Il sogno è durato dodici ore appena. Poi si è tramutato in incubo. Troppo brutto per non pensare che non fosse tutto preventivato. Insomma: ne avranno parlato alla riunione di ieri sera quelli del Partito democratico. Quindi, perché spaccare il partito? Perché fare di Franco Marini l’agnello sacrificale di questo primo giro di votazioni? Non voglio pensare che Bersani sia un fesso, né che sia così masochista da disintegrare un partito che, a questo punto, non ha neanche ragione di esistere. E quindi? L’ennesima dimostrazione che i destini e le ambizioni personali vengono prima di tutto. Prima, anche, degli interessi dell’Italia e finanche del proprio partito.
Fatto sta che con un sol colpo, Bersani è riuscito nell’impresa record di rafforzare Grillo, Renzi e Berlusconi (che ci ha fatto un figurone, lasciando sbranare tra di loro i democrats e passando – lui – per responsabile uomo di Stato). Al modico costo della distruzione del propria “ditta”. Roba da guinness dei primati.
Sia chiaro che il problema non è Marini, anche se il “patto della crostata” e la responsabilità del “lupo marsicano” nell’abbattimento del primo governo Prodi fanno parte di un curriculum non invidiabile.
Il problema è la puzza di oligarchia che spande da un’operazione sfacciatamente di vertice; il problema è la strafottenza di un ceto dirigente che se ne sbatte degli umori della base e delle proteste fuori dal Parlamento. Al solito, è insopportabile la presa per il culo.
Tutto da rifare, per dirla alla Bartali. Cosa ci sia da salvare, a questo punto, è poco chiaro. Sarebbe già un risultato accettabile riuscire a non farsi insultare.
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