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Lo ammetto. Negli anni ho fatto del distacco emotivo un’arte. Scopi conoscitivi a parte, raramente seguo o mi preoccupo di cose che non mi toccano personalmente o comunque da molto vicino. Per questo motivo, mi ha creato disagio leggere il fiume di parole e le opinioni riversate sui social media nelle ore successive all’attentato di Parigi.
Il tema del terrorismo mi sta a cuore: perché mi sento cittadino del mondo; perché faccio la spola tra Londra e l’America; perché quando a Londra il 7 luglio 2005 Al-Qaeda fece saltare uno dei treni in metropolitana, quello sul quale stavo leggendo distrattamente il giornale mentre mi recavo al lavoro era passato dal luogo dell’esplosione dieci minuti prima; perché soltanto negli ultimi sei mesi i servizi segreti inglesi hanno sventato sette attentati terroristici nella capitale londinese, la città in cui vivo da diciotto anni.
E’ una questione di tempo. Non “se” succederà, ma “quando”. Un giorno, un po’ come accade con il corpo umano, un’altra cellula impazzita riuscirà a bucare la rete protettiva e porterà altra distruzione, altro terrore, altro sangue. A Londra ho imparato a vivere con questa certezza che crea incertezza: «Forse oggi qualcuno seduto accanto a me nella metro o sul bus si farà saltare in aria, ed io con lui. Poi vallo a raccontare a mia madre!». Questo pensiero, disarmante nella sua fatale ed agghiacciante semplicità, attraversa spesso la mia mente, soprattutto da quando è diventato evidente che i proclami sono inutili e che l’ISIS è imprevedibile.
Che fare, allora? Ci ho pensato e ripensato, mesi di turbamento per arrivare al mio personale convincimento: NIENTE. Non farò niente. Non cambierò niente nella mia vita. E sono sereno, oggi più che mai. Nel mio piccolo combatto così, con l’indifferenza, la mia quotidiana e personale guerra contro l’estremismo.
Mi sveglio ogni mattino e decido di vivere un altro giorno come ho sempre fatto, perché il terrorista vorrebbe impedirmi proprio di fare questo: vorrebbe annichilirmi e destabilizzarmi. Allora, no. Davanti alle loro azioni io faccio spallucce: scelgo di vivere, non di sopravvivere.
Da quando ho sviluppato una mia coscienza individuale conduco la mia vita come se il momento attuale fosse l’ultimo. Non mi curo del passato o di un ipotetico futuro. Ciò che mi importa sta accadendo ora: il presente da assaporare e vivere mentre si svolge. Sono consapevole di quanto sia effimera la vita, di come tutto diventi niente nello spazio temporale di un attimo. Forse un giorno mi troverò al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma non sto qua a preoccuparmene, oggi.
Se malauguratamente dovesse accadere, preferirei però andarmene senza eccessivi clamori, senza proclami da eroe di cui non avrei bisogno, senza tributi su Facebook e senza quella platealità che oggi sembra regnare sovrana, platealità di cui si nutre qualsiasi cellula estremista.
Meglio il silenzio. E con il silenzio scelgo anche di non reagire, perché non vedo come si possa sconfiggere il terrore con l’orrore di una nuova guerra santa. Fare scoppiare una guerra sarebbe una loro vittoria, non la mia. Le azioni dei gruppi terroristici sono sempre mirate a provocare una reazione. Sono loro a volere la guerra, perché la guerra alimenta il radicalismo. Abbiamo potuto verificarlo dopo l’Iraq e dopo la Libia. Se solo guardassimo al passato non commetteremmo gli stessi errori con ciclica regolarità. Una storia nota, un succedersi di reazioni sbagliate ed eternamente uguali a se stesse. Non impareremo mai.
Mario Forgione
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