Ci sono istantanee che fanno parte dell’album sentimentale di una nazione. Una di queste immortala – sull’aereo che, nel luglio del 1982, riportava in Italia gli eroi del Bernabeu – la partita a scopone tra il presidente della Repubblica Sandro Pertini e il capitano Dino Zoff contro il commissario tecnico Enzo Bearzot e il “barone” Franco Causio. Sul tavolo, la coppa del mondo conquistata a Madrid. Ora che il vecio se n’è andato, è inevitabile farsi prendere dalla nostalgia per quello che eravamo 28 anni fa. Per un bambino di nove anni, Bearzot era un nonno burbero, di quelli severi nell’educazione dei nipotini, pronti al rimprovero quando sentono una parolaccia o notano la mancanza di quel rispetto dovuto alle persone anziane. Me lo immaginavo così, Bearzot: stretto in quella giacchetta bianca e con l’inseparabile pipa in bocca.
Non era iniziato bene il mondiale degli azzurri. Tre pareggi striminziti contro Polonia (0-0), Perù (1-1, gol di Bruno Conti), Camerun (1-1, gol di Ciccio Graziani) e il passaggio al secondo turno, in un girone di ferro contro l’Argentina di Maradona e Ardiles e il Brasile di Falcao e Zico (ma anche di Socrates, Junior, Cerezo). La critica e gli italiani, al solito feroci con chi è in disgrazia (sempre pronti, di contro, “a soccorrere il vincitore”, come infieriva Ennio Flaiano) sparavano quotidianamente contro gli azzurri. Per la prima volta nella storia del calcio italiano fu adottato il silenzio stampa. A parlare con i giornalisti, soltanto Zoff e Bearzot, entrambi friulani, entrambi taciturni. Come spesso accade all’Italia quando è affacciata sul baratro, la squadra si compattò attorno al commissario tecnico e riuscì a realizzare l’impresa: 2-1 all’Argentina (Cabrini e Tardelli); 3-2 al favoritissimo Brasile (tripletta di Rossi); 2-0 alla Polonia in semifinale (doppietta di Rossi); apoteosi finale con il 3-1 alla Germania (ancora Rossi, l’urlo di Tardelli, il sigillo finale di “spillo” Altobelli, che per l’unica volta nella sua carriera esultò alzando entrambe le braccia, abbandonando la consueta compostezza del solo indice puntato verso il cielo).
L’epopea poetica di quel gruppo di eroi passa attraverso la cantilena della formazione, in un'epoca in cui ancora era possibile mandarla giù a memoria, visto che giocavano sempre gli stessi per anni: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Ancora il binomio calciatore/velina non esisteva e gli atleti non somigliavano a modelli di Armani: non avevano acconciature strane (al massimo, il cespuglio di capelli di Collovati), non si facevano tatuaggi, non si tiravano le sopracciglia (indimenticabile il “sopracciglione Bergomi” di Teo Teocoli). Me li immaginavo come guerrieri omerici: il carisma del quarantenne Zoff, l’ardore di Gentile (chiedere a Maradona e Zico, in tempi in cui – va ammesso – gli arbitri estraevano i cartellini con parsimonia), l’eleganza di Collovati, la classe di Scirea, la modernità di Cabrini, l’universalità dell’insonne Tardelli, il genio di Conti (il più “brasiliano” degli azzurri), la cocciutaggine di Graziani, il fiuto di “Pablito” Rossi, le geometrie di Antognoni, i polmoni di Oriali (celebrati anche da Ligabue). E poi Marini, Causio, Altobelli, il diciottenne Bergomi, (lo “zio” che nascondeva la sua età dietro due incredibili baffoni neri), che disputò anche la finale al posto dell'infortunato Antognoni. Quell’11 luglio eravamo una cinquantina “da Mario”, i più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Il televisore, un Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza, non consentiva la visione degli attuali 52 pollici hd a schermo piatto, soprattutto ai più distanti. Ma l’emozione e l’entusiasmo sono incancellabili. Pertini che, al suo solito, accantona l’aplomb istituzionale e fa il tifoso in tribuna, i minuti finali concessi al fedelissimo Causio, la commozione di Nando Martellini al triplice fischio con quel “campioni del mondo” ripetuto tre volte. Poi tutti di corsa fuori dal bar, a piedi verso piazza Municipio, con le bandiere e il cuore che andava a mille.
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2 commenti:
Quanti ricordi al sentir nominare il 1982 o il nome di Enzo Bearzot. Io vedevo le partite con altri due o tre amici a casa di “Ninello” Parisi in un televisore la metà del 28 pollici di “Mario”. Alla fine delle partite tutti in piazza Municipio (il vecchio Municipio...) luogo di ritrovo di tutti i “Commissari Tecnici” di S. Eufemia. All’inizio noi “juventini” a difendere le scelte di Bearzot, che aveva lasciato a casa “l’interista” Beccalossi e il “romanista” Pruzzo, poi anche noi convinti che forse qualcosa aveva sbagliato. Non chiedevamo la “testa” di Bearzot come tutta l’Italia perchè eravamo troppo presi a scommettere su quanti gol avrebbe incassato l’Italia dall’Argentina di Maradona ma soprattutto dal Brasile stellare di Zico, Socrates, Falcao solo per fare alcuni nomi. Poi la vittoria sull’Argentina ci fece salire su una 127 bianca, 5 persone in tutto, per una sfilata in “solitaria” per il paese di S. Eufemia preludio di quella molto, ma molto, più numerosa che attraversò anche i paesi vicini dopo la fantastica vittoria sul Brasile. La semifinale solo una formalità e poi la finale: 3 a 1 alla Germania e ancora una volta ritrovo in piazza Municipio, pieno all’inverosimile per una sfilata, stavolta a piedi, per tutto il paese. La gioia, la felicità provata in quei giorni del 1982 qualcosa di irripetibile e che mai scorderò. E tutto questo ha il nome di Enzo Bearzot, un grande allenatore e una grandissima persona che, lottando da solo contro tutto e tutti, ci fece provare emozioni che nessuno ha dimenticato o dimenticherà. Buon riposo “vecio”...
Ogni promessa è un debito...
La morte del "vecio" mi ha intristito; con Bearzot è morto anche un pezzo di calcio, quello che, puntualmente descritto dalla tua penna magica, non esiste oramai da anni: il calcio degli uomini veri, dei miti veri, delle vere bandiere (Scirea, Antognoni, Bergomi ed altri) che giocavano tutta la carriera in un solo club, non per soldi, ma per attaccamento alla maglia!
Ricordo l'estate '82 come fosse ieri, il Bar "del Petto" era il ritrovo post partita per i commenti più svariati e coloriti. I "PERSONAGGI" non macavano: i fratelli Martino e Napoli(un giovanissimo Peppe catechizzava con la sua competenza), i "massari" (intrusi interisti), Iachino, Cecè e "Coscimino", Tonino e Angelo, Nino il "portiere", e tanti altri...
Ero un bimbo di otto anni e la vittoria di quel mondiale mi rese davvero felice.
Il "Vecio" mi mancherà, così come mancherà agli amanti romantici di quel calcio che fu.
Luigi L.
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