Scrivo di te di notte, l’ora del dialogo con le stelle. L’ora dei sogni. L’ora dell’amore. Perché sei stella, sogno e amore. Sei “Pibe de oro” e “mano dei Dios”, sei “Isso”: il liberatore dei popoli oppressi, il riscatto degli scugnizzi, il bambino che grida che il re è nudo mentre attorno il sistema volge lo sguardo da un’altra parte. Per paura o per debolezza. Due sentimenti che non ti appartengono, che non possono appartenere a chi ha respirato la polvere di Villa Fiorito.
mercoledì 25 novembre 2020
Splendi, Diego
domenica 22 novembre 2020
Il volontariato al tempo del Covid
Tutto è nato per caso, sulla chat Whatsapp dei volontari dell’Agape. Ci siamo detti: «Perché non facciamo una videochiamata collettiva, una sorta di riunione dell’associazione “da remoto”? Giusto per vedersi, per come è possibile con l’emergenza sanitaria che ha cambiato molte nostre abitudini, anche le modalità dello stare insieme.
Dal piacere di ritrovarsi al lancio dell’idea è stato un attimo: «Perché non utilizzare le potenzialità della tecnologia per continuare le nostre attività?». E così, in questo fine settimana, siamo ripartiti. Non possiamo fare molto, ma fare qualcosa può essere davvero tanto per chi, in fondo, ha principalmente bisogno di compagnia e di calore. Alcuni di noi hanno partecipato ad una videochiamata con gli anziani della RSA “Mons. Prof. Antonino Messina”, grazie alla disponibilità della direttrice Rossana Panarello e, in questo primo collegamento, di Michela Carbone che ha fatto da tramite tra i volontari e gli anziani: qualche scambio di battute, domande, sorrisi. Un’esperienza ripetuta oggi con una tra i ragazzi speciali che in estate partecipano alla colonia estiva e che a turno coinvolgerà anche gli altri. Anche in questo caso, molta sorpresa e tanta gioia sul display a mosaico.
Non bisogna arrendersi, neanche al lockdown. Per questo siamo decisi ad “esserci” nella nostra comunità, come ci siamo dal 1991: il prossimo, sarà l’anno del trentennale e va festeggiato! A dicembre non potremo mettere in campo le consuete iniziative del “Natale di solidarietà”, ma nel nostro piccolo cercheremo di stare vicino a chi non desidera altro che una carezza, seppure virtuale. Piccoli gesti, sulla scia delle parole di Teresa Sarti, cofondatrice di Emergency, che spiegano il senso delle attività di volontariato: «Se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene».
venerdì 20 novembre 2020
A futura memoria
Il 20 novembre 1989 moriva Leonardo Sciascia: scrittore ed intellettuale eretico, illuminista e cultore dell’arte del dubbio, protagonista di battaglie civili ancora attuali. Un oracolo inascoltato, che spesso dovette scontare la solitudine: «Mi sembra di aggirarmi nella realtà italiana, non come un veggente, ma come un fantasma». Sciascia professò la religione della ricerca della verità, della difesa del diritto, delle regole, della Costituzione. Gesualdo Bufalino, del quale il 15 novembre è ricorso il centenario della nascita, definì l’opera di Sciascia “un unico grande libro sulla giustizia” e appare oggi come un testamento la citazione dello scrittore e drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt, posta da Sciascia in epigrafe al suo ultimo romanzo “Una storia semplice”: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia».
martedì 17 novembre 2020
Ho scelto la vita
“Ho
scelto la vita” è il titolo dell’ultima testimonianza pubblica sulla Shoah
della senatrice Liliana Segre, condivisa il 9 ottobre 2020 nel borgo di Rondine
(Arezzo). Una scelta che le consentì di sopravvivere all’orrore di Auschwitz e di trasformare la marcia della morte in
marcia della vita: camminando “una gamba davanti all’altra, con i piedi
piagati, mentre chi cadeva veniva finito con una fucilata in testa”; brucando nei
letamai alla ricerca di qualcosa da mangiare; cibandosi con la carne cruda di
un cavallo morto, strappata con le unghie e con i denti; succhiando foglie.
Come
fu possibile tutto questo? Liliana Segre lo spiega con una sola parola:
indifferenza. Dodici lettere che lei stessa ha fatto incidere a caratteri
cubitali all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano, realizzato nel
binario 21 della Stazione Centrale, da dove partivano i carri bestiame pieni di
ebrei destinati ai campi di concentramento: «Se pensi che una cosa non ti
riguardi e ti volti dall’altra parte, è lì che inizia l’orrore».
Furono
in tanti, in Italia, a girarsi dall’altra parte. Ed è comodo, per la coscienza
collettiva della nazione, attribuirne la responsabilità in via esclusiva al
fascismo e non, piuttosto, ad un humus culturale razzista, presente nella
società italiana e capace di produrre frutti velenosi ancora oggi. Il “Manifesto
degli scienziati razzisti”, la “Dichiarazione sulla razza” del Gran consiglio
del fascismo (“È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”),
l’esclusione
degli ebrei dalle scuole pubbliche e dallo svolgimento di determinate
professioni (pubblica amministrazione, banche, assicurazioni, notariato,
giornalismo), la negazione dei diritti politici e civili, il divieto di
matrimonio tra cittadini italiani di razza diversa furono atti e provvedimenti
che ebbero largo consenso, così come lo stesso regime fascista fino al 10
giugno 1940. Erano italiani coloro che segnalavano alle autorità, per pochi
soldi, il vicino di casa ebreo. Non dimentichiamolo.
«La
memoria – scrive Ferruccio De Bortoli nella prefazione al libro – è un vaccino
prezioso. Ci aiuta a combattere con intelligenza e moderazione i miasmi del
totalitarismo che una società conserva, nonostante tutto, nel suo inconscio,
nel retrobottega della sua storia collettiva, familiare, personale».
Auschwitz
– scrisse Primo Levi – è “la mancanza di parole per esprimere questa offesa, la
demolizione di un uomo”. Ed è il ricordo di Liliana, ragazzina tredicenne alla
quale viene semplicemente detto di dimenticare il proprio nome, perché da quel
momento sarebbe stata soltanto un numerino tatuato sul braccio. Nell’istante in
cui si diventa una cifra riportata sopra un registro dell’ufficio matricola inizia,
sempre, l’opera sistematica di annullamento della dignità dell’uomo.
Per
Liliana Segre, scegliere la vita significò allora «sognare di essere fuori di
lì, il rumore di un bambino che gioca, un gattino, un prato verde, una
qualsiasi cosa bella». Scegliere la vita, oggi, significa fare opera di memoria
ed assumere collettivamente la funzione delle pietre d’inciampo che in molte
città europee ricordano le vittime del nazismo.
domenica 15 novembre 2020
Giornata mondiale dei poveri
lunedì 2 novembre 2020
2 novembre 2020
giovedì 29 ottobre 2020
Parole
Parole come in un sogno ora vivace ora dai
contorni sfumati, dimenticate all’alba, quando si rintanano nella cuccia
onirica dei fantasmi della mente.
Parole da appuntare sul bloc notes del
comodino sforzando la vista, disegnando nel buio il gancio al quale rimanere sospesi
per non precipitare nel gorgo.
Parole di un matto, intrappolate nel cuore.
Parole dure come il silenzio, come le urla.
Parole altre, osservate dal molo mentre
scivolano nella tasca dell’orizzonte, come le stagioni.
Parole come sirene che violentano la notte.
Parole a tutta pagina, definitive come
fede incrollabile.
Parole impastate dalla frana che va a
valle.
Parole conficcate come chiodi sulla bara.
Parole da tenere in tasca per farsi
compagnia.
Parole come la carezza di un’eco lontana.
Parole incastonate negli occhi.
Parole come unguento per medicare l’anima.
Parole come un diritto per il quale vivere
e morire.
Parole come una liberazione.
Parole da affidare al vento, come il bacio
di Pablo Neruda.
mercoledì 21 ottobre 2020
Antonio Manucra, il geriatra eufemiese in trincea contro il Covid
giovedì 15 ottobre 2020
Deve passare la nottata
domenica 4 ottobre 2020
Ciro Meravigliao
Mi chiamo Ciro e dei miei sessant’anni ho poco da salvare. Nel posto dove vivo da quattro anni c’è gente che va e gente che viene. Con i nuovi arrivati costruisco un fragile castello di amicizia, che crollerà quando andranno via. Ci ricorderemo per qualche tempo, poi i nostri cuori precari continueranno a battere ognuno per conto proprio, come se non ci fossimo mai conosciuti. E pensare che trascorriamo diverse ore insieme, quelle che ogni giorno ci vengono concesse al di fuori delle nostre celle, nel cortile o nella saletta. Un paio, quattro o anche cinque, in base all’umore. Ché a volte non hai tutta questa gran voglia di parlare, di ascoltare sempre le stesse parole. Già, le parole. Alla fine le dimentichi: a forza di discutere continuamente di processi e di procedure, i vocaboli della quotidianità familiare diventano un’immagine sfocata, che si fa fatica a recuperare dal pozzo scuro dell’anima.
sabato 26 settembre 2020
Forza Peppe
Perché proprio a te, Peppe? Perché? Me lo sono chiesto dentro quella chiesa vuota di te. Di te che c’eri sempre, ogni anno, per la ricorrenza dei santi Cosma e Damiano: i santi medici, i santi delle guarigioni. Non sono riuscito a darmi una risposta, come mi succede con tante altre domande ultimamente. È un 2020 di interrogativi angoscianti e dentro ci sei finito pure tu, tuo malgrado.
sabato 19 settembre 2020
Tito Fedele: Ricordanze e riflessioni
La mia prefazione alla ristampa del libro di Tito Fedele: Ricordanze e riflessioni (2020)
A cosa servono i ricordi? Qual è la loro natura? Perché nascono e si incastonano nella mente, a volte sfidando anche la nostra stessa volontà? Se ha ragione Cesare Pavese nel considerare che delle nostre vite ricordiamo gli attimi, non i giorni, può rivelarsi utile imitare il clown di Heinrich Böll e farne “collezione”. È ciò che fa Annunziato Fedele in Ricordanze e riflessioni, compiendo un’operazione che non sempre cede al rimpianto, nemmeno quando prevale la nostalgia per persone, luoghi, storie lontane.
Esiste una sottile distinzione tra questi due sentimenti. Il rimpianto è causato da un passato che opprime, un passato che è ancora presente perché avremmo voluto fare qualcosa e vi abbiamo rinunciato o perché abbiamo compiuto un’azione che, nel presente, consideriamo un errore. La nostalgia può invece avere anche un’accezione positiva, nonostante la sua etimologia (nostos: ritorno; algos: sofferenza) indichi – ad esempio in Milan Kundera – il dolore suscitato dal desiderio inesaudito di “ritornare” ad una condizione di felicità perduta. È il caso dei ricordi piacevoli, che provocano uno stato d’animo di serenità interiore.
I ricordi e le riflessioni di Fedele confermano l’immagine popolare, strettamente connessa alla molteplicità dei rapporti interpersonali che comporta lo svolgimento della professione di “medico di paese”, di un uomo dal vasto sapere e dalla grande umiltà. La familiarità con la quale riesce a “colloquiare” con gli scrittori classici conferisce alla sua formazione la solidità delle radici nodose e robuste di quei vecchi ulivi più volte richiamati nel libro. Letture preziose, certamente favorite dalla presenza, in casa, della fornitissima libreria appartenuta allo zio sacerdote: tomi “pergamenati”, testi sacri, libri di storia e di diritto ecclesiastico, grandi classici e poeti latini minori. Ma anche Shakespeare, Goethe, Hugo: raffinatissimo il rimando a I miserabili per descrivere la malattia che in gioventù lo tiene “stretto come Jean Valjean quando cadde in mano ai vili Thenardier”.
I riferimenti letterari di Ricordanze e riflessioni impreziosiscono i ricordi di Fedele rivestendoli di un’aurea nobile, così come i ricorrenti “intermezzi musicali”, dotte citazioni da musicofilo con la passione per le sinfonie dei grandi compositori, ereditata dal padre. Quel padre che suona il violino in chiesa e che si diletta a pizzicare le corde del suo mandolino per i figli raccolti attorno al braciere, la sera dopo avere consumato la cena. Spesso sono proprio le melodie del grammofono a mettere in moto la macchina dei ricordi, a fare da sottofondo musicale alle conversazioni dell’autore con la propria anima e con la vita fuggita, a illuminare i visi degli amati congiunti.
I ricordi di Fedele sono istantanee che fissano sul foglio immagini suggestive, paradigmatiche della realtà eufemiese nella prima metà del XX secolo. Una società rurale composta da uomini e donne semplici che vivono all’interno di un sistema produttivo di pura sussistenza, fondato per lo più sull’autoconsumo e nel quale il baratto svolge ancora una funzione economica rilevante. Quella in cui Fedele nasce e cresce è la Sant’Eufemia della ricostruzione avvenuta dopo il terremoto del 1908, caratterizzata dall’urbanizzazione degli anni Venti e Trenta nell’area denominata “Pezzagrande”, che però mantiene il centro propulsore nel vecchio sito (Paese Vecchio o Vecchio Abitato), dove continua a risiedere il ceto storicamente dominante sotto il profilo culturale, politico ed economico. Un universo popolato da gente umile, scomparsa tra le pieghe del tempo, i cui “racconti costituivano meravigliose pagine di inedite storie”. Agricoltori, pastori, lavoratori a giornata, calzolai, sarti, falegnami e artigiani che oggi sopravvivono nei racconti di Nino Zucco e nella memoria collettiva.
Sono tempi di stalle, di asini e di muli: tempi di mercanti provenienti dai paesi ionici della provincia reggina che pernottano a Sant’Eufemia, per poi ripartire all’alba. Molte famiglie vivono nelle baracche senza acqua, prive di corrente elettrica e dei servizi igienici. L’alimentazione è povera, la carne quasi sconosciuta, mentre molto praticata è la tecnica dell’essicazione degli alimenti. I fratelli piccoli ereditano gli indumenti dei fratelli più grandi, ma può anche capitare che un cappotto passi dal figlio al padre. La mortalità infantile è alta, così come il tasso di analfabetismo. La vita dei contadini è duro lavoro dalla mattina alla sera, quando – scrive il poeta eufemiese Domenico Cutrì – “seduti scalzi sull’acciottolato/ davanti alla porta di casa/ farfugliavano nel vuoto/ aspettando pensierosi il domani/ per chi riusciva a vederlo”: loro unico svago, la cantina nei giorni di festa. Le donne sono raccoglitrici di olive (“partivano molto presto la mattina, silenziose, mobili ombre nel buio della notte”), braccianti agricole che a casa devono anche badare a nidiate di figli affamati e sporchi.
In questo contesto socio-economico vanno inseriti i “brevi scritti” di Fedele, nei quali le vicende familiari assurgono a paradigma della storia di un’intera comunità. Nel libro scorrono i volti di congiunti e di conoscenti; si avverte il respiro di un secolo trascorso troppo rapidamente, che induce alla malinconia. Un po’ quel che accade leggendo i titoli di coda di un film che affascina e che si desidererebbe non finisse mai: si vorrebbe riavvolgere il nastro per farlo ripartire ancora, dall’inizio. Allo stesso modo, al tramonto della propria esistenza, Fedele rimette in ordine pensieri, ricordi e persone che hanno accompagnato il suo cammino, affinché volti e fatti siano cornice pregiata del suo testamento spirituale: “gli anni seguirono agli anni, innumerevoli tramonti ed altrettante aurore”.
Ricordanze e riflessioni si compone di tre parti, che hanno come filo rosso l’attenzione bozzettistica dell’autore, la precisione nella descrizione di paesaggi, colori e voci della natura, sui quali posa uno sguardo indulgente e paterno. O delicato, come quando “dipinge” l’amata dimora, edificata negli anni Trenta sopra i ruderi di un’antica abitazione patrizia distrutta dai terremoti succedutisi nel tempo a Sant’Eufemia.
Colpisce l’incastro del registro lirico con quello scientifico, che spesso convivono senza stonare. Il linguaggio letterario, elegiaco e a tratti raro, caratterizzato da un ampio ricorso alla figura retorica della similitudine, richiama lo spirito di Omero, Virgilio, Lucrezio, Euripide, Eschilo, Tacito, Esiodo, Ovidio e di tutti i grandi classici latini e greci. Così, il mare viene presentato come il “ponto profondo” del mito greco e, per descriverlo, Fedele declama un repertorio inesauribile di aggettivi qualificativi. A volte, è la stessa costruzione della frase a riprodurre lo stile latino, in particolare nella posizione del complemento di specificazione, posto dinanzi al sostantivo: “i cui rami pendenti lambivano del fiume le acque loquaci”.
L’Arcadia di Fedele ha i suoni e i colori di “Campanella”, che egli paragona alla Pieria: il luogo della mitologia greca dove, secondo Esiodo, furono generate le Muse. La “ridente conca” nella quale il genitore costruisce una piccola casa, che diventerà la residenza estiva della famiglia, è il suo posto delle fragole, il luogo incantato della sua spensierata fanciullezza.
Tra la nebbia del tempo prendono forma e si fanno largo, squarciandola, le figure dei propri cari. Il padre scampato al terremoto del 1908 soltanto perché alle 5.20 di quell’infausto 28 dicembre era già uscito di casa per recarsi negli uliveti. La madre, originaria di Bagnara Calabra e figlia di un capitano di lungo corso morto durante un viaggio verso l’Argentina. I fratelli: Nino, nella seconda guerra mondiale tenente pilota e subito dopo emigrato negli Stati Uniti, dove si afferma come critico musicale per “Il progresso italo-americano”, il più diffuso quotidiano statunitense in lingua italiana nel Novecento. Mimì, che sul fronte greco-albanese contrae una malattia pleuropolmonare che presto lo porterà alla morte. Diego, più volte sindaco di Sant’Eufemia tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, con il quale ha un rapporto di affetto particolare, definito dal ricorso alla similitudine con i Dioscuri: “Forse, nell’infinito spazio percorrendo le eterne vie degli astri e delle comete, ci accosteremo, brillando, con smarriti occhi, ai luoghi dove transitò, con la durata di un sogno, la nostra vita, dove fuggirono le nostre stagioni”. Celestina, che muore tra le sue braccia (“ho poggiato la mia mano sinistra sulla tua fronte e la destra sulle tue mani diafane, per far fluire in te un poco del mio calore e della mia stessa vita”). Sarino, con il quale da adolescente scavalca la cinta del cimitero per portare fiori sulla tomba di Mimì. Marietta, “modellatrice fine di antica oggettistica muraria dal sinistro aspetto”. Ancora: lo zio Diego, “abile oratore” e podestà in epoca fascista: è lui, nel 1926, il gran cerimoniere dell’inaugurazione del nuovo palazzo comunale e dell’acquedotto, alla presenza del gerarca e deputato di origine paolana Maurizio Maraviglia, al quale viene conferita la cittadinanza onoraria; lo scrittore, pittore e scultore Nino Zucco; il pittore Carmelo Tripodi e il figlio Domenico Antonio, che “dipinge pure il soave” poiché è riuscito a trasferire sulla tela i versi della Divina Commedia; Francesca, ragazza di umilissime origini accolta in casa che, dopo la morte, viene tumulata nella cappella di famiglia.
Le riflessioni di Fedele toccano gli arcani temi dell’esistenza, gli interrogativi che gli uomini si pongono, spesso senza riuscire a darsi una risposta, sin dalla notte dei tempi: contemplando la volta celeste o rimanendo incantati davanti alle innumerevoli prove della perfezione del creato. Soltanto il mito e la Bibbia (“ambedue storie sacre”) sono in grado di dare risposte al mistero della vita e della morte, a rassicurare sull’esistenza dell’Aldilà, dove sarà possibile rivivere in eterno i momenti felici della vita terrena.
I pensatori dell’inizio della civiltà alleviano la sete di conoscenza, stimolata dalla consapevolezza dei limiti che gravano la condizione umana come pesante e intollerabile fardello. Un esercizio emozionante e crudele nello stesso tempo, che però consente all’autore di visitare le dimensioni più intime e arcane dell’esistenza umana. Ad esempio, quella onirica: il sogno è il luogo dell’incontro metafisico con i defunti, che si materializzano portando con sé messaggi che Fedele si sforza di interpretare. E se la figura del padre svanisce come l’anima di Patroclo alla vista di Achille, gonfi di lacrime sono gli occhi dei pazienti che, da lontano, scrutano il loro vecchio medico curante.
I ricordi tengono insieme tutto: passato e presente, il senso stesso della vita. Riscattano l’uomo dalle sue miserie quotidiane e lo elevano a un piano di eternità. Quei ricordi che – ci insegna Enzo Biagi – sono la nostra fortuna, perché contengono tutta la bellezza del mondo.
Ecco la ragione per la quale è necessario conservarli con cura e tramandarli: affinché non svaniscano come le stelle alle quali Fedele li paragona, puntini luminosi posti al di sotto della costellazione di Andromeda che nel volgere di poco tempo si dissolvono nel mare.
martedì 11 febbraio 2020
Giornata mondiale del malato

Dal 1992, quando fu istituita da Papa Giovanni Paolo II, l’11 febbraio ricorre la Giornata mondiale del malato. Il tema di questa XXVIII edizione è tutto nelle parole del Vangelo di Matteo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Papa Francesco ha invocato occhi che vedano l’umanità ferita perché capaci di guardare in profondità, occhi che “non corrono indifferenti, ma si fermano e accolgono tutto l’uomo, ogni uomo nella sua condizione di salute, senza scartare nessuno, invitando ciascuno ad entrare nella sua vita per fare esperienza di tenerezza”. Spesso sappiamo tutto di quello che succede nel mondo, ma non ci accorgiamo della sofferenza del nostro vicino di casa. E di sofferenza ce n’è tanta: basta entrare nelle case, soffermarsi, non passare oltre; lottare contro uno dei mali più gravi di questi nostri tempi: l’indifferenza.
La Giornata del malato è tra le iniziative più significative che l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” celebra ogni anno, articolandola in tre momenti. Durante la mattina sono state effettuate le visite domiciliari agli ammalati e la consegna di una statuetta della Madonna di Lourdes. Il pomeriggio è stato invece dedicato alla preghiera, sotto la guida del parroco don Marco Larosa. Presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina” (alla quale l’Associazione ha donato un rosario), don Marco ha condotto la recita del Santo Rosario e impartito il sacramento dell’unzione degli infermi, alla presenza della statua della Madonna di Lourdes, portata all’interno della RSA dai volontari dell’Agape. Infine, la celebrazione della Santa Messa nella chiesa di Sant’Eufemia, conclusa con la “Preghiera per la XXVIII Giornata Mondiale del Malato”, nel corso della quale il presidente dell’Agape Iole Luppino ha ricordato i volontari dell’Associazione che non sono più tra di noi: «Signore, noi volontari Ti ringraziamo per quello che Anna, Adelina, Antonella e Marco ci hanno dato e insegnato in tanti anni di amicizia e di condivisione. Ti chiediamo che dal tuo Paradiso essi possano vegliare sulle loro famiglie e sull’Agape, di rafforzare in ogni volontario il desiderio di impegnarsi per gli altri e di risvegliare nei giovani il desiderio di scoprire la bellezza del donarsi».




sabato 8 febbraio 2020
Lettera ai vertici di Poste Italiane

Sulla Gazzetta del Sud di oggi, la mia segnalazione a Poste Italiane del disagio patito dall’utenza di Sant’Eufemia a causa dell’elevato numero di operazioni svolte quotidianamente dall’Ufficio, a fronte della presenza di due soli sportelli, attivi con turni di lavoro antimeridiani. Ho scritto alla direzione centrale Risorse Umane Organizzazione e Servizi di Roma, a quella per il Sud di Napoli e a quella di Reggio Calabria. Ho chiesto pertanto l’adozione di opportuni provvedimenti, in particolare l’apertura di un terzo sportello e la collocazione del “totem giallo” all’interno dell’Ufficio postale, essendo il “numerino” inidoneo allo smistamento del lavoro sulla base delle diverse tipologie di servizio richiesto dagli utenti.
giovedì 6 febbraio 2020
Rosario Lalà

La storia di Sant’Eufemia è fatta da tantissimi personaggi anonimi, gente poverissima e affamata che a fatica, negli anni della grande miseria, riusciva a racimolare tutti i giorni un misero boccone. Tra le due guerre e nei primi anni del secondo dopoguerra non era inusuale che nelle numerosissime famiglie del tempo si saltasse più di un pasto, o che questo si riducesse a un po’ di pane accompagnato da qualche oliva. Molto triste era poi la condizione di chi viveva da solo e non svolgeva nessun mestiere. A questi poveracci non restava che affidarsi alla carità altrui. Potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è: in una condizione di indigenza generale, slanci di umanità alleviavano la fatica del vivere di questi sfortunati. Si divideva il poco che si aveva.
Lalà (al secolo, Rosario Sabino) era “un innocuo vagabondo”. Così lo definisce Nino Zucco nell’omonimo racconto (Fuoco a Diambra, Bonacci Editore, Roma 1956). Un randagio senza parenti e senza un tetto, che dormiva sopra un giaciglio di “mattoni e pietre con calcinacci” in una vecchia casa terremotata. Indossava vestiti laceri, spesso sacchi rattoppati, i baffi sporchi e la barba ispida. Era letteralmente “a brandelli” e aveva i piedi spaccati dal gelo: «Sembrava che nei talloni gli avessero dato dei colpi d’accetta».
Raccoglieva per terra i mozziconi di sigaretta per alimentare la sua pipa e “si nutriva con il piatto della carità umana”, oppure con la frutta che rubava negli orti. Quando poi la fame diventava troppa, non disdegnava le galline morte “con il morbo”, che arrostiva nella forgia di mastro Rocco il maniscalco.
Il suo era per lo più un parlare senza senso: «Non sapeva fare altro che ridere e dire parole sconnesse». Il massimo del suo divertimento era attendere alla fermata della corriera l’arrivo delle bagnarote “cariche di mercanzie, che vendevano o barattavano con olio e ortaggi”: le seguiva attendendo il momento propizio per sollevare le loro vesti esclamando: «Bella Madonna!», ma spesso finiva inseguito e picchiato dalle possenti donne del mare.
Le buscava spesso Lalà. Era infatti il bersaglio preferito dei ragazzi del paese, che lo prendevano a colpi di pietra per strada oppure si introducevano di notte nel suo nascondiglio, per svegliarlo di soprassalto. Quegli stessi ragazzi che però si presero cura di lui quando si beccò la polmonite: «Rantolava rincantucciato in un angolo umido e fetido», eppure «voleva vicino i suoi ragazzi, e ad essi chiedeva un po’ di cibo e un po’ di vino, soprattutto vino».
Quella volta si salvò, ma una seconda polmonite gli fu fatale. Finiva così la vita di Lalà, il cui corpo, benedetto dal parroco (“che ebbe sempre pietà di lui”), fu portato via dagli spazzini.
A Lalà, tipico “personaggio” di paese, dedicò un suo componimento il poeta eufemiese Domenico Cutrì:
Parivi scemu, ma scemu non eri,
armenu a modu toi, tu ragiunavi,
si ’ncunu ti parrava l’ascurtavi
’mpocu sedutu e ’mpocu standu ’mperi.
Cu eri? Chi facivi? Chi speravi?
La to testa paria senza penseri,
non avivi famigghia, né mugghieri,
ridivi sempri e sempri caminavi.
Tenivi stritta ’nmanu na cortara
di crita, vecchia, rutta e nigru e lordu
tu eri sempri di ’n testa a li peri.
Na cosa avivi bona, lu ricordu,
ca ringraziavi tantu volenteri
cu ti stindiva ndi la manu ’n sordu!
*La fotografia è tratta dal libro di Domenico Cutrì, Cascami. Poesie dialettali, Tipografia La Cartografica, Palermo 1965, p. 90 (a pagina 91, la poesia).
martedì 4 febbraio 2020
My long distance friend Tina e l'Agape

Racconto questa bella storia per tre ragioni: perché la protagonista mi ha autorizzato a renderla pubblica; perché le belle persone vanno indicate come modelli positivi di cittadini del mondo; perché spesso i social sono un luogo dove prevale l’odio, mentre questa storia dimostra che fortunatamente non sempre è così. Puoi utilizzare un martello per attaccare un quadro ad una parete, in modo da renderla più bella; puoi utilizzare lo stesso martello per spaccare la testa a qualcuno che non ti sta particolarmente simpatico. La differenza è sostanziale e sta tutta nell’uso che di un determinato strumento viene fatto.
Con Tina (Fortunata) Ciccone Sturdevant ci siamo “conosciuti” su Facebook nell’aprile del 2016, un mese dopo la pubblicazione negli Stati Uniti di “Through the Circles of Hell: A Soldier’s Saga”, la testimonianza sulla Prima guerra mondiale di Giuseppe Ciccone, suo padre. Una sorta di diario in versi tenuto in un baule fino al 1971, quando viene consegnato dall’anziano genitore alla figlia, che insieme al nipote J. Richard Ciccone (professore presso l’Università di Rochester) decide di darlo alle stampe quarantacinque anni dopo averlo ricevuto, con una traduzione inglese a fronte.
Da allora siamo rimasti sempre in contatto: “keep in touch” è infatti la chiusura delle nostre email e lettere, che firmiamo “your long distance friend”. All’inizio utilizzavamo entrambi l’inglese, poi qualche volta io l’italiano e lei l’inglese, infine entrambi l’italiano.
Tina è infatti nata e cresciuta a Sant’Eufemia. Ha ricordi della vita in paese e di alcuni suoi personaggi degli anni Trenta e Quaranta: ad esempio mi ha più volte scritto del dottore Giuffrè-Napoli (’u medicu da ’rrina), la cui abitazione ha frequentato. Nel 1950, raggiunge con la mamma negli Stati Uniti il padre, due fratelli e una sorella; successivamente sposa Ernest Sturdevant e dà alla luce quattro figli: Gary, Donna, Lisa e Linda. Oggi vive a Silver Spring (Maryland) ed è una nonna e bisnonna felice.
Gli articoli del mio blog hanno restituito a Tina le radici, facendole anche recuperare quella lingua italiana che non utilizzava più da mezzo secolo: così mi ha scritto più volte lusingandomi parecchio, perché lo scopo principale di “Messaggi nella bottiglia” è proprio il recupero della nostra memoria storica. “Fatti di oggi, memorie di ieri” è il sottotitolo del blog: e tra i fatti di oggi ci sono anche le iniziative dell’Agape. Parlare di volontariato non vuol dire “sentirsi belli”: è un tentativo di allargare il campo, di spingere soprattutto i giovani a provare questa esperienza utile per sé e per la comunità nella quale si vive.
Tina ha sempre dimostrato di apprezzare le nostre attività: talmente tanto da decidere di “dare una mano”, nonostante la distanza. Così, inaspettata, è giunta in questi giorni una donazione per la nostra associazione: «Voglio mandare un regaluccio per i bambini aiutati dall’Agape». Un assegno a nome mio, da girare all’Agape “per un programma di tua scelta”, che ha suscitato in tutti noi volontari emozione e gratitudine.
Il contenuto della lettera di accompagnamento è tra i riconoscimenti più belli che abbia mai ricevuto, ma quello lo tengo per me. Grazie, grazie, grazie, mia cara “long distance friend”.
giovedì 30 gennaio 2020
A proposito delle prossime elezioni comunali

Con l’elezione del sindaco di Sant’Eufemia Domenico Creazzo a consigliere regionale, al quale auguro buon lavoro e faccio i complimenti (così come faccio i complimenti anche all’altro candidato Giuseppe Gelardi che, pur non centrando l’obiettivo, ha ottenuto un eccellente risultato), si apre inevitabilmente la partita delle prossime elezioni comunali. Sussistendo infatti causa di incompatibilità tra la carica di consigliere regionale e quella di sindaco, entro sei mesi Creazzo dovrà dimettersi, dopodiché si andrà a nuove elezioni.
Già lunedì, a urne ancora calde, ho ricevuto parecchi messaggi e, ovviamente, la fatidica domanda, sentita anche nei giorni successivi: «Ti ricandiderai?». Al quesito rispondo pubblicamente, con franchezza: chi sarà il prossimo candidato a sindaco, per il mio modo di intendere la politica, è l’ultimo dei problemi. Ho sempre odiato le personalizzazioni e le autocandidature. Il vero quesito, dunque, dal mio punto di vista è un altro: di questo nostro paese cosa vogliamo fare? Quanta gente c’è disposta a fare uno sforzo di generosità per mettersi al servizio della comunità e, soprattutto, di un progetto che voli alto, che tenti di scardinare vecchie logiche e dia la speranza di un’inversione di rotta anche nella quotidianità amministrativa del comune?
Se non c’è il sogno, non c’è politica, ma soltanto gestione di (poco, pochissimo ormai nei comuni) potere. E io non posso esserci.
Se c’è il sogno, se ci sono giovani e meno giovani innamorati di questo nostro paese che accettino di mettersi in gioco e che, soprattutto, accettino di metterci la faccia (perché, dopo, è facile lamentarsi perché “al comune ci sono sempre gli stessi”), che accettino di diventare protagonisti attivi e non spettatori disincantati della fase che si è ora aperta, allora io ci sarò.
Credo di avere sempre dato prova di non coltivare ambizioni personali. È notorio che nelle passate elezioni ero disposto a fare non uno, ma dieci passi indietro, pur di arrivare ad una soluzione di lista unitaria. Cosa che allora non è stata possibile, con mio grande rammarico. Ci sarà questa possibilità? Non lo so. So però che dall’ipotesi di un progetto che sia il più inclusivo e condiviso possibile dipenderà o meno la mia presenza. A queste condizioni potrò esserci, con il ruolo che, tutti insieme, decideremo per tutti coloro che accetteranno la sfida. Tutti insieme.
Ho sempre fatto politica con spirito di servizio e di lealtà nei confronti dei miei compagni di viaggio, sia quando sono stato protagonista, sia quando ho avuto un ruolo più defilato. Spirito di servizio significa che le decisioni vanno prese collegialmente: elaborazione di un programma elettorale, selezione dei candidati a consigliere, decisione su chi sarà il candidato o la candidata a sindaco (l’ordine non è casuale).
venerdì 10 gennaio 2020
La cura

Ero poco più che un adolescente quando cominciai ad ascoltare Franco Battiato nelle musicassette EMI. All’inizio mi incuriosiva questo personaggio singolare, anche se non riuscivo a cogliere tutti i riferimenti culturali che le sue canzoni suggerivano. Mi affascinavano la profondità del pensiero e l’eclettismo di una produzione improntata sulla sperimentazione artistica. Intuivo che i suoi testi contenevano più livelli di lettura anche quando l’orecchiabilità del brano poteva trarre in inganno, come nelle celeberrime “Centro di gravità permanente” e “Bandiera bianca”. Tutto questo mi bastava: è stato il punto di partenza per entrare in mondi a me sconosciuti; mi ha suggerito letture e domande sul mondo, sugli uomini e sul rapporto con il divino.
Mi è venuto in mente questo mio “incontro” con Battiato, ascoltando per caso alla radio “La cura” (album: “L’imboscata”, 1996). Con la tristezza nel cuore per le condizioni di salute che hanno determinato il ritiro di Battiato dalle scene e alimentato le voci di una misteriosa malattia che ne avrebbe intaccato le facoltà mentali. La più atroce delle condanne per chi ha cercato di spingere la mente oltre i gretti accadimenti terreni e materiali.
Ho chiuso gli occhi e ho cercato di concentrarmi sui versi composti da Battiato e dal filosofo Manlio Sgalambro, per “respirarli” a pieni polmoni. Non so se “La cura”, come qualcuno sostiene, sia la più bella canzone d’amore italiana. Graduatorie di questo genere sono antipatiche. Come si fa a stabilire se sia più bella di “Caruso” (Dalla), “La costruzione di un amore” (Fossati), “Vorrei” (Guccini), “Sempre e per sempre” (De Gregori)? Si potrebbe continuare a lungo.
“La cura” non è una semplice canzone d’amore. Tratta dell’amore nella sua forma più alta e universale, quella capace di elevare lo spirito e di condurre l’uomo alla scoperta della sua vera essenza, temi che Battiato ha sviluppato attraverso lo studio delle dottrine religiose orientali e la pratica del sufismo. Se il verso “tesserò i tuoi capelli come trame di un canto” è un inno d’amore, “percorreremo assieme le vie che portano all’essenza” richiama il misticismo già affrontato nel brano “E ti vengo a cercare”.
Per qualcuno, l’io narrante della canzone è Dio stesso. Sarà Dio a prendersi cura dell’artista, un “essere speciale”. Lo proteggerà da paure, turbamenti, ingiustizie, inganni, fallimenti. Gli porterà il silenzio e la pazienza. Percorrerà al suo fianco le vie che portano all’essenza. Gli donerà le leggi del mondo.
Mentre le parole libravano nell’aria, pensavo a Battiato oggi. Forse sofferente, forse “non presente a se stesso”: o forse, finalmente al di là del tempo e dello spazio, nella condizione di pace inseguita per tutta la vita.
martedì 7 gennaio 2020
Salviamo Favazzina

Dopo le mareggiate del 23-24 dicembre, Favazzina è uno strazio. Il mare ha travolto le sue caratteristiche e graziose spiaggette, portando via tutto. Quel che è rimasto somiglia tanto a un campo di battaglia subito dopo un bombardamento. Terra arata, rivoltata, franata. Spaccature lungo il poco di spiaggia rimasta, profonde come ferite dell’anima.
Favazzina è uno dei miei luoghi dell’infanzia. A Favazzina mio padre mi ha insegnato a nuotare, quarant’anni fa. Favazzina è stata teatro delle gare di resistenza in apnea tra bambini. A Favazzina mi sono tuffato per la prima volta dagli scogli sull’acqua limpida. Gli stessi scogli che, adolescente, ho esplorato a caccia delle patelle, da staccare con il coltello e divorare subito dopo una veloce sciacquata sulle piccole onde.
Tutte le estati degli anni 80 le ho trascorse a Favazzina, gli occhi felici e il sale sulla pelle, spruzzi e tuffi, gol e parate. Favazzina sono i miei fratelli e i miei cugini francesi, sarabanda giocosa con seguito di ombrelloni e borse frigo gigantesche con dentro frutta, panini e bibite. Favazzina è la Toyota Corolla di mio zio Carmelo, nello stereo le musicassette di Johnny Hallyday e Adriano Celentano per un mese di fila, mentre mia zia Gigì gli intima di andare piano non appena supera i 100 km/h.
Alla fine degli anni 90, Favazzina fu per me una piacevole riscoperta, fatta insieme a tanti altri amici e a tanti bambini, ospiti dell’Orfanotrofio Antoniano di Sant’Eufemia, che per tutto il mese di luglio con i volontari dell’Associazione “Agape” accompagnavamo al mare. Una colonia estiva che per un decennio abbiamo organizzato portando a Favazzina bambini di Altamura e Napoli, ma anche disabili e ragazzini di Sant’Eufemia provenienti da nuclei familiari disagiati.
Da qualche anno Favazzina mi attende a settembre, il periodo in cui preferisco andarci per lasciarmi cullare dalle onde e dal silenzio. Nella solitudine della “mia” spiaggia ho letto Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo ed è stata una doppia emozione.
Ora è tutto molto doloroso. La strada d’accesso è crollata e della stessa spiaggia non è rimasto quasi niente: una lingua ristretta di massi sputati dal mare. La furia del mare si è abbattuta anche sui miei ricordi di bambino, di adolescente, di adulto. Come se abbia portato via anche una parte di me.
Favazzina deve continuare a vivere anche per noi, suoi innamorati. Sul sito charge.org Carmen Santagati ha promosso una petizione (“Ricostruiamo Favazzina di Scilla distrutta dal maremoto”), che ho sottoscritto e che chiedo di sottoscrivere ai tanti che come me amano quest’angolo di Paradiso.






giovedì 2 gennaio 2020
Mozione contro la riapertura della discarica di contrada “La Zingara”

La mia richiesta segue quella analoga presentata da Adone Pistolesi, del gruppo consiliare “Rinascita per Bagnara”, in occasione del consiglio comunale tenuto a Bagnara il 30 dicembre 2019 (la cui votazione è stata rinviata). Essa segue ad altre due mie azioni sulla vicenda: la prima (2 settembre 2019), la richiesta al sindaco Creazzo di “farsi promotore di un’iniziativa (un incontro o un consiglio comunale aperto) che coinvolga le realtà associative della nostra comunità e la sua popolazione, per fare il punto della situazione e per valutare quali eventuali azioni possiamo tutti insieme intraprendere per difendere il nostro territorio”; la seconda (12 dicembre 2019), una nota nella quale lamentavo che “ad oltre tre mesi di distanza questo auspicato coinvolgimento dell’opposizione, delle realtà associative e della popolazione di Sant’Eufemia” non c’è ancora stato. Ritengo che una determinazione ufficiale da parte del consiglio comunale possa essere utile e rafforzare la posizione di contrarietà alla riapertura della discarica espressa dal sindaco Creazzo in diverse circostanze.
Al Presidente del Consiglio comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte
Mozione: Richiesta di inserimento, come punto all’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale, di una mozione contro la riapertura della discarica in contrada “La Zingara”, nel comune di Melicuccà
Premesso
che con una nota stampa del 2 agosto 2019, il Settore rifiuti della Regione Calabria ha comunicato la volontà di riaprire entro 24 mesi la discarica di contrada “La Zingara”, ricadente nel comune di Melicuccà, ma confinante con Sant’Eufemia d’Aspromonte e con Bagnara Calabra;
tra la popolazione e gli operatori economici del territorio ha generato molta preoccupazione il dissequestro della discarica, permanendo forti perplessità circa l’impatto negativo che la stessa, situata alle porte dell’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte, avrebbe sotto il profilo ambientale, turistico ed economico;
già in anni abbastanza recenti le popolazioni locali hanno manifestato la propria contrarietà, mettendo in campo diverse iniziative di protesta che portarono al sequestro della discarica stessa;
è necessario mettere in campo una serie di iniziative conseguenti, con il coinvolgimento della popolazione, delle associazioni del territorio e delle amministrazioni dei Comuni limitrofi
Chiedo
l’inserimento, come punto all’ordine del giorno del prossimo Consiglio comunale, di una mozione contro la riapertura della discarica di contrada “La Zingara” di Melicuccà.
Il Consigliere comunale Domenico Forgione – “Per il Bene Comune”
Sant’Eufemia d’Aspromonte, 31 dicembre 2019
mercoledì 1 gennaio 2020
Buon 2020

Buon anno
a chi non ci sperava
a chi vede il bicchiere mezzo pieno
a chi stringe forte quando abbraccia
a chi si prende cura degli altri
a chi rispetta la natura
a chi non odia
a chi fa collezione di attimi
a chi canta sotto la doccia
a chi singhiozza nel buio di un cinema
a chi ripensa al finale di un romanzo
a chi crede in qualcosa
a chi non smette di cercare
a chi ama
a chi corre per strada
a chi danza sotto la pioggia
a chi si commuove guardando le stelle
a chi si fa cullare dal silenzio
a chi trattiene il fiato
a chi fa sogni colorati
a chi tenta la giocata di tacco
a chi beve in compagnia
a chi si ribella
a chi trova una ragione per sorridere
a chi pianta un seme
a chi resiste e vive, vive e resiste.