venerdì 30 aprile 2021

Nuovo blog

A dicembre 2020 ho aperto un nuovo blog, sul quale ho anche trasferito tutti i post qui pubblicati. Chi volesse, può continuare a seguirmi all'indirizzo Blog - Messaggi nella bottiglia


mercoledì 25 novembre 2020

Splendi, Diego

 

Scrivo di te di notte, l’ora del dialogo con le stelle. L’ora dei sogni. L’ora dell’amore. Perché sei stella, sogno e amore. Sei “Pibe de oro” e “mano dei Dios”, sei “Isso”: il liberatore dei popoli oppressi, il riscatto degli scugnizzi, il bambino che grida che il re è nudo mentre attorno il sistema volge lo sguardo da un’altra parte. Per paura o per debolezza. Due sentimenti che non ti appartengono, che non possono appartenere a chi ha respirato la polvere di Villa Fiorito. 
Sono argentini i due più grandi rivoluzionari della seconda metà del XX secolo: Ernesto Che Guevara e tu, Diego. «Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo». Ed è quello che hai fatto salendo le scale degli spogliatoi del San Paolo, il 5 luglio 1984. Caricandoti sulle spalle la rabbia degli ultimi per condurli nella scalata al cielo: sapendo che “la vita è una lotteria di notte e di giorno”, come canta di te Manu Chao. Lo sai meglio di chiunque, Diego: conosci vittorie e sconfitte della vita, quella tua vita che hai spesso maltrattato, ma sempre amato. Sei il Lord George Byron del calcio. Lo sarai per sempre, con quel cuore grande che hai portato anche in un campo infangato di Acerra, per mantenere la promessa fatta ad un bambino malato. E come sorridevi, quel giorno. Per questo la gente ti ama e ti amerà per sempre: come me, con il tuo poster attaccato accanto a quello dell’Inter dei record. 
E allora splendi, continua a splendere, nell’eterno presente in cui vivono gli Dei.

domenica 22 novembre 2020

Il volontariato al tempo del Covid

Tutto è nato per caso, sulla chat Whatsapp dei volontari dell’Agape. Ci siamo detti: «Perché non facciamo una videochiamata collettiva, una sorta di riunione dell’associazione “da remoto”? Giusto per vedersi, per come è possibile con l’emergenza sanitaria che ha cambiato molte nostre abitudini, anche le modalità dello stare insieme. 

Dal piacere di ritrovarsi al lancio dell’idea è stato un attimo: «Perché non utilizzare le potenzialità della tecnologia per continuare le nostre attività?». E così, in questo fine settimana, siamo ripartiti. Non possiamo fare molto, ma fare qualcosa può essere davvero tanto per chi, in fondo, ha principalmente bisogno di compagnia e di calore. Alcuni di noi hanno partecipato ad una videochiamata con gli anziani della RSA “Mons. Prof. Antonino Messina”, grazie alla disponibilità della direttrice Rossana Panarello e, in questo primo collegamento, di Michela Carbone che ha fatto da tramite tra i volontari e gli anziani: qualche scambio di battute, domande, sorrisi. Un’esperienza ripetuta oggi con una tra i ragazzi speciali che in estate partecipano alla colonia estiva e che a turno coinvolgerà anche gli altri. Anche in questo caso, molta sorpresa e tanta gioia sul display a mosaico. 

Non bisogna arrendersi, neanche al lockdown. Per questo siamo decisi ad “esserci” nella nostra comunità, come ci siamo dal 1991: il prossimo, sarà l’anno del trentennale e va festeggiato! A dicembre non potremo mettere in campo le consuete iniziative del “Natale di solidarietà”, ma nel nostro piccolo cercheremo di stare vicino a chi non desidera altro che una carezza, seppure virtuale. Piccoli gesti, sulla scia delle parole di Teresa Sarti, cofondatrice di Emergency, che spiegano il senso delle attività di volontariato: «Se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene».   

venerdì 20 novembre 2020

A futura memoria

Il 20 novembre 1989 moriva Leonardo Sciascia: scrittore ed intellettuale eretico, illuminista e cultore dell’arte del dubbio, protagonista di battaglie civili ancora attuali. Un oracolo inascoltato, che spesso dovette scontare la solitudine: «Mi sembra di aggirarmi nella realtà italiana, non come un veggente, ma come un fantasma». Sciascia professò la religione della ricerca della verità, della difesa del diritto, delle regole, della Costituzione. Gesualdo Bufalino, del quale il 15 novembre è ricorso il centenario della nascita, definì l’opera di Sciascia “un unico grande libro sulla giustizia” e appare oggi come un testamento la citazione dello scrittore e drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt, posta da Sciascia in epigrafe al suo ultimo romanzo “Una storia semplice”: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia». 

Nei mesi scorsi ho avuto modo di rileggere molte opere di Sciascia, in particolare i saggi e gli articoli dedicati ai temi del garantismo e del diritto, alcuni dei quali confluirono nel libro “A futura memoria”. Titolo che mi colpì quando lo lessi per la prima volta e che non a caso presi in prestito per chiudere il mio primo “messaggio nella bottiglia” (24 marzo 2010), in una sorta di omaggio nascosto tra le righe.
Per ricordare il “maestro di Racalmuto” riporto un brano dell’articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” il 7 agosto 1983, nel quale, prendendo spunto dal “caso Tortora”, Sciascia affrontava provocatoriamente i temi del garantismo e delle disfunzioni dell’amministrazione della giustizia: 
«… resterà il problema del come e del perché dei magistrati, dei giudici, abbiano prestato fede ad una costruzione che già fin dal primo momento appariva fragile all’uomo della strada, al cittadino che soltanto legge o ascolta le notizie. E qui entriamo nel vivo. Ogni cittadino, quale che sia la sua professione o mestiere, ha l’abito mentale della responsabilità […] sa che di ogni errore deve rendere conto e pagarne il prezzo a misura della gravità e del danno che […] ha arrecato. Ma un magistrato non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera […]. E credo che sia, questo, un ordinamento solo e assolutamente italiano. Inutile dire che dentro un ordinamento simile che addirittura sfiora l’utopia, ci vorrebbe un corpo di magistrati d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo, ma anche, e soprattutto, di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza. E altro che sfiorare l’utopia: ci siamo in pieno dentro. E come uscirne, dunque? Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza. Ma mi rendo conto che contro un’utopia è utopia anche questa. Un rimedio più semplice sarebbe quello di caricare di responsabilità i magistrati senza preventivamente togliere loro l’indipendenza: e cioè di dare ad ogni cittadino ingiustamente imputato, una volta che viene prosciolto per più o meno mancanza di indizi, la possibilità di rivalersi su coloro che lo hanno di fatto sequestrato e diffamato».

martedì 17 novembre 2020

Ho scelto la vita

“Ho scelto la vita” è il titolo dell’ultima testimonianza pubblica sulla Shoah della senatrice Liliana Segre, condivisa il 9 ottobre 2020 nel borgo di Rondine (Arezzo). Una scelta che le consentì di sopravvivere all’orrore di Auschwitz e di trasformare la marcia della morte in marcia della vita: camminando “una gamba davanti all’altra, con i piedi piagati, mentre chi cadeva veniva finito con una fucilata in testa”; brucando nei letamai alla ricerca di qualcosa da mangiare; cibandosi con la carne cruda di un cavallo morto, strappata con le unghie e con i denti; succhiando foglie. 

Come fu possibile tutto questo? Liliana Segre lo spiega con una sola parola: indifferenza. Dodici lettere che lei stessa ha fatto incidere a caratteri cubitali all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano, realizzato nel binario 21 della Stazione Centrale, da dove partivano i carri bestiame pieni di ebrei destinati ai campi di concentramento: «Se pensi che una cosa non ti riguardi e ti volti dall’altra parte, è lì che inizia l’orrore».

Furono in tanti, in Italia, a girarsi dall’altra parte. Ed è comodo, per la coscienza collettiva della nazione, attribuirne la responsabilità in via esclusiva al fascismo e non, piuttosto, ad un humus culturale razzista, presente nella società italiana e capace di produrre frutti velenosi ancora oggi. Il “Manifesto degli scienziati razzisti”, la “Dichiarazione sulla razza” del Gran consiglio del fascismo (“È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”), l’esclusione degli ebrei dalle scuole pubbliche e dallo svolgimento di determinate professioni (pubblica amministrazione, banche, assicurazioni, notariato, giornalismo), la negazione dei diritti politici e civili, il divieto di matrimonio tra cittadini italiani di razza diversa furono atti e provvedimenti che ebbero largo consenso, così come lo stesso regime fascista fino al 10 giugno 1940. Erano italiani coloro che segnalavano alle autorità, per pochi soldi, il vicino di casa ebreo. Non dimentichiamolo.

«La memoria – scrive Ferruccio De Bortoli nella prefazione al libro – è un vaccino prezioso. Ci aiuta a combattere con intelligenza e moderazione i miasmi del totalitarismo che una società conserva, nonostante tutto, nel suo inconscio, nel retrobottega della sua storia collettiva, familiare, personale».

Auschwitz – scrisse Primo Levi – è “la mancanza di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”. Ed è il ricordo di Liliana, ragazzina tredicenne alla quale viene semplicemente detto di dimenticare il proprio nome, perché da quel momento sarebbe stata soltanto un numerino tatuato sul braccio. Nell’istante in cui si diventa una cifra riportata sopra un registro dell’ufficio matricola inizia, sempre, l’opera sistematica di annullamento della dignità dell’uomo.  

Per Liliana Segre, scegliere la vita significò allora «sognare di essere fuori di lì, il rumore di un bambino che gioca, un gattino, un prato verde, una qualsiasi cosa bella». Scegliere la vita, oggi, significa fare opera di memoria ed assumere collettivamente la funzione delle pietre d’inciampo che in molte città europee ricordano le vittime del nazismo.


domenica 15 novembre 2020

Giornata mondiale dei poveri

“Non serve per vivere chi non vive per servire”: utilizzando le parole di don Tonino Bello, Papa Francesco ha ribadito il valore del messaggio evangelico “tendi la tua mano al povero”, tema centrale dell’odierna Giornata mondiale dei poveri. Ma cos’è la povertà? Ovvio, esiste una spaventosa povertà materiale, sulla quale noi fortunati abitanti della parte sviluppata del pianeta tendiamo a chiudere gli occhi, fino a quando non ci presenta il conto degli sbarchi dei disperati che scappano da guerre, eccidi, carestie. Occhi che sgraniamo quando i sei mesi di Joseph finiti in fondo al mare gridano vendetta, per poi dimenticare. Perché “il dolore degli altri è un dolore a metà”: ce l’ha insegnato Fabrizio De Andrè, con gli emarginati e i diseredati ai quali ha dato voce e dignità letteraria, riconoscendo loro il diritto di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”. E poi esiste una povertà dello spirito, che ci porta ad inseguire bisogni sempre più crescenti, sempre più effimeri, sempre più egoisti. Scrooge, l’avido protagonista di “Canto di Natale”, è poverissimo. 
Contagiati come siamo dal virus dell’indifferenza, il male che il prete degli ultimi don Andrea Gallo definì “l’ottavo vizio capitale”, neanche ci accorgiamo di coloro che hanno realmente bisogno: si tratti di un piatto di pasta o di una carezza. Quante volte ci giriamo dall’altra parte, per non vedere e per sentirci così a posto con la nostra coscienza vigliacca? Ciò che non si vede non esiste, a maggior ragione in una società fondata sulle immagini. Ritoccate e spacciate per vere, tra l’altro. 
L’imperante cultura dello scarto nasconde sotto il tappeto tutto ciò che sporca un’immagine fasulla di arcadia. Eppure bisognerebbe imparare a “sedersi dove la gente si siede”, come padre Alex Zanotelli a Korogocho, baraccopoli di Nairobi. Perché tutti gli esseri umani dovrebbero avere il diritto a vivere con dignità. Ovunque si trovino, quale che sia la loro condizione: liberi e oppressi.

lunedì 2 novembre 2020

2 novembre 2020

Quanto siamo cambiati da marzo ad oggi? Quanto le nostre vite sono state stravolte dal Covid? A quante abitudini abbiamo dovuto rinunciare? Ci pensavo oggi, mentre il pensiero andava ai “miei” defunti. Parenti e amici che non ho potuto salutare come facevo ogni anno, lasciando sulle loro tombe un fiore o un lumino. Ho ripercorso mentalmente il percorso che faccio quando entro nel cimitero, in una sorta di appello degli assenti. Ci sono tutti. 
La pandemia ci ha rinchiusi nelle nostre case, costringendoci ad una solitudine che diventa più acuta in occasione di una ricorrenza. Avvertiamo lontana e rimpiangiamo la tradizione dei “morti”, quando da piccoli andavamo a bussare alle porte delle case per ricevere qualche soldino, frutta e dolcini. In quelle castagne, in quei cioccolatini si realizzava il miracolo dell’incontro simbolico con l’aldilà, poiché i questuanti – sostiene l’antropologo Vito Teti – non erano altro che “vicari” dei defunti. I bambini rappresentavano le anime dei propri cari, che avrebbero sofferto molto in caso di rifiuto. 
Nelle fotografie delle lapidi cerchiamo occhi e lineamenti che ci riconducano ad una storia ininterrotta, nonostante la morte: “le tessere giganti di un domino che non avrà mai fine” (De Andrè). Cerchiamo il calore di parole che abbiamo ascoltato, di gesti che ci hanno fatto sentire amati. Oggi, tutto questo non c’è stato: sono mancate le visite e, con esse, un aspetto profondo del rapporto con la morte nella nostra cultura religiosa e popolare. 
Non potendomi recare al cimitero, ho deposto un lumino ai piedi del Crocifisso del monumento dei caduti. A quel Cristo che, per chi crede, è risorto dalla morte e, per chi non crede, è comunque il simbolo della lotta non violenta contro gli abusi del potere e delle autorità. Il predicatore dell’egualitarismo e della fratellanza universale. Il volto degli “ultimi” della Terra, di tutti coloro che soffrono nel fisico o portano sul cuore cicatrici impresse come solchi.

giovedì 29 ottobre 2020

Parole

Parole come in un sogno ora vivace ora dai contorni sfumati, dimenticate all’alba, quando si rintanano nella cuccia onirica dei fantasmi della mente.

Parole da appuntare sul bloc notes del comodino sforzando la vista, disegnando nel buio il gancio al quale rimanere sospesi per non precipitare nel gorgo.

Parole di un matto, intrappolate nel cuore.

Parole dure come il silenzio, come le urla.

Parole altre, osservate dal molo mentre scivolano nella tasca dell’orizzonte, come le stagioni.

Parole come sirene che violentano la notte.

Parole a tutta pagina, definitive come fede incrollabile.

Parole impastate dalla frana che va a valle.

Parole conficcate come chiodi sulla bara.

Parole da tenere in tasca per farsi compagnia.

Parole come la carezza di un’eco lontana.

Parole incastonate negli occhi.

Parole come unguento per medicare l’anima.

Parole come un diritto per il quale vivere e morire.

Parole come una liberazione.

Parole da affidare al vento, come il bacio di Pablo Neruda.    


mercoledì 21 ottobre 2020

Antonio Manucra, il geriatra eufemiese in trincea contro il Covid


Tutti ricorderanno la bella storia di Emma e Adriano (79 anni lei, 86 lui), i coniugi sposati da 60 anni che guarirono dal Covid-19 a due mesi dal contagio. Le immagini della loro uscita dall’ospedale di Bobbio, comune della Val Trebbia (Piacenza) eletto Borgo dei Borghi nel 2019, fecero il giro dei telegiornali e guadagnarono le prime pagine dei giornali. Accanto a loro il medico che li aveva seguiti sin dall’ingresso in ospedale, Antonio Manucra, sottolineava quanto quella vicenda fosse un segnale di speranza, “una piccola lucina nel buio degli ultimi due mesi”, pur non nascondendo “i momenti brutti e pesanti”, per superare i quali “è stato fondamentale l’aiuto di tutti, il conforto di tutti, le carezze e i sorrisi di ciascuno di noi”. 
Diploma al liceo “Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte, una specializzazione e un master in geriatria dopo il conseguimento della laurea in medicina presso l’Università di Messina, da quindici anni Manucra è dirigente medico presso l’AUSL di Piacenza, in forze al presidio ospedaliero di Bobbio, dove svolge attività di reparto: responsabile del centro demenze e disturbi cognitivi, referente aziendale del centro Terapia Anticoagulante Orale e Nuovi Anticoagulanti Orali, referente delegato ambulatorio di angiologia, attualmente è inoltre facente funzioni di Direttore del nosocomio bobbiese. L’Emilia Romagna (42.000 contagi) è seconda solo alla Lombardia per numero di decessi: 4.500, dei quali circa 1.000 nella sola provincia di Piacenza, la più colpita. 
Per questo motivo crediamo possa essere utile ascoltare la voce di chi combatte sul campo il nemico subdolo che sta cambiando la vita di noi tutti. La voce di chi, mentre affrontava quel buio, scriveva per sé stesso una sorta di vademecum: «Una nuova maschera da indossare, una nuova giornata da affrontare. Solidi, sicuri, sempre... L’uomo prima di tutto, la dignità da preservare, sempre... Parole che confortano, sorrisi che riscaldano il cuore, carezze che allontanano la solitudine imposta. Gesti da ripetere, tornare, per ripartire. Il cuore che si riempie di emozioni, di tristezza di senso di impotenza. La pioggia dirompe e tutto vacilla, ma solo per un attimo, è umano! Poi la forza di reagire e di proseguire su una via impervia e sconosciuta, ma con la consapevolezza di proseguire e non fermarsi». 

D – L’emergenza Covid ha messo a dura prova anche la tenuta emotiva del personale medico ed ospedaliero. Come si affronta un nemico “sconosciuto”? 
R – «Il sentimento prevalente, dominante, di quei tristi giorni (mi riferisco all’ultima settimana di febbraio e al mese di marzo e poi, in misura minore, di aprile) era di incertezza, di disorientamento. Ci siamo trovati, nel giro di pochi giorni, dal pensare al virus come a qualcosa di lontano ad avercelo in casa (Lodi e Codogno sono molto più vicini a Piacenza che non a Milano): è stato come assistere alla deflagrazione di una bomba con conseguenze che sembravano non dover finire mai. Avevamo di fronte un nemico invisibile, sconosciuto e molto insidioso. Non conoscevamo nulla di questa infezione da Covid-19 (coronarivirus desease 2019). Non sapevamo, oltre ai problemi respiratori, cos’altro potesse interessare e intaccare. Né quali potessero essere i “reliquati” (conseguenze di una malattia passata, n.d.r.). Soltanto in un secondo momento si è visto, da uno studio sulle microembolie condotto presso l’ospedale di Castel San Giovanni (altro ospedale della nostra rete, che è stato il primo ospedale Covid in tutta Europa) che l’eparina poteva essere utile; si è visto che veniva interessato il microcircolo; si è visto che veniva interessato il sistema nervoso centrale e periferico (ecco il perché del sintomo della perdita dell’olfatto e del gusto). Insomma, ci siamo trovati spiazzati». 

D – Detto in maniera un po’ brusca, il tuo lavoro e la “tipologia” dei tuoi pazienti ti porta ad avere una certa familiarità con i decessi. In che cosa il Covid è stato diverso? 
R – «Da medico, ma soprattutto da uomo, credo che non ci si abitui mai alla morte. Il nostro reparto (internistico), come tutte le medicine, ospita in prevalenza pazienti in età avanzata e per questo fragili per definizione. Ovviamente ci siamo trovati di fronte ad una situazione straordinaria. Il momento peggiore del maledetto mese di marzo sono state le ore tra le 11.10 circa del 21 e le 14.00 del 22: abbiamo avuto 5 decessi, in un reparto che conta 24 posti. Nei mesi di marzo e aprile abbiamo avuto il numero di decessi che in genere contiamo in un anno e mezzo. Ma l’aspetto più angosciante è stata la solitudine dei pazienti, nonostante la fascia oraria dedicata alla videochiamata con i familiari. Pensare anche alla mancanza del conforto dei propri cari… Qualcosa di tremendo». 

Un’esperienza professionale estrema, per le continue assenze di colleghi, infermieri ed operatori sanitari (a volte il 50% del personale), come ha successivamente sottolineato Manucra nel ringraziare il personale sanitario: «Siamo stati pronti a rivedere la nostra organizzazione interna, anche a causa delle numerose assenze tra il personale sanitario, e lo abbiamo fatto senza battere ciglio. Ognuno di noi ha rinunciato ai propri riposi per poter garantire l’assistenza ai nostri degenti, impedendo quindi che la “macchina” si fermasse. Molti di noi si sono ammalati, alcuni sono ad oggi ricoverati ed in serie condizioni cliniche e a loro va il nostro pensiero e le nostre quotidiane preghiere. Il tasso di mortalità, tra i degenti, di queste ultime settimane è stato spaventoso. Abbiamo visto morire molti anziani soli e senza il conforto dei propri cari. Tutti voi, infermieri e OSS, avete contribuito a mantenere operativo il nostro ospedale, sobbarcandovi di compiti difficili e pesanti. Avete saputo gestire con competenza e professionalità i ricoveri ed i decessi occorsi in questi giorni, anche in assenza del medico di reparto. A tutti voi, che avete accettato le “novità” organizzative, imposte dallo stato di necessità, a tutti voi dico GRAZIE!!!». 
Assenze che per 16 giorni, come ricorda un servizio giornalistico del quotidiano di Piacenza “Libertà” (21 aprile), hanno fatto del geriatra eufemiese l’unico medico presente in ospedale. Mentre il virus si portava via gli amici ed entrava nella sua abitazione di Rivergaro, contagiando la moglie Mariana Iofrida – anche lei medico in servizio presso l’ospedale di Bobbio – e causando il trasferimento dei tre figli (Francesco, Marco, Matteo) presso nonna Carmela: «Il virus era ovunque. Mi viene da pensare quanto fosse complicato anche solo abbozzare un sorriso, comunicare ai figli che avevo la situazione in mano quando invece non era sempre così. Per me il mese di marzo del 2020 è un brivido che ancora mi insegue». Le salme che non si potevano portare nella camera mortuaria e venivano sistemate nel primo piano dell’ospedale, con la mascherina e avvolte da un telo disinfettato. Scene atroci, difficili da dimenticare perché “non siamo delle macchine”. 

D – Cos’è cambiato rispetto a marzo, sotto il profilo organizzativo e nella capacità di dare risposte più efficaci e tempestive? 
R – Nella nostra realtà, mi riferisco all’AUSL di Piacenza, è cambiato molto rispetto alla routine lavorativa dell’era pre-covid. Sono stati creati protocolli che regolano il flusso dei pazienti dal Pronto soccorso ai reparti e tra reparti. Le visite ai degenti erano state contingentate, ma dal 15 ottobre sono state nuovamente sospese a causa dell’aumento dei casi di positività. Sono stati creati nuovi posti di terapia intensiva e subintensiva (questi ultimi, nel giro di poche ore possono essere trasformati in posti letto di terapia intensiva), sono stati assunti più infermieri (77) per il territorio. In Emilia sono nate le USCA (Unità speciali di continuità assistenziale) che fanno i tamponi casa per casa allo scopo di isolare e limitare la diffusione del virus: nella solo AUSL di Piacenza esistono, ad oggi, 18 squadre. Le attività ambulatoriali sono riprese, ma gli orari sono stati aumentati per evitare assembramenti. 

D – L’emergenza sanitaria ci ha insegnato qualcosa? 
R – L’emergenza sanitaria ci ha insegnato che deve essere la medicina a cercare i malati e non viceversa. Ci ha insegnato che la tendenza a centralizzare attorno agli ospedali “grandi” (i cosiddetti HUB), in una visione ospedalocentrica, non va bene. Occorre invece rafforzare il territorio. Ci ha insegnato che la sanità deve essere pubblica ed universale, in modo da consentire l’accesso alle cure a tutti. I tagli degli ultimi dieci anni sono stati pagati tutti e con gli interessi: tagli sugli ospedali (più di 200), riduzione dei posti letto inseguendo una media assurda, tagli agli investimenti… 

D – Torneremo alla vita di prima? “Andrà tutto bene”? 
R – Contrariamente a ciò che qualche incosciente sostiene, non siamo di fronte ad una “banale” influenza. Abbiamo a che fare con un virus insidioso, che purtroppo circola. Occorre comprendere che più aumentano i positivi e più aumenteranno gli ammalati; di conseguenza, crescerà il numero di coloro che avranno bisogno di cure e, anche, di cure intensive. Per questo è necessario un maggiore impegno delle istituzioni nel settore degli investimenti nella sanità pubblica. Ma per tornare alla vita di prima, per far sì che tutto vada bene, occorre uno sforzo di responsabilità e di senso civico. Dipende da noi. Ne usciremo, se riusciremo a superare individualismo; se, e solo, tutti insieme adotteremo le cautele del caso e ci adegueremo a indicazioni molto semplici: mascherina, distanziamento e igiene delle mani.



giovedì 15 ottobre 2020

Deve passare la nottata
















Niente sarà più come prima o tornerà tutto come prima? Me lo chiedo spesso in queste giornate a volte lunghe, a volte corte: in fondo uguali. Vuote. Ma è questa la domanda da porsi o, piuttosto, dovremmo chiederci cosa si potrebbe fare per soffiare lontano l’aria da Bisanzio che opprime i polmoni di noi che viviamo “sospesi tra due mondi e tra due ere”? 
Siamo soli, impauriti, smarriti. L’uomo è per definizione un animale sociale, tende naturalmente a rapportarsi con gli altri, a instaurare rapporti empatici. Si esprime con un linguaggio che non è soltanto verbale, ma è fatto di tanti altri strumenti di comunicazione, oggi dolorosamente compressi. Viviamo nel chiuso delle nostre case, abbiamo quasi azzerato le nostre uscite: ed è giusto così. Però ci manca “la vita di prima”: gli incontri, la spensieratezza di una partita a calcetto, gli abbracci per manifestare l’adesione alla gioia e al dolore altrui. Matrimoni e feste senza invitati, funerali senza partecipanti. Piccoli momenti di una vita quotidiana vissuta in maniera corale dalla comunità che oggi, per il forzato disimpegno dai propri doveri, per il distacco dalla propria natura, appare sfilacciata. 
Tutt’intorno si avverte un deprimente tanfo di decadenza, accompagnato dall’apatica rassegnazione ad una realtà che si immagina asfittica per chissà quanto ancora. In queste condizioni, serve molto coraggio per puntare una fiche sul tavolo verde del futuro, per fare progetti, per coltivare una visione di lungo periodo, per tirare fuori dai cassetti i sogni e farli volare. 
Siamo diventati fragili e precari, la paura del domani è un freno a mano tirato che pietrifica. Tutto sembra essere stato messo in pausa. Si vive ripiegati su sé stessi: in attesa di tempi migliori, si dice quasi giustificandosi. Ma i tempi migliori arriveranno mai, se non saremo noi a creare le condizioni affinché possano maturare, invece di restare inerti? La rassegnazione e la demotivazione sono patologie degenerative, che vanno combattute con forti dosi di passione e di creatività. Deve passare la nottata. Eppure l’alba arriva prima, o almeno se ne ha questa incoraggiante percezione, se si corre incontro al sole. Se si ricomincerà dalla bellezza della vita, che è sempre a portata di mano e che può dare un indirizzo anche a questo tempo in bilico.