Lo sguardo rivolto alla finestra si scontra con il grigio del cemento, oltre il vetro. Un tempo infinito senza vedere l’azzurro del cielo o uno scampolo di vita. Senza sapere niente del freddo di fuori. Con quella voce che rimbomba in testa: «Se è ematoma, svuotiamo. Altrimenti bisognerà tagliare la gamba». E la risposta glaciale di chi ha soltanto sete di verità: «Quel che sarà, purché si esca da questo stato di incertezza». Non è la spavalderia di un ragazzo convinto di poter masticare il mondo. È la ricerca di un appiglio al quale aggrapparsi per ricominciare. Anche con una gamba, purché finisca l’odissea di cliniche, ospedali e oncologi da Sud a Nord. Ecografia-tac-risonanza magnetica; ecografia-tac-risonanza magnetica: «Se non è un ematoma, è un tumore». L’odore di anice del mezzo di contrasto, il colpo di sonno dentro al macchinario della risonanza magnetica, i fogli dell’anamnesi da riempire ogni volta. Le storie ascoltate da compagni di stanza transitori. Infine Gianni, alto e milanista, beccato dal primario con una sigaretta da divorare in pochi, rapidi, profondissimi tiri. Trenta maledetti secondi.
Il camice e la cuffia, il gelo della sala operatoria e la voce di Lucio Battisti in sottofondo, che si allontana sempre di più... Buio. Risveglio. La mano che corre subito sulla gamba, a tastare. C’è. Chissà, forse potrò giocare a calcio tra qualche mese: lo chiederò al primario, appena passa.
Caldo, caldo, un incendio divampato dentro al corpo e la sensazione di un naufragio, il centro del materasso un buco nero che risucchia e fa inabissare. Caduta libera, l’interruttore si spegne. Buio. Di nuovo buio e di nuovo sala operatoria. Al ritorno Gianni non c’è. Ci sono le sue ciabatte, resteranno a lungo ai piedi del letto. L’intimazione alla moglie è di non toccarle, deve tornare lui a riprenderle. Anche Gianni raddoppia, ma per lui niente tripletta: «Ok, tu hai tre interventi in anestesia totale in dieci giorni, ma io ho due operazioni e una settimana di terapia intensiva», il bilancio finale di giornate furibonde, addolcite dal sorriso dell’infermiere: «Ma voi due non ne volete sapere di andare via da quest’ospedale?».
Non credo ai miracoli, né alla fatalità o alle pagine già scritte. Credo nella preparazione, nella tempestività e nei nervi saldi di chi ha capito che era emofilia. Credo in sette sacche di sangue passate nelle vene, come il carburante dalla pompa del distributore al serbatoio della macchina. Credo nella simpatia del chirurgo prima dell’ultimo incontro in sala operatoria: «Non fare scherzi, perché io non ti apro più». Credo in quattro lunghissimi mesi di endovene a base di fattore VIII sintetico, le braccia doloranti e l’eredità di un’insofferenza istintiva per le attese nei corridoi degli ospedali.
Credo negli occhi lucidi dell’abbraccio finale con Gianni, che resta un mese in più e si aggiudica il premio ideale di “arredo umano” della clinica Humanitas di Rozzano.
E credo agli attimi in cui avrei voluto fermare il tempo, davanti alla grande vetrata che apre sul giardino e fa baciare dal sole il mio viso scolorito, mentre sul prato i passeri saltellano spensierati.
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1 commento:
Io invece credo nei miracoli in quanto gesti di amore di un Dio silenzioso che aspetta e rispetta la libertà donata ai suoi eredi come pegno di amore infinito!
È un grande mistero la sofferenza ma anche un dono per i suoi eletti.
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