L’atmosfera da guerra santa contro gli sprechi dei partiti e delle istituzioni rende impopolari considerazioni che non si concludano con il sacro richiamo alla cesoia. D’altronde, il vaso di Pandora scoperchiato da giornali e magistratura giustifica il crucifige urlato quotidianamente dalle Alpi alla Trinacria. La parola d’ordine è “tagliare i costi”. Un mantra, salvo poche eccezioni.
Massimo Acquaro osserva su Zoomsud che “l’assottigliamento della rappresentanza politica non è un bene in sé, al di là della facile demagogia contro la casta ed i suoi costi”. Il tema dell’articolo, spinosissimo, è quello della riduzione del numero dei consiglieri regionali in Calabria, che il governo Monti ha fissato a trenta e che il consiglio regionale, con un gesto di sfida, ha elevato a quaranta. Sulla questione, per l’11 febbraio è attesa la decisione della Corte Costituzionale.
Altra panacea di tutti i mali, l’abolizione delle province: per ragioni storico-politiche, preferirei l’abolizione delle regioni e il mantenimento delle province (ma questo è altro discorso). Sul disegno di legge “Delrio” (“Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle Unioni e fusioni di Comuni”), approvato dalla Camera il 21 dicembre 2013 (AC 1542) e attualmente in corso di esame nella Commissione “Affari costituzionali” del Senato (AS 1212) pende il parere negativo della Corte dei Conti, in quanto la riforma non rispetterebbe i criteri della “spending review”. Un giudizio accolto con favore dai sostenitori del mantenimento dell’ente intermedio, che però non dovrebbe impedire l’approvazione di un provvedimento per la verità poco chiaro proprio per quanto riguarda abolizione delle province, istituzione delle città metropolitane e ripartizione delle funzioni. Il ddl approvato dalla Camera assorbe infatti tre distinti atti: l’AC 1408, “disposizioni concernenti la composizione dei consigli provinciali e disciplina dell’elezione del presidente della provincia e del consiglio provinciale”; l’AC 1737, “modifiche al testo delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (…) e altre disposizioni concernenti i comuni di minore dimensione demografica, l’esercizio associato delle loro funzioni, nonché le unioni di comuni e la funzione dei medesimi”; l’AC 1854, “disposizioni transitorie in materia di province e città metropolitane”.
A mio avviso è invece una buona notizia, non un cedimento a interessi di parte, l’accoglimento delle proposte avanzate dall’Uncem in ordine alla rappresentanza dei piccoli comuni sintetizzate dall’emendamento “ripristina democrazia” confluito nell’articolo 21 del ddl, che stabilisce l’ampliamento dei consigli comunali: oltre al sindaco, dodici consiglieri e quattro assessori nei comuni compresi tra 3.000 e 10.000 abitanti; dieci consiglieri e due assessori nei comuni fino a 3.000 abitanti. Una sconfessione della furia iconoclasta dei governi Berlusconi (legge 42 del 26 marzo 2010) e Monti (dl 138 del 13 agosto 2011) che produsse il taglio o l’eliminazione degli assessori (abolizione delle giunte comunali nei comuni inferiori a 1.000 abitanti) e profonde sforbiciate alla composizione dei consigli comunali. Per citare l’esempio che riguarda Sant’Eufemia e i comuni con popolazione compresa tra 3.000 e 5.000 abitanti, la riduzione (da sedici) prima a dodici, poi a sette, del numero dei consiglieri comunali.
Il sale della democrazia è la partecipazione. Il male, la compressione della rappresentanza di persone, interessi e territori. Compito della politica è impedire che nel lavandino finiscano il bambino (rappresentatività) e l’acqua sporca (sprechi e privilegi).
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