atti terroristici minano le nostre certezze di occidentali: saremo costretti a cambiare abitudini ed è probabile che sull’altare di una maggiore sicurezza dovremo sacrificare un po’ delle nostre libertà. Mio fratello Mario da quasi due decenni vive a Londra, che ha già subito attentati e che è nel mirino dell’Isis. Ha voluto affidare al mio blog una sua riflessione su ciò che significa vivere in una metropoli a rischio e ci ha confidato come pensa di “combattere” questa guerra: non cambiando niente delle sue abitudini, proprio perché lo scopo dei terroristi è sconvolgere la nostra quotidianità.

Lo ammetto. Negli anni ho fatto del distacco emotivo un’arte. Scopi conoscitivi a parte, raramente seguo o mi preoccupo di cose che non mi toccano personalmente o comunque da molto vicino. Per questo motivo, mi ha creato disagio leggere il fiume di parole e le opinioni riversate sui social media nelle ore successive all’attentato di Parigi.
Il tema del terrorismo mi sta a cuore: perché mi sento cittadino del mondo; perché faccio la spola tra Londra e l’America; perché quando a Londra il 7 luglio 2005 Al-Qaeda fece saltare uno dei treni in metropolitana, quello sul quale stavo leggendo distrattamente il giornale mentre mi recavo al lavoro era passato dal luogo dell’esplosione dieci minuti prima; perché soltanto negli ultimi sei mesi i servizi segreti inglesi hanno sventato sette attentati terroristici nella capitale londinese, la città in cui vivo da diciotto anni.
E’ una questione di tempo. Non “se” succederà, ma “quando”. Un giorno, un po’ come accade con il corpo umano, un’altra cellula impazzita riuscirà a bucare la rete protettiva e porterà altra distruzione, altro terrore, altro sangue. A Londra ho imparato a vivere con questa certezza che crea incertezza: «Forse oggi qualcuno seduto accanto a me nella metro o sul bus si farà saltare in aria, ed io con lui. Poi vallo a raccontare a mia madre!». Questo pensiero, disarmante nella sua fatale ed agghiacciante semplicità, attraversa spesso la mia mente, soprattutto da quando è diventato evidente che i proclami sono inutili e che l’ISIS è imprevedibile.
Che fare, allora? Ci ho pensato e ripensato, mesi di turbamento per arrivare al mio personale convincimento: NIENTE. Non farò niente. Non cambierò niente nella mia vita. E sono sereno, oggi più che mai. Nel mio piccolo combatto così, con l’indifferenza, la mia quotidiana e personale guerra contro l’estremismo.
Mi sveglio ogni mattino e decido di vivere un altro giorno come ho sempre fatto, perché il terrorista vorrebbe impedirmi proprio di fare questo: vorrebbe annichilirmi e destabilizzarmi. Allora, no. Davanti alle loro azioni io faccio spallucce: scelgo di vivere, non di sopravvivere.
Da quando ho sviluppato una mia coscienza individuale conduco la mia vita come se il momento attuale fosse l’ultimo. Non mi curo del passato o di un ipotetico futuro. Ciò che mi importa sta accadendo ora: il presente da assaporare e vivere mentre si svolge. Sono consapevole di quanto sia effimera la vita, di come tutto diventi niente nello spazio temporale di un attimo. Forse un giorno mi troverò al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma non sto qua a preoccuparmene, oggi.
Se malauguratamente dovesse accadere, preferirei però andarmene senza eccessivi clamori, senza proclami da eroe di cui non avrei bisogno, senza tributi su Facebook e senza quella platealità che oggi sembra regnare sovrana, platealità di cui si nutre qualsiasi cellula estremista.
Meglio il silenzio. E con il silenzio scelgo anche di non reagire, perché non vedo come si possa sconfiggere il terrore con l’orrore di una nuova guerra santa. Fare scoppiare una guerra sarebbe una loro vittoria, non la mia. Le azioni dei gruppi terroristici sono sempre mirate a provocare una reazione. Sono loro a volere la guerra, perché la guerra alimenta il radicalismo. Abbiamo potuto verificarlo dopo l’Iraq e dopo la Libia. Se solo guardassimo al passato non commetteremmo gli stessi errori con ciclica regolarità. Una storia nota, un succedersi di reazioni sbagliate ed eternamente uguali a se stesse. Non impareremo mai.
Mario Forgione

venerdì 13 novembre 2015

Padre e figlio

Sarebbe naturale dire che ho il più bel padre del mondo. Il migliore dei papà possibili. Il più forte, il più buono, il più simpatico. Sarebbe ovvio perché è sempre così per tutti i figli del pianeta, nella stragrande maggioranza dei casi. I figli so’ piezz’ ’e core, ma altrettanto lo sono i genitori. L’amore smussa gli angoli, rende comprensivi e facili al perdono, spinge alla giustificazione di difetti più o meno grandi. Le cose stanno così per lungo tempo. I fanciulli osservano la vita dal bosco incognito e popolato da esseri dai quali occorre essere protetti. Nella realtà quasi fiabesca dell’infanzia tocca ai papà sconfiggere gli orchi. Il loro abbraccio scaccia via la paura: “lo dico a mio papà”, la frase magica alla quale ricorrere per avere la certezza di nessun capello torto.
Non sono più un bambino, da troppi anni ormai. Guardo il mondo da un punto di vista che, pur poggiando su basi solide, muta giorno dopo giorno, spinto dall’interesse per il gioco delle prospettive e dalla deliberata volontà di scindere i sentimenti dai fatti e dalle persone. Uno sforzo di obiettività che richiede rigore, altrimenti non se ne esce. Altrimenti tutto diventa complicato e ogni azione, ogni considerazione rischiano di apparire poco credibili.
Mio padre, che oggi compie settant’anni, potrebbe pertanto anche non essere il migliore dei padri possibili. O meglio, potrebbe non esserlo più. Ora che io non sono più un ragazzino, intendo dire. Ora che la riflessione oggettiva può avere gioco sull’affetto filiale. Ora che questo signore dai capelli bianchi ha smarrito lungo il suo cammino di uomo le qualità riconosciute istintivamente da ogni bimbo al proprio genitore: l’infallibilità di un pontefice e l’invincibilità dei supereroi Marvel. Ora che le distanze si sono accorciate e il rapporto è tra due uomini che un tempo sono stati padre e figlio. Ora che con tenerezza scopro in lui le insorgenti fragilità procurate dall’inesorabile incedere degli anni. Ora che so che fuori dalle pareti tiepide del nido si vince e si perde, e non ci sono padri che tengano. Ora che scorgo incastrate tra le sue rughe vittorie e sconfitte.
Ma se anche non fosse il migliore dei padri possibili, ecco: non avrebbe importanza. Non ha più importanza. Importa che è mio padre, che è stato mio papà, che ha condotto la sua vita e quella della nostra famiglia fino a qua. Fino a me davanti a questo monitor e alle mie dita che picchiettano inquiete sulla tastiera.
Importano le sue parole, che raccolgo e che ogni tanto spargo sui racconti come semi sulla terra arata. Con un gesto ampio del braccio, plateale. Il racconto diventa strumento di resistenza alla morte, perché in ogni storia c’è il miracolo della vita, della fatica della vita. Cicatrici e circo. La vita vissuta in prima persona, quella sentita sulla propria pelle anche se era sorte altrui, quella inseguita, quella abbandonata e quella trovata da qualche parte. Lontano. Una storia che mi precede, ma che pulsa viva nelle mie vene, che porto stampata sulla carta d’identità, nome di terra sperduta per gente in cerca di una possibilità. Una storia che sa del freddo delle baracche, di fame e di orgoglio. Di coraggio. Di partenze e di ritorni.
Fotogrammi veloci sui quali sfilano il sorriso dei santi e lo sguardo dei banditi, a conficcare come spilli la carne viva. Ogni ricordo un affondo.

venerdì 6 novembre 2015

Sant'Eufemia d'Aspromonte e la Grande Guerra


Il tributo di sangue versato dal popolo eufemiese per la causa nazionale nella Prima guerra mondiale porta il nome di ottantotto giovani chiamati a combattere in terre lontane e sconosciute, accanto a soldati dei quali risultava complicato comprendere i discorsi, in un’epoca in cui ogni italiano parlava il dialetto della propria terra d’origine e, nella trincea, il calabrese riusciva a farsi capire dal veneto o dal sardo soltanto a gesti.
Degli ottantotto morti sul fronte o in qualche ospedale militare, quattro ebbero l’onore dell’intitolazione di una strada nel nuovissimo quartiere Pezzagrande, sorto negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, in conseguenza dell’edificazione post terremoto 1908.
La medaglia di bronzo al valor militare Salvatore Crea fu sergente presso il 161° reggimento fanteria “Ivrea”. Impegnato sull’altipiano di Asiago fino all’estate del 1916, da ottobre fu trasferito in Macedonia, dove trovò la morte a neanche 28 anni, il 12 aprile 1917, nel corso degli scontri per conquistare “quota 1.050” nel settore del Colle di Vrata-Meglenci.
Lo studente ventitreenne Antonino Rechichi prese parte alla Grande Guerra come sottotenente nel 227° reggimento fanteria “Rovigo” e morì sul Carso il 2 novembre 1916, durante la IX battaglia dell’Isonzo, in uno dei tanti assalti per la conquista di monte San Marco.
L’avvocato Emilio Tropeano, tenente nel III reggimento Genio, chiuse gli occhi in un lettino dell’ospedale militare di Messina l’11 ottobre 1917, all’età di ventinove anni.
Informazioni più dettagliate riguardano invece la biografia della medaglia d’argento al valor militare Luigi Cutrì, in virtù della pubblicazione del discorso commemorativo tenuto dal medico, poeta e scrittore Bruno Gioffré nella sala del consiglio comunale il 3 gennaio 1916 (Per un prode. In onore di Luigi Cutrì, maggiore del 12° reggimento fanteria, caduto sul campo il 30 novembre 1915) e a quella dell’orazione dell’arcidiacono Antonino Tripodi, il quale nel suo Discorso in memoria di Luigi Cutrì definì “poeta della milizia” il compagno di banco al quale i fascisti eufemiesi, nel 1922, dedicarono il fascio di combattimento appena costituito.
La carriera di Luigi Cutrì al servizio dell’esercito italiano era iniziata a diciassette anni, età in cui si arruolò volontario. A venti, nel 1889, partecipò da sottotenente alla guerra d’Eritrea e guadagnò una medaglia di bronzo, la promozione al grado di tenente e l’encomio solenne del capitano Umberto Ademollo. Nel 1911, con i gradi di capitano, fu tra i protagonisti della vittoria italiana nella guerra italo-turca (o di Libia), al termine della quale poté fregiarsi il petto della prestigiosa croce dell’Ordine militare dei Savoia. Allo scoppio della Grande Guerra, chiese di partire volontario. Ferito una prima volta il 4 luglio 1915 nell’assalto per la conquista del monte Podgora (Piedimonte del Calvario, frazione di Gorizia), fu nominato maggiore del XII reggimento fucilieri per merito di guerra e assunse il comando del battaglione. Proprio mentre attorno al monte Podgora infuriavano i combattimenti della IV battaglia dell’Isonzo, Luigi Cutrì moriva sul campo, il 30 novembre 1915.
Via maggiore Cutrì si trova nel cuore di Sant’Eufemia ed è la strada più ampia del centro urbano, una caratteristica evidenziata dall’espressione «’a quindici metri», che la definisce nel gergo popolare.

*La cartolina commemorativa dei caduti eufemiesi nella Grande Guerra è di Caterina Iero, che ringrazio per la gentile concessione.

martedì 27 ottobre 2015

La finestra senza cielo

Lo sguardo rivolto alla finestra si scontra con il grigio del cemento, oltre il vetro. Un tempo infinito senza vedere l’azzurro del cielo o uno scampolo di vita. Senza sapere niente del freddo di fuori. Con quella voce che rimbomba in testa: «Se è ematoma, svuotiamo. Altrimenti bisognerà tagliare la gamba». E la risposta glaciale di chi ha soltanto sete di verità: «Quel che sarà, purché si esca da questo stato di incertezza». Non è la spavalderia di un ragazzo convinto di poter masticare il mondo. È la ricerca di un appiglio al quale aggrapparsi per ricominciare. Anche con una gamba, purché finisca l’odissea di cliniche, ospedali e oncologi da Sud a Nord. Ecografia-tac-risonanza magnetica; ecografia-tac-risonanza magnetica: «Se non è un ematoma, è un tumore». L’odore di anice del mezzo di contrasto, il colpo di sonno dentro al macchinario della risonanza magnetica, i fogli dell’anamnesi da riempire ogni volta. Le storie ascoltate da compagni di stanza transitori. Infine Gianni, alto e milanista, beccato dal primario con una sigaretta da divorare in pochi, rapidi, profondissimi tiri. Trenta maledetti secondi.
Il camice e la cuffia, il gelo della sala operatoria e la voce di Lucio Battisti in sottofondo, che si allontana sempre di più... Buio. Risveglio. La mano che corre subito sulla gamba, a tastare. C’è. Chissà, forse potrò giocare a calcio tra qualche mese: lo chiederò al primario, appena passa.
Caldo, caldo, un incendio divampato dentro al corpo e la sensazione di un naufragio, il centro del materasso un buco nero che risucchia e fa inabissare. Caduta libera, l’interruttore si spegne. Buio. Di nuovo buio e di nuovo sala operatoria. Al ritorno Gianni non c’è. Ci sono le sue ciabatte, resteranno a lungo ai piedi del letto. L’intimazione alla moglie è di non toccarle, deve tornare lui a riprenderle. Anche Gianni raddoppia, ma per lui niente tripletta: «Ok, tu hai tre interventi in anestesia totale in dieci giorni, ma io ho due operazioni e una settimana di terapia intensiva», il bilancio finale di giornate furibonde, addolcite dal sorriso dell’infermiere: «Ma voi due non ne volete sapere di andare via da quest’ospedale?».
Non credo ai miracoli, né alla fatalità o alle pagine già scritte. Credo nella preparazione, nella tempestività e nei nervi saldi di chi ha capito che era emofilia. Credo in sette sacche di sangue passate nelle vene, come il carburante dalla pompa del distributore al serbatoio della macchina. Credo nella simpatia del chirurgo prima dell’ultimo incontro in sala operatoria: «Non fare scherzi, perché io non ti apro più». Credo in quattro lunghissimi mesi di endovene a base di fattore VIII sintetico, le braccia doloranti e l’eredità di un’insofferenza istintiva per le attese nei corridoi degli ospedali. Credo negli occhi lucidi dell’abbraccio finale con Gianni, che resta un mese in più e si aggiudica il premio ideale di “arredo umano” della clinica Humanitas di Rozzano.
E credo agli attimi in cui avrei voluto fermare il tempo, davanti alla grande vetrata che apre sul giardino e fa baciare dal sole il mio viso scolorito, mentre sul prato i passeri saltellano spensierati.

lunedì 19 ottobre 2015

Acquamarina

Se tu fossi qui, ora, sarebbe un cielo terso. Acquamarina come i miei occhi. Come i tuoi. E noi sotto, a parlarci del tempo che scappa, dei tuoi capelli sempre più bianchi e del senso di solitudine che mi assale prima di ogni partenza. Il mio pomeriggio sarebbe altro da queste quattro mura tappezzate di poster superati, che però non me la sono sentita di levare. Diversa la play-list selezionata sul portatile, meno malinconica. Non vivrei il distacco dai tuoi libri sulle mensole come un abbandono. Il poco che ho di te, che mi invoca per farsi trovare tra righe lette trenta o quarant’anni fa. Ti scopro in una freccetta verde o rossa tracciata con delicatezza sul margine di pagine sciupate, quasi impercettibile ma fondamentale per la mia ricerca di figlia che non ha conosciuto il genitore. Tu sei là, nel primato del viaggio sulla meta e nella ricerca della felicità di Kerouac; o nella protervia con cui il giovane Holden si rifiuta di varcare la soglia dell’adolescenza. L’America sbirciata sui libri e vista al cinema dalla tua generazione, quando sognare non era ancora un lusso difficile da mantenere.
La mia testa è nell’unico posto in cui posso trovarti. Un altrove fatto di assenza. Non di rimpianto. Si rimpiange ciò che si ha avuto, conosciuto, amato. Sei stato mio padre per così troppo poco tempo che non riesco a darti una collocazione tra le caselle dei sentimenti. Sei da qualche parte, offuscato da una nebbia impenetrabile che è il senso di noi, un vuoto che aggredisce lo stomaco come un virus e non permette di respirare.
Sei un papà di seconda o terza mano. Sei il figlio di nonna, il marito di mamma, l’amico di conoscenti. Non sei mio padre. Non lo sei mai stato, anche se ti ho visto ridere in vecchie fotografie, con lo spumante tra le mani dietro di me che stavo dietro alla torta con una sola candelina. Vent’anni fa. Anche se concentrata sulle pagine di un libro ho la tua identica, attenta espressione di chi non avrebbe bisogno di nient’altro per resistere a colpi che piovono da ogni parte.
Dicono che la mia irrequietezza era la tua, la stessa irriverente smania di spaccare il mondo. Col tempo forse saresti cambiato e mi avresti invitato alla prudenza. I papà sanno sempre cos’è giusto perché sono infallibili, almeno fino a quando i figli non diventano adulti. Poi no, il rapporto tende a diventare paritario e allora sì che cominciano i dolori, gli scontri. Questa fase non la conosco, mi tocca fidarmi di quello che osservo accadere ai miei coetanei. Ma sono sicura che per noi sarebbe stato differente, che ci saremmo capiti. Che avresti assecondato il mio anelito di libertà. Se c’è una cosa che mi manca, è proprio il conforto di avere te dalla mia parte, qualsiasi cosa io decida di fare. So che tu lo avresti fatto, a sentire chi ti ha vissuto accanto: «Non bisogna mai permettere che siano gli altri a decidere per noi. Mai».
Avresti saputo accompagnarmi con discrezione, da lontano, pronto a scattare in mio soccorso. Forse arricciando le labbra come facevi tu, in una sorta di tic che non so ripetere. Mi avresti dato i consigli che da te non ho mai avuto e che ho dovuto intuire guardandomi attorno.
Ti rivedo in rari fotogrammi della mia memoria, mentre sei con me e con il mio inseparabile compagno di giochi, un cavallo rosso di plastica con le rotelline che ci divertivamo a fare correre nel salotto. Il tuo viso è allegro, come quando mi osservavi di là dalla finestra bassa della scuola materna con il vassoio dei cornetti caldi in mano. La scarna dimensione dei ricordi, un soffio leggero che dona linfa alla tua vita e la fonde con la mia.

giovedì 8 ottobre 2015

Via Grande

Più di venti anni fa Nino Caserta, maestro elementare di generazioni di eufemiesi, in cinque puntate raccontò per la rivista “Incontri” (edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio dal 1988 al 2005) la storia del giornale murale “Via Grande”, realizzato dai suoi alunni sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso. “Un’occasione – spiegò – per fare il punto su un’epoca, su quel senso della famiglia e della vita, sui valori che hanno irrobustito quelle generazioni”.
Per ricostruire il “piccolo mondo antico” della Sant’Eufemia uscita dal dopoguerra e pronta ad offrire le braccia dei propri figli alle fabbriche del Nord o alle lontane terre d’Oltreoceano Caserta spulcia vecchie pagine ingiallite che riproducono poesie, favole, disegni, lettere, proverbi, spaccati di vita quotidiana. Il risultato finale è un affresco di gente semplice e laboriosa, dignitosa anche quando soffre il freddo e la fame, animata dalla speranza di un futuro migliore, confortata dal prevalere di sentimenti di condivisone, solidarietà. Rileggendo le parole scritte dai nonni di oggi rivediamo il paese di allora, i suoi costumi, la sua storia: San Bartolo con i vecchi muri del monastero, la chiesetta e la “Fontana dei Monaci”, la promessa di fidanzamento di una giovane coppia, il carnevale per le strade e nelle case, i giochi di piazza, il mercato settimanale con i prodotti della terra e il pesce fresco delle gerle che le bagnarote trasportavano sulla testa. Il duro lavoro dei campi e la consapevolezza del valore della fatica e delle rinunce: “Gesù fa che mio padre e mio fratello non si facciano male al lavoro”, supplica un bambino costretto a crescere in fretta, perché i bisogni materiali rendono maturi e responsabili sin da piccoli. Il titolo del giornale non è casuale. Rimanda a una delle strade più antiche del paese, situata nell’attuale Vecchio Abitato (o Paese Vecchio), “grande” se confrontata con i vicoli caratteristici dell’originario assetto urbano di Sant’Eufemia, precedente ai terremoti del 1783 e del 1908. Su via Grande, larga un paio di metri, si innestavano stradine secondarie ancora più strette e corte, per tutto il tragitto che collegava la chiesa Matrice con piazza Mercato (oggi piazza Purgatorio). Una scelta identitaria, che sottintende la volontà di raccogliere “la memoria delle cose più lontane”, di riscoprire – annota Caserta – “costumi e valori, figure e usanze che poi ciascuno si porta dietro come corredo e ricchezza dell’essere figlio di una patria, quella piccola del paesino e quella grande col nome Italia, con la coscienza più o meno acquisita di essere egli stesso tessera dell’immenso mosaico che dalla singola persona può giungere all’armonica convivenza di una società”.
Scopriamo che nell’anno scolastico 1958-59 la scuola elementare “Don Bosco” fu sede provinciale della sperimentazione del C.R.E.S. (centro ricreativo educativo scolastico). Al termine dell’orario delle lezioni i bambini consumavano il pranzo nello stesso edificio scolastico, quindi venivano affidati a un’equipe di insegnanti che coordinava le attività formative del Centro (studio e ricerca; canto e danza; tecniche pittoriche e manuali; teatro e giochi): lavori di falegnameria, di carta e di creta, ma anche dipinti, lettura di libri, esecuzione di canzoni, giochi nel cortile.
Lorenzo fissa sulla carta bambini intenti a soffiare sui bracieri non sempre di ottone, che Felice rivela essere accesi prima di entrare nell’aula: “accendiamo i bracieri, poi li portiamo in classe e quando abbiamo le mani fredde andiamo a riscaldarcele, perché fa molto freddo”. D’altronde ha ragione Andrea quando osserva che con le mani fredde è impossibile scrivere bene. Fuori dalla scuola è diverso: “quando le mani si raffreddano, entriamo in una casa qualsiasi e ci riscaldiamo”, dichiara Diego. Mentre Giovanni racconta che, quando nevica, i bambini costruiscono una slitta con due tavolette di legno e si lanciano nelle discese del paese.
Sono fanciulli attenti alla natura che li circonda: il canto degli uccelli, la fioritura degli alberi e l’esplodere della primavera. Conoscono il mutare delle stagioni e il fenomeno della transumanza delle greggi e delle famiglie, raccontata con parole che sembrano prese in prestito da Corrado Alvaro. Giuseppe annota che “i pastori non ci sono più: sono andati in pianura, vicino al mare, dove fa più caldo”; e Stefano, di rimando: “sull’Aspromonte ci sono tanti greggi e tanti pastori. Proprio accanto a casa mia abitano sei pastori. Qualche volta essi portano le loro pecore al pascolo nelle mie terre e le portano perché c’è tanta erba e non si può falciare. Quando viene il mese di gennaio e fa freddo, essi se ne scendono con le pecore e le portano a Rosarno. Nel mese di marzo se ne tornano ancora sui monti perché laggiù comincia a fare caldo”.
Dal locale al globale, gli alunni del maestro Caserta si interessano anche della corsa allo spazio tra Unione Sovietica e Stati Uniti, una delle tante pagine della guerra fredda combattuta dalle due superpotenze mondiali. Dieci anni prima che Tito Stagno pronunciasse in diretta televisiva “ha toccato: l’uomo è sbarcato sulla Luna”, Lorenzo disegna Un razzo verso la Luna e commenta: “La Russia e l’America vogliono sapere cosa c’è sull’altra faccia della Luna. Siccome la Luna a noi fa vedere una sola faccia, essi mandano dei razzi e li fanno posare sopra la Luna. Ancora nessun razzo si è posato sulla Luna, ma gli scienziati prevedono che questo che c’è in volo forse si poserà”.
Il giornale si occupa anche di televisione, nuovissimo mezzo di comunicazione che in quegli anni cominciava ad entrare nelle case dei più benestanti, non in quella della maggior parte dei piccoli redattori di “Via Grande”. Nelle case dei pochi possessori di un televisore la gente delle rughe si radunava per assistere alle trasmissioni del tempo. A Gilberto piace “La TV per i ragazzi”, in particolare la serie televisiva Ivanoe, tratta dall’omonimo romanzo storico di Walter Scott, che fece conoscere al grande pubblico l’attore Roger Moore, il futuro James Bond.
Il programma del momento è però Il Musichiere, condotto da Mario Riva: “è un gioco divertente e ci sono concorrenti di ogni regione d’Italia”, spiega Sergio per descrivere la trasmissione diventata molto popolare tra il 1957 e il 1960. Non appena l’orchestra di Gorni Kramer accennava un motivetto, due concorrenti in scarpette da tennis saltavano dalla sedia a dondolo e scattavano per suonare la campana e poter così tentare di dare la risposta esatta.
A una puntata del Musichiere prese parte l’eufemiese Pippo Pecora, un portento nel riconoscere le canzoni che per la troppa foga, tuttavia, cadde sulla canzone September in the rain, celebre brano interpretato da molti artisti, tra i quali Frank Sinatra. La conosceva, ma invece di “settembre” pronunciò “novembre”, per la delusione delle centinaia di spettatori che in quel lontano sabato sera riempirono piazza Matteotti per vedere il proprio compaesano nel televisore issato sul muretto da Cosimo ’u cipuddaru, che li vendeva.

lunedì 28 settembre 2015

REGGIO: l'Archivio di Stato ha presentato il libro “Minita” di Domenico Forgione



*Dal blog Disoblio Edizioni:

“Una costellazione di storie in cui si avverte la nostra identità calabrese”. È con queste parole di Mirella Marra che venerdì 25 settembre, presso l'Archivio di Stato di Reggio Calabria, si è aperta la presentazione del libro “Minita” di Domenico Forgione (Disoblio Edizioni). È un libro che trasuda il profumo di una ricchissima vita interiore – ha continuato la direttrice dell'Archivio di Stato – che sta qui ma che sta anche altrove, nella Calabria vera di oggi e in quella trasognata di domani. “Minita” desta curiosità fin dalle prime pagine. Il piacere di una lettura del genere sta nella bellezza narrativa e nel fascino dei bozzetti di vita quotidiana, che l'autore racconta in maniera versatile, senza dimenticare nulla: biografia, personaggi, storia e microstoria s'intersecano con la musica, il cinema, i libri e i tanti altri punti di riferimento di una generazione cresciuta prima della rivoluzione digitale segnata dall'avvento di nuove tecnologie, prima fra tutte internet. È un canovaccio per tante altre storie e tante altre creazioni artistiche. Penso al cinema o al teatro ai quali i racconti di “Minita” si prestano molto, dal momento che narrano le vicende nelle quali molti calabresi possono riconoscere se stessi, il proprio passato e i valori, imparati dai nostri antenati, che oggi spesso dimentichiamo. L'Archivio di Stato – ha concluso Mirella Marra – è felice di presentare questo libro perché rappresenta un ulteriore piccolo passo, un ulteriore contributo nel cammino della riscoperta della nostra identità.
Dedico questa presentazione – ha chiarito Domenico Forgione conversando con l'editore Salvatore Bellantone – all'amico Totò Ligato, che ci ha lasciato troppo presto e con il quale abbiamo condiviso diverse battaglie nel racconto e nella difesa della nostra terra. “Minita” nasce dalla blogosfera ma lo diventa veramente una volta diventato un libro. Qui troviamo un percorso di citazioni che ha il senso di proporre al lettore un sentiero per recuperare la propria identità. Tale ritrovamento non può non passare innanzitutto dalla memoria: i ricordi della giovinezza, i personaggi umili e semplici che abitano nei nostri paesini, le briciole di storia legate al nostro territorio sono il punto di partenza per riappropriarsi di quell'identità, di quei valori e di quelle consuetudini in cui riposa il nostro essere calabresi, contro quel volto anonimo che la società del benessere, dei consumi e della massificazione globale ci impone. Poi bisogna sempre tenere a mente la musica ascoltata, i film che abbiamo visto e i libri che abbiamo letto. Lì ci sono gli indicatori di quello che siamo, di quello che pensiamo e di quello per cui lottiamo quotidianamente, e servono nei momenti di maggiore spaesamento. In quello che altri hanno fatto, nelle melodie, nelle immagini e nelle parole degli altri troviamo anche le nostre e queste ultime ci servono per comprendere il nostro tempo. Ma questa comprensione passa per il dovere dell'informazione. Bisogna conoscere quello che accade vicino a noi e anche quello accade nel mondo. Questo ci dà la possibilità di trovare radicamento nel presente e di affrontarlo con le risorse del nostro passato. Infine – ha concluso l'autore di “Minita”, leggendo il racconto “La promessa” – bisogna darsi da fare, ognuno con quello che sa fare e come lo sa fare. Ci sono tanti problemi nella nostra terra ma se nessuno trova innanzitutto dentro di sé gli strumenti per affrontarli assieme agli altri, resteranno sempre insoluti.

 

sabato 26 settembre 2015

Ciao, Totò

Ci si affeziona ai quotidiani, compagni irrinunciabili delle giornate dei lettori attenti a ciò che accade nei microcosmi e nel mondo più grande. Soprattutto, ci si affeziona ai corrispondenti locali, la voce di posti sperduti dei quali spesso, se non ci fossero loro a scriverne, non si saprebbe niente. Le loro firme in calce agli articoli diventano familiari, tanto che si finisce per collegare un paese a un nome e cognome, o alle sue iniziali. Sinopoli, San Procopio, Seminara e Melicuccà sono stati per decenni Antonio Ligato (a.l.): Totòligato – tutto attaccato – per chi lo conosceva e gli voleva bene. Ho saputo che non è più mentre passeggiavo sul lungomare di Reggio Calabria baciato dal sole, quando a tutto si pensa tranne che alla morte.
Lo rivedo con il suo caratteristico cappello e le sue immancabili sigarette, riesco anche a sentirne la voce bassa ma limpida, la frase che pronunciava scendendo dalla sua “Punto”, mentre si avvicinava a me se mi vedeva davanti al bar di mio padre: “ti ho visto e mi sono fermato per fare una chiacchierata”.
Amava la conversazione e la cercava. Il discorso finiva spesso oltre lo Stretto, all’Università di Messina (dove, ai tempi mitici del preside Antonio Mazzarino, aveva collaborato con la facoltà di Magistero e, in anni più recenti, con quella di Scienze dell’Educazione), a dinamiche che entrambi conoscevamo, agli incredibili strafalcioni grammaticali di certi laureandi. Si parlava delle contraddizioni di questi nostri posti, di cultura e di giornalismo, di quanto la professione sia degradata, tanto da doversi ritrovare – alcune mattine – a leggere articoli scritti “con i piedi”.
L’avevo conosciuto 15 anni fa, lui corrispondente per la «Gazzetta del Sud», io per «Il Quotidiano della Calabria». Da allora non abbiamo mai smesso di “frequentarci”, di scandagliare quelle piccole storie che affascinavano entrambi, che io ho finito per raccontare sul blog e nei libri, lui sulle pagine della Gazzetta, in un esercizio appassionante di custodia della memoria dei nostri luoghi.
Aveva voluto recensire i due libri che ho scritto sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia e sulla sua toponomastica. Neanche due mesi fa ero rimasto piacevolmente sorpreso di leggere del mio Il cavallo di Chiuminatto in un suo pezzo sulla vicenda della demolizione del ponte della ferrovia di Sant’Eufemia.
Totò era un giornalista romantico, al quale la dimensione di corrispondente locale andava bene, nonostante avesse una solidità culturale e uno stile di scrittura da giornalista di razza. Mi mancheranno le sue osservazioni mai banali e la sua capacità di analisi, il suo amore per i nostri territori e per le storie delle umili genti, che soltanto nella penna di chi ha una sensibilità particolare trovano riscatto.

*Foto tratta dal profilo Facebok Antonio Ligato

giovedì 17 settembre 2015

Bondì, bondì, bondannu

 Tra i personaggi che emergono dalle pagine dell’ultimo lavoro di Vito Teti, Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale (Rubbettino, 2015), gli “strinari” e i mascherati rimandano a storie che, in forme più o meno analoghe, appartengono anche alla tradizione etnografica di Sant’Eufemia, a racconti ascoltati dalla viva voce dei nostri genitori e dei nostri nonni.
Gli “strinari” erano gruppi di quattro-cinque individui che percorrevano le strade dei paesi durante il periodo natalizio, qualcuno dei quali suonava l’organetto che accompagnava i canti augurali, contenenti la richiesta di cibo e bevande. “Il cibo rituale [osserva Teti] costituisce in molti paesi il veicolo dell’incontro reale e simbolico tra vivi e defunti”. I questuanti non sono altro che “vicari” dei defunti e il cibo loro offerto viene considerato un’offerta fatta ai defunti. Tale identificazione vale per gli “strinari”, ma vale anche per i protagonisti di quelli che Teti definisce “viaggi rituali e vicari dei morti”: ad esempio, i “mascherati” che escono dopo il tramonto durante il periodo di Carnevale.
Nelle zone delle Serre vibonesi la formula augurale, recitata dai bambini che bussavano alle porte delle case era: «Bonu Capudannu, facitimi la strina ca si no mi dannu». Il Vocabolario del dialetto calabrese compilato da Giovanni Battista Marzano (1928) alla voce “strina” conferma: “dono che i genitori sogliono fare ai figliuoli e i padroni ai domestici e dipendenti; mancia, strenna” e riporta alcuni versi dialettali: Curriti tutti, vi dugnu pe strina/ castagni, nuci, ficu, meli e pira (Lu gattu, di I. Donati). Ed erano proprio espressione della frugalità, se non della povertà dei tempi, i doni che i partecipanti consumavano o dividevano alla fine della questua. Il richiamo alla dannazione, nell’ipotesi improbabile di diniego dell’offerta, rivela appunto che questuanti e anime dei defunti, nella percezione popolare, coincidono.
Ma non ovunque era così. A Sant’Eufemia i bambini degli anni Cinquanta del secolo scorso recitavano una formula leggermente diversa, più giocosa e nella quale non vi era riferimento ai morti, anche se probabilmente da quella tradizione traeva origine: «Bondì, bondì, bondannu, boni festi i Capudannu/ se m’ati e se non m’ati, cent’anni mi campati/ ma se non m’ati nenti, mi vi cadinu moli e denti!». Subito dopo veniva fatta esplodere una mistura di zolfo e polvere pirica, nel tempo sostituita con le capocchie dei fiammiferi e, infine, con le munizioni (tubetti) delle pistole giocattolo inserite nell’asta delle grandi chiavi di qualche vecchia porta, alla cui bocca veniva legato un chiodo che fungeva da percussore e che veniva azionato facendo sbattere la chiave contro il muro. Gli inquilini si affacciavano quindi sull’uscio e offrivano il poco che avevano: noci, castagne, fichi secchi, pittapie, sussumelle, torrone.
Più o meno simile era l’esito delle questue effettuate durante le festività dei “morti” («m’i dati i morti?») o a Carnevale, quando i “mascherati” – che, a differenza di oggi, non indossavano ovviamente costumi costosi – si presentavano vestiti in maniera buffa: una giacca infilata al rovescio, una gobba finta realizzata con un cuscino e sistemata dietro le spalle, un cappello calato sul viso o un bastone a simulare un’accentuata zoppia. In questa occasione vi era l’esplicita richiesta di avere una polpetta, che in molti riuscivano ad assaggiare solo a Carnevale, della quale si mimava il gesto di preparazione facendo sfregare una mano sull’altra, senza proferire parola per non farsi “riconoscere”. Le polpette arrivavano infilate sulla forchetta, che a turno passava di bocca in bocca, in tempi non certo caratterizzati da eccessive fisime di natura igienica.

sabato 12 settembre 2015

La panchina

Quando non so che fare mi siedo su una panchina della piazza e osservo il bocciolo di rosa rossa che di solito infilo nell’asola della mia giacca decisamente fuori moda. Mi sta un po’ stretta, ma non fa niente.
Sono molte le cose che mi stanno strette. Questo paese. Strettissimo. E non soltanto perché tutti mi credono pazzo. Sono pazzo, ovvio. Lo sono quanto le persone normali che mi scrutano, si danno di gomito e sghignazzano mentre a falcate distese faccio avanti e indietro sul marciapiede imprecando contro i mali del mondo, fino a quando i troppi passi sconclusionati non bucano le suole delle scarpe. Mastro Nino ci mette poco a sostituirle, non è caro e, in fondo, mi vuole bene. Come tutti qui, nonostante gli sfottò.
Li capisco. Loro non vedono quello che vedo io, per questo ridono quando tento di salvarli. Per questo ripetono canzonando le mie parole: «Schiaccia la testa del serpente! Maledetto!». Un giorno o l’altro, nello sforzo di tendere le mani il più in avanti possibile, finirò per perdere l’equilibrio e mi ritroverò faccia a terra. Poi sì che avranno un buon motivo per sganasciarsi e non pensare alla loro follia.
Perché siamo tutti pazzi, è davvero da pazzi non crederlo. Per un’idea, un sentimento, qualcuno o qualcosa. Pazzi d’amore, d’odio, di solitudine, di angoscia, di morte. Basta che un pensiero s’incastoni nella nostra mente e non ne usciamo più. Per quello viviamo e per quello, spesso, moriamo. Non esiste alcuna differenza, credetemi, tra la mia vita e la normalità della vostra faticosa quotidianità. Ci rende comodo mettere di qua i matti e di là i sani. E fanculo a chi ognuno di noi davvero è, al fuoco che brucia sotto due occhi stanchi fissi nel vuoto.
Ci soffro in questo ambiente. Mi sento in gabbia, come nella clausura della mia adolescenza da aspirante prete nel seminario, unico momento d’aria la partita di calcio settimanale nel cortile disadorno. Senza neanche le porte, segnate a terra da due mattoni.
Riuscivo a trovare un po’ di serenità nella biblioteca, anche quando leggevo Ugo Foscolo, che odio. Aveva ragione Carlo, alla cui interrogazione sui Sepolcri la classe esplose, tra lo stupore sconfortato del professore immobile con le mani tra i radi capelli: «Dopo la morte, restano le ossa». Per qualche tempo. Dopo, nemmeno quelle. Altro che eternità e romanticherie varie.
Mi ci aveva spedito il parroco, più che altro per accorciare di un giro il turno che io e i miei fratelli ogni giorno rispettavamo per accaparrarci i pezzettini di crosta che si staccavano dal pane mentre nostra madre lo divideva in parti uguali.
Se proprio dovevo indossare una tunica, mi sarebbe piaciuto diventare vescovo. La gente mi avrebbe baciato l’anello, genuflettendosi davanti al figlio del pecoraro diventato Pastore. Scoprii però i metodi insoliti che venivano utilizzati per togliere il demonio dal corpo delle persone e, allora, cambiai idea. Approfittai del buio senza luna, saltai dalla finestra e tornai qui.
Ritrovai Melo con il suo trotterellare leggero, il pallone incollato al piede e i calzettoni abbassati come Omar Sivori. Gianni e i suoi pantaloni impregnati di piscio, la barba ispida e muta da vecchio Giobbe senza alcuna scommessa da vincere. Spalle a terra, in vestaglia e ciabatte a fissare stelle lontane, inseguite dalle boccate delle sue nazionali senza filtro. Una casa di pazzi, sentenziò la voce del popolo. Per la credenza scaraventata dal primo piano giù, in mezzo alla strada. Per la nostra vecchia madre fatta rotolare dalle scale, una notte che sarebbe stata la sua ultima.
Entro ed esco da strutture inutili, dove mi vengono somministrati farmaci inutili. So che tra qualche anno ci resterò per sempre. Troverò un divanetto sul quale accomodarmi con il mio fiore all’occhiello e la mia storia passata in fretta, defilata e confusa. Umana.
Sussurrerò come in preghiera versi di poesie e aspetterò. Sulla lapide non avrò foto. Qualcuno ricorderà le mie labbra protese nell’atto di inspirare la sigaretta, altri i fogli di bloc-notes fitti di riflessioni disseminati sui tavolini del bar, altri ancora lo scoppio improvviso e allegro della mia risata.
Solo noi sappiamo essere felici. Solo noi sappiamo attraversare il tempo, anonimi, senza crederci migliori di quello che siamo.

venerdì 4 settembre 2015

Aylan e noi

Mio nipote ha quasi tre anni. L’età di Aylan accarezzato dall’onda sulla battigia. La stessa t-shirt, gli stessi pantaloni “a pinocchietto”, le stesse scarpette da tennis. Spesso si addormenta sul divano a faccia in giù, proprio come Aylan nella fotografia che ha fatto il giro del mondo, con le braccia lungo i fianchi e i palmi delle mani rivolti verso l’alto.
A differenza di mio nipote e di tanti altri suoi coetanei, Aylan non sta però dormendo. Quanti ce ne sono come lui nel mondo? Bambini che dovrebbero avere l’età del gioco, non quella della fuga disperata dalla guerra. Di quanti Aylan non sappiamo niente, fino a quando il dolore non ci viene sbattuto in faccia, con una violenza che ci lascia senza fiato, sgomenti? Infine, era necessario diffondere quella immagine?
Giro attorno a questo interrogativo dal momento in cui la fotografia ha avuto diffusione nel web ed è finita sui giornali, nella versione più cruda o in quella pietosa che ritrae il corpo senza vita di Aylan in braccio a un poliziotto turco. Come in una moderna Deposizione, ha fatto notare Adriano Sofri.
Non ho la risposta. Ascolto. Leggo riflessioni legittime. Tutte: quelle a favore della pubblicazione della tragedia angosciante di un bimbo che affonda il viso nell’acqua, così come quelle contrarie. E non so cos’è giusto. Non so dove tracciare il confine tra diritto di cronaca e spettacolarizzazione del dolore.
È pur vero che oggi esiste soltanto ciò che si vede, per cui i fotogrammi della morte e dell’orrore possono rivelarsi utili per scuotere coscienze intorpidite, che non riescono a percepire la dimensione biblica del dramma delle guerre e dell’esodo di migliaia e migliaia di essere umani. Essere umani – purtroppo occorre sottolineare anche questo, in tempi di strumentale e becero razzismo – che in assenza di immagini vengono percepiti come i numeri di una fredda contabilità, non come fratelli disperati da soccorrere.
La famiglia di Aylan scappava da Kobane, città curdo-siriana simbolo della resistenza contro la violenza distruttrice delle milizie dell’Isis. Marito, moglie e due figli che speravano di raggiungere la Grecia e da lì prendere il volo per il Canada, dove la sorella parrucchiera del padre di Aylan era riuscita a farsi rilasciare i visti per i quattro congiunti. A Kobane, ha assicurato il padre di Aylan, saranno seppelliti la moglie Rehan e i due figli, Aylan e Galip, cinque anni, morti con altre otto persone in seguito al ribaltamento dell’imbarcazione che avrebbe dovuto trasportare i profughi dalla Turchia all’isola greca di Kos.
La fotoreporter Nilufer Demir ha rivelato al “Corriere della Sera” la ragione di quegli scatti: «Ho subito capito che era morto. Non c’era nient’altro da fare. Era l’unico modo per far sentire l’urlo di quel corpo». Aylan come Kim Phúc, la bimba che con la sua corsa verso il teleobiettivo, nuda e bruciata dal napalm, assurge a denuncia degli orrori della guerra del Vietnam. O come Tsvi Nussbaum, il bimbo polacco con berretto, cappotto e pantaloni corti, a braccia alzate durante il rastrellamento del ghetto di Varsavia, emblema della tragedia dell’Olocausto.
Non so schierarmi. Perché è vero che siamo talmente assuefatti che l’immagine rischia di essere fine a se stessa, di alimentare il circo mediatico del dolore e di calpestare dignità e pietà, deontologia e buon senso, nella squallida gara per la conquista di qualche “like” in più. Ma forse è anche vero che soltanto la visione dell’orrore riesce a destarci dal torpore e può fare comprendere alla comunità internazionale la gravità delle emergenze umanitarie di alcuni Paesi flagellati da guerre e fame, convincere Stati nazionali e sovranazionali della necessità di un cambio di registro in tema di politiche di accoglienza e gestione di flussi migratori divenuti ormai inarrestabili.

lunedì 31 agosto 2015

Alzami tu

«Alzami tu» è una frase che, da sola, basta per riempire di senso la giornata della persona alla quale è rivolta. «Alzami tu»: dichiarazione di fiducia incondizionata e consegna della propria vita alle braccia altrui, nella certezza che tutto andrà bene. Che i passi solitamente incerti, sorretti da quattro gambe, condurranno a destinazione e scacceranno lontano l’immagine triste del bimbo che di colpo si affloscia a terra, come un sacco vuoto.
Le colonie estive dell’Agape di Sant’Eufemia sono uguali e diverse da quasi vent’anni. Nella gioia che si ripete, rinnovando ogni estate una storia sempre viva. Nei volti dei volontari baciati dal sole, quelli che non ricordano più quando hanno iniziato e quelli alla loro prima esperienza. Negli occhi emozionati dei “ragazzi” che attendono il pulmino o si guardano attorno mentre si viaggia verso la spiaggia di Bagnara. Nelle loro parole spiazzanti, che dicono di sentimenti semplici e proprio per questo autentici, non filtrati dalla rappresentazione quotidiana che altera le vite “normali”.
Verrebbe voglia di appartarsi in un angolo e lasciarsi andare, una volta tanto. Asciugarsi le lacrime e ripetersi quella frase («Alzami tu») per sentirsi vivi e consapevoli della reale dimensione dell’uomo. Ma non si può, c’è sempre qualcosa da fare, anche quando si sta seduti all’ombra, sotto gli ombrelloni ad ascoltare musica o a perdersi dietro racconti assurdi, apparentemente senza capo né coda. Ad improvvisarsi improbabili ballerini di funky al seguito di Mark Ronson e Bruno Mars nel video musicale Uptown funk, hit che ha conteso a Roma – Bangkok di Baby K e Giusy Ferreri il primo posto nella speciale classifica “canzone della colonia 2015”. A chiedersi chi sia il fantastico Michele estratto dal cilindro all’ultimo secondo, tormentone surreale della giornata conclusiva: «Tu lo conosci Michele?».
Una settimana volata via leggera che ha regalato bei ricordi, ma anche le lacrime di M. prima di salutarci. Lei che avrebbe voluto altri giorni da passare insieme a tutti gli altri, con le sue pose da diva davanti all’obiettivo e il suo serafico apoi (“dopo”) ad esprimere garbato dissenso. La danza di D. alla vista del pulmino, il ritorno di R. con il suo inconfondibile cappellino e i suoi pochissimi chili addosso, le domande ossessive di C. e la disarmante tenerezza di G., che vuole camminare e giocare come tutti gli altri bambini. Che vince anche se la boccia lanciata cade mezzo metro davanti alle sue gambe. Dieci ragazzi speciali, maestri d’amore nella genuinità delle loro esistenze.
Si ride e si scherza, certo, ma la responsabilità nei confronti delle famiglie che affidano ai volontari i propri ragazzi si fa sentire. Per questo ci siamo ripetuti l’ormai consueto “anche questa è andata”, prima di spegnere il motore per l’ultima volta. Prima di lasciarci prendere dalla nostalgia, stupiti dalla sensazione di vuoto che sempre prende allo stomaco, un po’ come – mi è stato fatto notare – con un esame che non ti fa pensare a nient’altro e assorbe tutte le tue energie nei giorni che lo precedono.
Alla fine sei felice perché lo hai superato, ma subito dopo ti manca già qualcosa.

domenica 23 agosto 2015

Notti disobliate: Partire e tornare a Sud


NOTTI DISOBLIATE: Oggi PARTIRE E TORNARE A SUD con Domenico Forgione e Lou Palanca
(di Saso Bellantone, tratto da: http://disoblioedizioni.blogspot.it/2015/08/notti-disobliate-oggi-partire-e-tornare.html)

Si svolgerà oggi, alle ore 21:30, all'incrocio del Corso Vittorio Emanuele II adiacente alla Cartolibreria Demaio di Bagnara Calabra, il sesto e ultimo appuntamento delle Notti Disobliate 2015 – I concetti del Sud, intitolato “Partire e tornare a Sud”, riguardante la narrazione di storie di emigrazione e di immigrazione, antiche e nuove, che parlano dei grandi benefici apportati alla nostra terra dalle popolazioni giunte da oltremare, dei successi raggiunti dai meridionali in tutto il mondo, ma anche della fuga attuale dei giovani dalla nostra terra perché senza futuro e del ritorno di molti di essi perché impossibilitati, strutturalmente e economicamente, ad andare avanti; è il racconto di storie di gente che torna da vincente e di storie di gente che non vuole più tornare, e anche di storie, naturalmente, di persone costrette ad andare via dal proprio paese a bordo di un barcone con la speranza di vivere, e tuttavia trovate senza vita sulle coste calabresi.
A parlare di “Partire e tornare a Sud” saranno Domenico Forgione, autore di “Minita” (Disoblio Edizioni) e Fabio Cuzzola / Lou Palanca 2 e Monica Sperabene / Lou Palanca 8, autori di “Ti ho vista che ridevi” (Rubbettino). Al salotto d'autore, condotto dall'editore Salvatore Bellantone, interverrà Mirella Marra (Direttrice “Archivio di Stato” di Reggio Calabria). Gli intermezzi musicali saranno a cura del cantante Josè Fazari dei NeroSud. MINITA è un sentiero di citazioni tratte da ricordi, storie, libri, film, musica, grandi e piccoli avvenimenti storici, esperienze vissute e racconti con i quali l'autore indaga il proprio tempo, critica i meccanismi principali che provocano la degenerazione omologante e spersonalizzante delle masse e propone la difesa dell'unicità del singolo individuo, mediante il recupero di quei personaggi, di quegli eventi, di quei momenti epocali e di quei valori locali e comunitari che hanno caratterizzato la società di soli alcuni decenni fa.
DOMENICO FORGIONE (1973) è nato a Carlton, in Australia, dove ha vissuto fino all’età di quattro anni. Laureato in Scienze politiche e Dottore in Storia dell’Europa mediterranea, per oltre un decennio è stato cultore della materia in Storia delle Istituzioni politiche e assistente universitario presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Messina. Giornalista pubblicista, dal 1997 al 2004 ha collaborato con “Il Quotidiano della Calabria”. Dal 2010 amministra il blog “Messaggi nella bottiglia”, una finestra sull’attualità e una scatola di ricordi, di storie vissute e ascoltate, di storie inventate. Ha pubblicato: Il ’68 a Messina (Edizioni Trisform 1999); Fascismo e prefetti a Catanzaro (1922-1943) (REM 2005); Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922 (Città del sole 2008); saggi di storia contemporanea in volumi miscellanei e recensioni su riviste specializzate; Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (Nuove Edizioni Barbaro 2013). Vive a Sant’Eufemia d’Aspromonte e, come la cofondatrice di Emergency Teresa Sarti, è convinto che “se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene”.
TI HO VISTA CHE RIDEVI Negli anni ‘60 un’emigrazione individuale femminile raggiunge dal Sud il territorio delle Langhe, che le contadine stanno abbandonando per trovare la propria emancipazione nelle città. È un’emigrazione matrimoniale, che porta le “calabrotte” all’impatto con una lingua e un sistema di relazioni sociali differenti da quelli dei paesi d’origine. Ti ho vista che ridevi racconta una di queste storie. Dora è costretta ad emigrare da Riace per sposare un contadino delle Langhe e lascia alle cure della sorella il figlio che non doveva nascere. Quando scoprirà la verità, Luigi si metterà alla ricerca delle origini, della propria madre, dell’autenticità della propria biografia. Sarà un bacialé, un ruffiano che combinava questi matrimoni, il mediatore narrativo tra le pagine calabresi e i capitoli ambientati in Piemonte, dove Luigi cerca la propria madre naturale e incrocia una catena di figure femminili che da Dora conduce alla figlia, alla nipote militante No Tav e quindi ad una profuga siriana. Un romanzo corale, nel quale ciascun personaggio attraversa la propria solitudine scoprendo il senso della sua vicenda nella relazione con l’altro. Come scrive Carlo Petrini nella Prefazione: sono sempre gli altri che ci salvano.
Il collettivo di scrittura LOU PALANCA nasce nel 2010 aggregando precedenti esperienze di collaborazione tra intellettuali calabresi, per poi coagularsi intorno al gruppo di cinque persone che ha pubblicato a fine 2012 con Rubbettino Editore il romanzo “Blocco 52. Una storia scomparsa, una città perduta”. Il libro ha avuto più di 40 presentazioni, tra cui quella con Ida Dominijanni a Catanzaro, a Firenze con Goffredo Fofi, a Bologna con i Wu Ming, quelle al Salone del Libro di Torino e al festival Caffeina Cultura di Viterbo. Il collettivo opera a “geometria variabile”, coinvolgendo nella sua esperienza nuovi apporti rispetto al nucleo iniziale. Così nel maggio 2015 ha pubblicato, sempre con Rubbettino, il nuovo romanzo Ti ho vista che ridevi, che in appena due mesi è già alla prima ristampa. Lou Palanca vive come un progetto culturale più complesso della semplice scrittura collettiva, come testimoniano anche gli interventi e i racconti ispirati ad esperienze specifiche, tra i quali: la partecipazione al progetto collettivo dei Wu Ming Tifiamo Scaramouche con il racconto “Vuoi ballare il fandango?”, pubblicato nel 4° volume (‘900 Notte fugge – quinquennio 1975/1979); “El Soldatin Bepin, prima che la terra tremi” scritto per il parco Ecolandia di Arghillà (Reggio Calabria); “Mistero al cubo” pensato per il lancio del sito di scrittura 20lines.
Saso Bellantone

venerdì 21 agosto 2015

Sant’Eufemia e la sua gente nel tempo, attraverso la voce dei suoi figli



Chi vive lontano dal paese d’origine avverte forse con maggiore sensibilità il bisogno di riannodare il filo rosso delle proprie radici, recuperando luoghi e volti che gli accadimenti della vita relegano nel cassetto dei ricordi. Nino Crea, ingegnere eufemiese trapiantato a Fiuggi, ha nel tempo rafforzato questo sentimento: l’idea di un convegno su Sant’Eufemia “raccontata” dai suoi figli è sua, postata sul suo profilo Facebook il 25 maggio scorso e subito fatta propria dall’amministrazione comunale, che l’ha realizzata ieri avvalendosi della collaborazione della Consulta comunale.
La memoria è imperativo morale e dovere civico, una pianta da innaffiare per mantenere viva la propria stessa identità. Ci siamo così ritrovati in tanti a discutere del nostro paese, ciascuno presentando una prospettiva particolare e passando dalla storia alle storie, alle storielle; affrontando questioni più o meno serie, ma necessarie per conoscere a fondo l’essenza della nostra comunità. Gli intermezzi musicali di Angela Luppino hanno scandito i tempi della manifestazione, introdotta dal saluto del sindaco Domenico Creazzo e moderata da Nino Giunta, protagonista per lunghi decenni della vita culturale di Sant’Eufemia, da qualche anno di stanza a Roma.
Ho avuto l’onore di aprire il convegno con una riflessione sulla storia di Sant’Eufemia, a lungo ignorata dagli stessi eufemiesi, i quali non sapevano dove poterne leggere, se si fa esclusione della Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte di Vincenzo Tripodi (1945), di sparuti saggi biografici e di datate memorie di illustri eufemiesi, opere pressoché introvabili. Grande merito va pertanto riconosciuto all’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, promotrice nel 1990 di un convegno sul bicentenario dell’Autonomia di Sant’Eufemia i cui atti, editi nel 1997, hanno ispirato una feconda stagione di pubblicazioni ancora non conclusa la quale, per poter essere più proficua, necessiterebbe però di condizioni di ricerca più “comode”, che potrebbe senz’altro garantire la realizzazione di un Archivio storico comunale.
Aldo Coloprisco ha ripercorso la poetica eufemiese, proponendo la lettura dei componimenti più significativi di Domenico Cutrì, Vincenzo Fedele, Luigi Forgione, Bruno Gioffré, Mimì Occhilaudi, Giuseppe Cannizzaro, fino ad arrivare ai giorni nostri con i versi di Maria Rosa Luppino e della stessa Vittoria Saccà, applaudita relatrice che ha fatto emozionare l’uditorio con i ricordi della sua adolescenza, di recente raccolti in Parole nel comò. Personaggi e storie assurti a “tipi” universali, rintracciabili nel più generale contesto storico e sociale degli anni Cinquanta e Sessanta. Giuseppe Pentimalli ha sottolineato la struttura morfologica e sintattica sostanzialmente greca del femijotu, sul piano lessicale arricchitosi nel corso dei secoli grazie ai contributi della lingua latina, araba, francese, spagnola e inglese. A Rossella Morabito, infine, il compito di chiudere il convegno puntando lo sguardo sul presente, che va affrontato senza piangersi troppo addosso. Sant’Eufemia ha un tessuto sociale vivace, costituito dal protagonismo di singoli operatori culturali, dalla ricchezza di associazioni molto attive nel campo sociale e del volontariato, dall’altissimo spessore culturale e umano del liceo scientifico “E. Fermi”. Un patrimonio fatto di giovani che occorre mettere in condizione di esprimere a Sant’Eufemia le proprie potenzialità, al termine del percorso di studi o di formazione.





mercoledì 22 luglio 2015

La battaglia non è solo per il ponte… ed è appena iniziata


A dieci giorni dall’inizio della mobilitazione che ha visto il coinvolgimento di istituzioni, partiti, associazioni e cittadini nella lotta per scongiurare la demolizione del ponte storico della ferrovia a Sant’Eufemia, si intravede già un primo risultato. Anche se non vi è l’ufficialità, l’ipotesi più funesta – la demolizione, appunto – dovrebbe essere stata allontanata. Alcuni indizi convergono inequivocabilmente verso questa direzione. Il tono delle risposte rilasciate dal direttore generale della società Ferrovie della Calabria, Giuseppe Lo Feudo, nel corso della trasmissione radiofonica di Radio Radicale “Fatto in Italia” (19 luglio), nel corso della quale sono intervenuti un esterrefatto Oliviero Toscani e Roberto Galati, presidente di Associazione Ferrovie di Calabria – che, con Italia Nostra, ha segnalato l’emissione del bando di demolizione, facendo di fatto esplodere il caso. Per Lo Feudo, Ferrovie della Calabria non poteva procedere diversamente dopo le segnalazioni dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia e della Prefettura di Reggio Calabria circa “il grave stato di pericolo” in cui versa il ponte, non disponendo essa delle risorse finanziarie necessarie per mettere in sicurezza la struttura. Non vi era alternativa, ma qualora si trovasse una soluzione diversa (leggi: disponibilità finanziaria per eseguire i lavori di messa in sicurezza), la società di servizi di trasporto pubblico in Calabria sarebbe “la più contenta di tutti”. Posizione ribadita con la nota del 21 luglio: il bando di gara non può essere annullato, ma Ferrovie della Calabria non è obbligata a far eseguire i lavori di smantellamento anche in caso di aggiudicazione. Il bando come extrema ratio, addirittura come strumento per lanciare l’allarme. Un po’ forzata come interpretazione, ma il risultato, in effetti, è quello di avere scatenato un putiferio mediatico inarrestabile, che in poco tempo ha smosso acque stagnanti da lungo tempo e che, tanto per fare due nomi autorevoli, ha spinto il consigliere regionale Giuseppe Giudiceandrea a presentare un’interrogazione con richiesta di risposta scritta e l’ex ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo nel governo Letta, Massimo Bray, a esprimersi pubblicamente contro la demolizione del ponte.
Secondo indizio, la nota del 17 luglio, resa pubblica in un secondo momento, con cui la Soprintendenza per le Belle Arti e il Paesaggio della Calabria diffida Ferrovie della Calabria dall’eseguire la demolizione poiché il D.lgs 42/2004 dispone di tutelare “le cose immobili appartenenti allo stato, alle regioni, agli enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private, qualora siano opera di autore non più vivente e la loro esecuzione risalga ad oltre settanta anni”. Il ponte in ferro, di anni, ne ha quasi 90, per cui necessiterebbe della verifica di “interesse culturale e storico” del Mibac prima di subire alcun intervento.
Il ponte non si tocca, almeno per ora. Occorre approfittare di questa contingenza per esercitare la maggiore pressione possibile, continuando ancora con la raccolta firme, la petizione online, gli aggiornamenti della pagina Facebook “SOSteniamo il ponte”, affinché si ponga mano alla grave situazione di dissesto idrogeologico che interessa tutta l’area in questione. I riflettori puntati da giorni sulle campate di ferro della struttura realizzata nel 1928 dalla ditta Chiuminatto di Genova potrebbero realizzare il miracolo di porre all’attenzione della politica una situazione più volte segnalata dalle amministrazioni comunali degli ultimi 20 anni e sistematicamente ignorata dalle autorità sollecitate. Le briglie del Torbido distrutte, il ponte di Pendano crollato, un costone del paese scivolato a valle e una situazione di pericolo incombente su una parte della città.
Ecco perché, una volta salvato il ponte, non bisognerà fermarsi, né allentare la presa. Questa può diventare l’occasione propizia per riuscire finalmente a mettere in sicurezza una vasta area e, nello stesso tempo, un’ipotesi concreta di valorizzazione del patrimonio naturalistico e paesaggistico del territorio eufemiese attraverso il coinvolgimento di quei soggetti attivi nel campo dell’innovazione, che hanno già avanzato diverse idee di sviluppo con al centro il ponte e il tracciato della vecchia linea taurense Gioia Tauro – Sinopoli/San Procopio.