lunedì 5 settembre 2016
Tra i vivi che dormono
Vorresti una risposta. Lo so che davvero ti interessa sapere come sia potuto accadere. Com’è stato che un giorno ho calato i paraorecchie del cappello, allacciato i bottoni del cappotto, ridotto la mia vita a questo eterno andirivieni sul marciapiedi fuori di quella porta scassata, con i vetri opachi a proteggere la penombra di un paio di sedie e poco altro. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Nella testa una babele di parole che soffio leggere, per farmi compagnia: in tedesco, francese, inglese.
Un tipo strano, taciturno, solitario. Saluto tutti, perché tutti mi conoscono. Ma giusto qualche frase, un filo sillabato che annodo a un passato lontano, non più mio. Anche quando ti chiedo di tuo padre, di tua madre, dei tuoi fratelli. Faccio così con chi si ferma e non tira dritto senza neanche guardarmi, quasi fossi un fantasma. Poi torno al silenzio di questo basso, ai suoi colori spenti, vecchi. Vecchi come me, ormai.
Non è rimasto granché del bambino paffutello in sandali, riga di lato e camicia di flanella a quadri con le maniche arrotolate al gomito. Soltanto uno scatto, un attimo fermato per sempre da chissà chi, un tempo infinito seduto sul gradino del mastro calzolaio con tutta la squadra di apprendisti. Le gare a chi con la calamita raccoglieva più chiodini per terra, la sera prima di chiudere. Gli scherzi e le barzellette, mentre Mister Volare e il Reuccio si contendevano il cuore innamorato dei garzoni più grandi dall’altoparlante di una radio a valvole. Gli scapaccioni per un pezzo di cuoio tagliato male.
Come tanti cercai la mia stella lontano da qui. Hai presente i Maggiolini? Ancora vanno di moda, tanto che la Volkswagen continua a produrne di nuovi. Ecco, da un posto dimenticato da Dio ero andato a finire a Wolfsburg. Un tutt’uno con la fresa e con il tornio che facevo suonare come fossero un pianoforte.
Non mi chiedere cosa, a un certo punto, è successo. Sì, la conosco la storiella che ripetete e che vi raccontate per provare a spiegare il mio silenzio, la mia clausura. Per dare un senso logico a ciò che invece ne ha uno chiarissimo. «È stato drogato a forza, la droga gli ha bruciato il cervello e l’ha fatto diventare pazzo». Altri no, per loro c’entra il lavoro: «Ha avuto un infortunio in fabbrica. Ha battuto con la testa e da allora non è più stato lo stesso». O magari una donna, certo: come avete fatto a non pensarci prima? Dietro ad ogni cervello folle finito sulla Luna c’è un’Angelica scappata con qualcuno: cherchez la femme.
E invece no. Non è andata così. Semplicemente, è stato che a un certo punto ho detto “basta”. Non mi andava più di marciare alla conquista della felicità ripetendo in fabbrica, ogni santo giorno, gli stessi movimenti. Meccanicamente. Senza mai scambiare una parola con l’operaio accanto, uno sconosciuto con cui dividevo la mia solitudine. Senza mai pensare a niente, una dimensione fatta di sudore e gesti automatici. Sperando soltanto che un moscone non cercasse di infilarsi nel naso, distogliendomi dal mio lavoro.
Non avevo molto da perdere, tornai alle quattro mura scalcinate della mia infanzia. La compagnia dei corsi di lingua per corrispondenza, la radio unica finestra sul mondo. Passo le mie giornate così, tra i vivi che dormono. Altri daranno un significato ai propri tentativi, se la caveranno, sorrideranno.
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