In un celebre verso Attilio Bertolucci osserva che l’assenza è una presenza “più acuta”. Sorte toccata a Tiziano Terzani, scomparso da dieci anni ma vivo nel dibattito culturale e letterario, addirittura nel costume di una società in crisi e alla ricerca di una bussola o soltanto di parole lievi come una carezza. Se in vita Terzani fu “soltanto” un grandissimo inviato e scrittore, autore di reportage che oggi vengono studiati nelle scuole di giornalismo, con la morte – con l’esposizione “pubblica” della malattia e della morte – è diventato un poeta dell’esistenza (copyright del velista in solitaria Giovanni Soldini), profeta laico dell’urgenza di “pensare diversamente” la realtà, perché “il mondo non è più quello che conoscevamo” e “questa è l’occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all’oggi e potrebbe domani portarci al nulla”. L’occasione per comprendere – dopo avere visto da vicino e raccontato il fallimento delle rivoluzioni in Vietnam (dove era stato tra i pochi testimoni della resa di Saigon e della fuga rovinosa degli americani all’arrivo dei vietcong, nel 1975), Cambogia, Unione Sovietica, Cina – che l’unica rivoluzione possibile è quella che conduce alla pace interiore: consapevolezza spinta fino all’accettazione serena della morte in Un altro giro di giostra, l’ultimo e più intenso viaggio (“nel male e nel bene del nostro tempo”) del giornalista fiorentino.
Il pellegrinaggio incessante lungo il “sentiero Terzani” per raggiungere l’albero “con gli occhi” nel bosco del suo ritiro all’Orsigna, sull’appennino tosco-emiliano, dove fece costruire una gompa tibetana e ricreò l’atmosfera dell’ashram indiano in cui aveva a lungo vissuto facendosi chiamare Anam, “il senza nome” (e da Anam sottoscrisse la volontà di essere cremato: “un nome appropriatissimo per concludere una vita tutta spesa a cercare di farmene uno”); i numerosi e attivi gruppi di lettura che leggono e dibattono i suoi libri; l’ospedale di Emergency a Lashkar-gah in Afghanistan e le scuole “Tiziano Terzani” sono espressione di un fenomeno sociale, del bisogno di esempi di bellezza, purezza, umanità. Anche quando si ha a che fare con il fondamentalismo islamico, perché i terroristi si sconfiggono eliminando le ragioni che portano migliaia di persone a imbracciare le armi o a farsi saltare in aria, non rispondendo al sangue con altro sangue. Le Lettere contro la guerra rappresentano il punto più alto del suo impegno civile all’indomani dell’11 settembre, quando decide di “scendere in pianura”, tornare cioè nel mondo dopo la scelta del prepensionamento da Der Spiegel, stanco della professione, convinto di avere detto tutto ciò che aveva da dire sul giornalismo, ritirato sull’Himalaya senza l’assillo di scadenze che non fossero quelle della natura e delle stagioni. Nel momento storico dominato dal “siamo tutti americani” lanciato dal direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli e dal livore di Oriana Fallaci, che in La rabbia e l’orgoglio mette sul banco degli imputati la “viltà” di un’Europa prona e diventata “Eurabia”, Terzani torna per indicare nella non-violenza la sola strada percorribile per spezzare la spirale dell’odio.
La lapide che lo ricorda nel cimitero di Orsigna ne riassume la vita con la parola “viaggiatore”, mentre la moglie Angela Staude ricorre al tedesco Sehnsucht (“brama di vedere”) per definire il fascino che gli suscitavano paesaggi e culture lontani non solo geograficamente dall’orizzonte occidentale e per racchiudere la dimensione più autentica di Terzani, quella del “viandante alla ricerca della conoscenza”: “la meta, per Tiziano, è stata la strada, il cammino”.
*Articolo pubblicato su Segnali di cultura a cura di Adexo Ufficio Stampa, 28 luglio 2014
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