domenica 4 maggio 2014

I fotogrammi della vergogna

Avrebbero fatto meglio a silenziare l’audio. Ci saremmo risparmiate le castronerie di Somma, che derubrica a “atto vandalico” un bollettino da faida: sette colpi di pistola e tre feriti, uno dei quali in codice rosso. Non avremmo neanche ascoltato la minimizzazione di stato divulgata dalla questura per gettare acqua sul fuoco: “un episodio che non ha niente a che fare con la partita di calcio”.
Avrebbero fatto meglio a lasciare parlare immagini che non hanno bisogno di alcun commento, perché sono l’emblema della sconfitta del calcio. Che ormai da tempo è lo sport più bello del mondo solo nella mente delle agenzie pubblicitarie. Mentre, in Italia, è quello che tutti abbiamo visto ieri sera: un ostaggio nelle mani del Genny ’a carogna di turno. La cui resa viene rilanciata senza pietà dalla stampa internazionale: “il figlio di un camorrista ha deciso che la finale di Coppa Italia si può giocare”.
Le immagini della vergogna incorniciano il capitano del Napoli circondato dagli steward e in delegazione ai piedi di un pluripregiudicato assiso su una grata della curva Nord dell’Olimpico, che infine annuisce, stile don Corleone quando il consigliori Tom gli sintetizza all’orecchio il problema del mafioso che ha chiesto udienza. E pazienza per quella scritta sulla t-shirt nera inneggiante alla liberazione dell’ultrà assassino dell’ispettore di polizia Filippo Raciti. Pazienza anche per i razzi e i petardi che fanno scappare subito dopo tutti, ricordando, a ogni buon conto, chi comanda.
Basta con le stucchevoli analisi sociologiche sulla violenza della società contemporanea, sul lavoro che non c’è, sul disagio sociale, sulla rabbia che cova sotto la cenere e cerca sempre uno sfiatatoio. La questione è molto più semplice, nella sua brutalità. Il problema, annoso, è il rapporto perverso tra società di calcio e tifo organizzato. È nelle complicità, nell’omertà, nella “convenienza” che spinge una società di calcio ad avere rapporti opachi con questi figuri.
Qual è la logica che porta l’allenatore Seedorf ad incontrare gli ultras del Milan dopo la sconfitta con il Parma? Se a me non piace l’ultimo film di Robert De Niro, al massimo decido di non guardare il successivo, per ripicca. Ma non vado ad attendere l’attore sotto casa per chiedergli conto di una interpretazione che non è stata di mio gradimento o per suggerirgli quali ruoli accettare in futuro.
Ci sono interessi economici, legati all’indotto economico che l’evento calcistico genera in uno stadio, sui quali il tifo organizzato mette regolarmente le mani con la compiacenza delle società di calcio. Per questo motivo ai cancelli non passa la bottiglietta dell’acqua del bambino, ma entrano bombe carta, bulloni, catene e motorini da lanciare dal secondo anello. Per questo motivo, se gli ultras chiedono ai propri giocatori di togliere la maglietta perché considerati indegni, quelli la tolgono. In lacrime, ma la tolgono. E basta con la balla dell’onore ultrà: non c’è niente di “onorevole” negli scontri violenti con la tifoseria avversaria o con le forze dell’ordine, e neanche nelle razzie agli autogrill di teppistelli che assaltano gli scaffali ed escono senza pagare, con le tasche gonfie di cioccolatini, caramelle, souvenir.
Gli ultras violenti non sono tifosi esagitati, che “vivono” in maniera più intensa degli altri la partita della squadra del cuore. Sono criminali, delinquenti da perseguire con il codice penale, non con le carezze del Daspo o con le assurdità burocratiche della tessera del tifoso. Altrimenti a farne le spese sarà sempre chi ama davvero il calcio e, ad ogni partita, torna a casa con in bocca il retrogusto amaro della delusione per una storia finita.

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