Accettare il punto di vista dell’altro, o anche soltanto riuscire a prenderlo in considerazione come ipotesi alternativa alle proprie immodificabili idee, segna il confine tra l’arena e l’agorà.
Capita spesso di ascoltare, sconfortati, gente urlarsi addosso e capire, alla fine, che la rissa diventa essa stessa il tema centrale della discussione. Qualche artificio dialettico a protezione del dogma e il gioco è fatto: l’arroganza ingloba tutto, immiserisce il confronto e lo riduce a prosaica questione di decibel o di protervia.
Il nostro io reclama la scena (tutta la scena), il salotto diventa giungla, la legge del più forte (di ugola) facile scorciatoia. Una compulsiva furia onanistica, che rende centro dell’universo quel maledetto ombelico che ci deliziamo a contemplare, quasi estasiati.
Basterebbe cambiare prospettiva, spostarsi di sedia e occupare il posto dell’interlocutore di fronte a noi, indossare i suoi abiti, intuire le sue emozioni, le sue aspettative, le sue ansie. Basterebbe guardare il colore “da dietro”, come ci insegna Antonio Albanese (alias Epifanio Gilardi) in un monologo bellissimo e serissimo, farsi affascinare dalle sfumature e comprendere che le tinte più belle hanno gradazioni, contrasti e luminosità infiniti. Bianco e nero appartengono ai vecchi televisori e ad una visione manichea della vita, tipica delle guerre di religione. In un mondo che non potrà mai corrispondere a ogni individuale aspirazione, convivere con la ragione dell’altro diventa “la” necessità, non “una” possibilità.
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